Promuovere, proteggere e garantire il pieno e uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone disabili, e promuovere il rispetto per la loro intrinseca dignità

 

Così inizia il primo dei 5 articoli che compongono la Convenzione delle Nazioni Unite  sui diritti delle persone con disabilità (2006), che enuncia il cambiamento epocale: dal paradigma dei bisogni al riconoscimento dei diritti. La Convenzione, nei suoi principi generali, afferma che  la disabilità è “parte della diversità umana e dell’umanità stessa”.

Tuttavia, tuttora la disabilità è vista ancora in modo diverso in molti contesti sociali, e stereotipi, pregiudizi e approcci dichiarati superati continuano a suggestionarne la rappresentazione sociale., ma anche le politiche e le logiche di intervento.

Si pensi alla difficoltà di denominare le persone con disabilità. Alcune parole usate in passato in ambito scientifico (es. deficiente, handicappato) sono divenuti ben presto nel linguaggio comune dei termini stigmatizzanti, se non addirittura dispregiativi. Altre espressioni più recenti - come ad esempio “persone con bisogni speciali” o “diversamente abili”, non sono però corrette, né realmente inclusive, poiché identificano ancora i disabili come una categoria.

Il termine indicato attualmente dall’OMS è “persone con disabilità”:  persone cioè, diverse per temperamento e storia come tutte le persone, ed eterogenee anche per le problematiche (fisiche, sensoriali,  psichiche…). E la disabilità viene definita dall’OMS, nell’ICF[1], la classificazione che descrive e misura salute e disabilità: “Conseguenza o risultato di una complessa relazione tra la condizione di salute di un individuo ed i fattori contestuali (personali e ambientali), che rappresentano le circostanze in cui vive l’individuo”.

Sono oltre un miliardo le persone con disabilità nel mondo, una su sette,  e il numero è destinato ad aumentare esponenzialmente nei prossimi anni x l’invecchiamento della popolazione e l’aumento delle malattie croniche. Le persone con disabilità hanno gli stessi bisogni di salute delle altre persone, ma probabilità molto maggiori di non avere accesso alle cure, trovare operatori sanitari incompetenti e non facilitanti, essere trattate male negli ospedali. Una su due non possono permettersi le cure sanitarie e tante famiglie molto spesso si riducono in povertà per provvedere alle cure necessarie. 70 milioni di persone hanno bisogno di una carrozzina, ma più dell’ 80-85% di loro non ne ha la disponibilità e tanti altri ausili per l’autonomia (occhiali, apparecchi acustici…) non sono accessibili a chi ne è in necessità.

Si può parlare di disabilità complessa, quando i deficit funzionali sono multipli e coinvolgono le componenti organiche, funzionali, cognitive e comportamentali della persona, per cui la persona necessita di elevata assistenza. Sono causa di disabilità complessa malattie genetiche o malattie rare, congenite, ma anche altre malattie che, indipendentemente dalla noxa patogena, coinvolgono gravemente il sistema nervoso, causando dipendenza nelle attività di vita quotidiana e spesso anche disturbi respiratori, di comunicazione, deglutizione, ecc. Queste condizioni necessitano di una «presa in carico» a lungo termine da parte dei servizi (long term care).

La presa in carico si può definire come “Progettazione e percorso di azioni e interventi assistenziali specifici rivolti al soggetto”. La presa in carico è sanitaria o sociale? I sistemi sanitario e sociale hanno ciascuno propri obiettivi; è sufficiente che siano connessi da politiche e protocolli organizzativi, pur importanti? Potremmo dire che si tratta di una di quelle false dicotomie, di cui parla un recente editoriale di Lancet[2]: prevenzione o riabilitazione? formazione o azione? cure primarie o specialistiche?… Serve un pensiero integrato!  Anche per rispondere efficacemente (outcomes e costi) ai bisogni molteplici delle persone con disabilità complessa, è fondamentale  una presa in carico fortemente integrata, a tutti i livelli: istituzionale, gestionale, professionale[3]. Anche a livello dei singoli professionisti. Lavorare in sinergia, infatti, richiede una organizzazione adeguata e competenze specifiche, ma è innanzitutto  una mentalità e una responsabilità.

Come evidenzia il modello di Enthoven[4], nel creare integrazione tra sistemi sociali e sanitari sono importanti anche gli Informal carers: familiari, amici, badanti. E si potrebbero aggiungere anche parrocchie, polisportive, vicini di casa, negozi, ecc. Già nel 2002, l’Organizzazione Mondiale della Sanità[5] sottolineava che per l’aumento delle malattie croniche provocato dai cambiamenti demografici e le risorse sempre più limitate, i servizi socio-sanitari non riescono più da soli a leggere i bisogni delle persone né a rispondervi. E’ necessario che l’intera comunità divenga in qualche modo “competente” rispetto all’aiutare chi tra i suoi membri è più in difficoltà.

In coerenza con il modello bio-psico-sociale dell’OMS e il paradigma di disabilità basato sui diritti umani, al centro della presa in carico integrata c’è l’utente, la singola persona con disabilità, con la sua dignità e la vita che desidera vivere. E la qualità di vita è il focus su cui concentrare l’attenzione in tutti gli interventi. Al di là delle diverse definizioni, la comunità scientifica considera la qualità di vita un costrutto multidimensionale misurabile, con indicatori oggettivi e soggettivi. Da almeno 20 anni, lo psicologo Robert Schalock già presidente dell’AAIDD (American Association on Intellectual and Developmental Disabilities), autore di molteplici ricerche e studi sulla qualità di vita, ha evidenziato che il miglioramento della qualità di vita è da considerare una misura fondamentale dell’efficacia dei programmi riabilitativi e dei modelli organizzativi.

Cambiare il focus di attenzione - da qualità della cura a qualità della vita della persona con disabilità - provoca una radicale trasformazione della presa in carico. Cambiano gli obiettivi: da centrati su servizio offerto, terapie erogate e orientati al processo, ad obiettivi centrati sulla persona e sugli esiti a lungo termine; cambia il contenuto della presa in carico, non più puramente gestionale, ma costituito dai sostegni che è necessario offrire alla persona per migliorare la sua vita, e  tra i sostegni sono compresi gli interventi dei professionisti o degli Enti deputati formalmente a fornire assistenza e cura.

La cultura scientifica oggi concorda su alcuni punti fondamentali di buone prassi. La presa in carico di una persona con disabilità complessa deve avere un approccio ecologico, cioè tener conto dell’ambiente in cui vive. L’educazione, la riabilitazione devono promuovere il funzionamento del soggetto non fine a se stesso, ma rivolto al suo sviluppo nell’ottica della qualità di vita, ovvero per aumentare con adeguati sostegni il livello di soddisfazione per la sua vita e garantire inclusione sociale.  Infine, prendere in carico una persona con disabilità complessa significa necessariamente lavorare per il suo progetto di vita.

I momenti di transizione tra le fasi evolutive della vita di una persona (passaggi scolastici, adolescenza, ingresso nel mondo del lavoro, maturazione affettiva e sessuale, indipendenza dalla famiglia, pensionamento, anzianità…) sono per tutti carichi di rischi e di opportunità, alla ricerca di un nuovo equilibrio. E questo accade anche per le persone con disabilità che necessitano di sostegni più o meno importanti, ma hanno i medesimi bisogni esistenziali di riuscita e autodeterminazione. Un aspetto da considerare riguarda i cambiamenti di ruolo e le riorganizzazioni della famiglia, che necessariamente accompagnano i cambiamenti legati alla crescita della persona, tanto da poter parlare di transizioni del sistema «persona/famiglia». E’ quindi una sfida comune per i sistemi educativi e i servizi sociosanitari, sia in età evolutiva che in età adulta, quella di finalizzare il proprio lavoro nel momento presente alla costruzione di autonomie focalizzate sul ciclo di vita e perseguire in modo congiunto la qualità di vita della persona con disabilità e la qualità di vita della sua famiglia.

Da anni molti studiosi stanno evidenziando che il benessere economico non sempre è indicatore di migliori condizioni di vita. Nell’approccio di Amartya Sen, sviluppato da Marta Nussbaum, l’eguaglianza tra gli esseri umani dev’essere valutata in termini di opportunità e di scelte, in base ai loro valori di riferimento[6].  Ivan e Roy Brown ricordano agli operatori della disabilità che tra gli indicatori della qualità di vita è cruciale il grado di soddisfazione delle esigenze espresse o implicite della persona[7].

In un altro modello di qualità di vita (dell’AAIDD) per i disturbi del neurosviluppo sono valutati otto domini: Benessere emozionale, Relazioni interpersonali, Benessere materiale, Sviluppo personale, Benessere fisico, Autodeterminazione, Inclusione sociale, Diritti e Empowerment. Gli ultimi tre sono considerati predittori chiave della qualità di vita, in particolare l’autodeterminazione: la possibilità di operare delle scelte è cioè un elemento centrale nell’aumento della qualità di vita! Si pensi per esempio alle persone con disabilità molto gravi: spesso non scelgono neanche quando mangiare, cosa mangiare e a che velocità (se sono imboccati). Ma perché le persone con disabilità complessa possano operare delle scelte è fondamentale offrire loro opportunità di fare esperienze. Senza conoscere cose diverse da quelle abituali, infatti, nessuno può realmente scegliere.

È una questione di politiche inclusive, di diritti da far rispettare, di “empowerment”, che significa proprio rafforzare consapevolezza e promozione dei propri diritti, in prima persona o attraverso le organizzazioni di persone con disabilità o familiari. Ma non bastano convenzioni internazionali, buone leggi, advocacy… Nessuna persona può considerarsi immune dalla disabilità, che può interessare l’esistenza di ciascuno in un determinato momento senza prevedibilità.  E’ necessario che tutti i cittadini difendano concretamente questi diritti, operando con sforzo attivo ogni giorno per una società a misura di tutti, a cominciare dal rispettare gli spazi riservati o dallo scegliere locali accessibili per le proprie spese o per il divertimento, sapendo che il proprio atteggiamento ha un impatto significativo sulla vita degli altri.

E’ un bisogno primario di ogni persona, infatti, sentirsi riconosciuta, amata e stimata, protagonista della propria vita e del vivere comune, perché “Vivere senza esistere è la più crudele delle esclusioni”[8].

È la relazione interpersonale che integra realmente e permette la realizzazione di ciascuno e il crescere della comunità in cui si vive, soprattutto quando ha carattere di reciprocità.

Mariagrazia Arneodo - Centro di Riabilitazione Opera don Guanella - Roma

[1] WHO 2001. International Classification of Functioning, Disability and Health. trad. it. ICF, Trento, Erikson, 2002

[2] False dichotomies in global health: the need for integrative thinking. The Lancet, February 11, 2017

[3] Ervin DA et al. Healthcare for persons with intellectual and developmental disability in the community – Frontiers in Public Health 2014

[4] Enthoven AC. Integrated delivery system: the cure for fragmentation. Am J Manag Care Dec 2015

[5] WHO. Innovative Care for Chronic Conditions. Building blocks for Action. Global Report 2002

[6] Magni SF. L’etica delle capacità. La filosofia pratica di Sen e Nussbaum. Bologna, Il Mulino, 2006

[7] Brown I, Brown RI Quality of Life and Disability. An approach for Community practitioners Paperback – April 15, 2003

[8] Gardou C. La société inclusive, parlons-en. Il n’y a pas de vie minuscule. Eirès 2012

 

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