cos'è per me la professionalitàCome la esercito? Fin dall’inizio della mia professione di medico è stato molto chiaro per me che il paziente doveva occupare un posto centrale in essa. Esercitandola, poi, ho capito che questo atteggiamento si doveva tradurre in scelte concrete, alle volte piccole, ma sostanziali.

Nel mio lavoro in riabilitazione, il primo colloquio è molto importante per me. Cerco di ascoltare bene il paziente, di capire bene come lui o lei interpreta la sua malattia o limitazione, come la vive, cosa si aspetta e quanto è motivato.

Solo dopo posso fare con ciascun paziente un programma non standard, ma su misura, per aiutarlo e motivarlo a raggiungere obiettivi possibili. Prendo in considerazione le sue abitudini, i modi di vivere in cui si trova bene, senza voler imporre i parametri che io considero come benessere.

Poi, nel lungo cammino della riabilitazione, è essenziale cercare di mantenere viva la sua motivazione, prendermi su i suoi pesi e aiutarlo a fare via via i passi proporzionati alle sue capacità, facendogli scoprire che ognuno ha un valore come persona e che anche lui ha da dare un contributo alla società.

Ho fatto una forte esperienza con un paziente abbastanza giovane, autista di professione, che in un incidente aveva perso tutte e due le gambe. L’ho trovato schiacciato dalla situazione, non voleva fare più nulla, nessun altro lavoro lo interessava. Voleva solo essere dimesso al più presto e ottenere il riconoscimento della sua invalidità. Abbiamo cercato di motivarlo, senza ottenere alcun risultato. Con l’équipe (composta da psicologo, assistente sociale, fisioterapista, oltre che da me, medico) abbiamo pensato di affidarlo in trattamento a un fisioterapista esterno alla nostra équipe, che aveva perso una gamba e usava una protesi. Gradualmente si è instaurato un rapporto tra i due, e si è riusciti a impostare dei programmi di riabilitazione accettati dal paziente.

Ho capito quanto sia importante ascoltare la persona prima di parlare, senza giudicare, come nel caso di un paziente che aveva perso un piede in un incidente mentre guidava in stato di ebbrezza. Ho cercato di capirlo fino in fondo, ascoltandolo mentre sfogava il suo dolore, senza cercare di infondergli subito coraggio. Da questo ascolto profondo è nata nel paziente la fiducia, che ci ha permesso di elaborare insieme un piano di cura.

Nell’instaurare un rapporto con il paziente, è importante renderlo consapevole del suo ruolo di protagonista. Un paziente tossicodipendente, ancora in fase di disintossicazione, aveva avuto un incidente stradale in cui aveva subito un forte trauma con fratture multiple diffuse. La riabilitazione si presentava lunga e difficile, e, anche se aveva intrapreso il percorso con entusiasmo, avevo l’impressione che non fosse abbastanza realista. Voleva continuare la cura disintossicante. Con l’équipe abbiamo impostato un programma facendo attenzione al bisogno di analgesici (la sua tolleranza al dolore era minima), a dosare la fisioterapia e ad aiutarlo a metterla in pratica con costanza, nonostante le sue resistenze. Cercavamo ogni volta di guidarlo nelle scelte, ma non obbligarlo. Alcuni infermieri hanno creato con lui un rapporto personale, tale da permettergli di aprirsi ed essere così aiutato a non ricadere nella tossicodipendenza. Lo psicologo ha effettuato con lui colloqui regolari. Nonostante i momenti di difficoltà, è riuscito a concludere la cura disintossicante e ad accettare la sua situazione, anche se peggiore delle aspettative, perché è rimasto sulla sedia a rotelle. Nel periodo di tempo in cui è stato in terapia da noi, è riuscito a fare dello sport e a praticare degli hobby, trovando un modo di vivere del quale era contento.

Cerchiamo di migliorare il più possibile la qualità di vita di ogni paziente, mantenendolo nel suo ambiente, con aiuti domiciliari infermieristici, fisioterapie continuate, o anche adattamenti nell’abitazione, come nel caso dei mutilati di guerra, per ritardare il loro trasferimento in una casa di cura. Facciamo anche sentire loro l’apprezzamento per quello che hanno fatto per tutti noi.

La cura del paziente richiede anche attenzione al contesto familiare in cui vive. Un paziente giovane aveva avuto un infarto cerebrale; si riscontravano progressi dal lato fisico, ma restavano tanti deficit cognitivi, dei quali però non era cosciente. Il suo carattere era cambiato, era diventato impulsivo, rigido, con disturbi alimentari e di comunicazione. La moglie si opponeva alla dimissione, perché temeva il cambiamento di personalità del marito, che faceva difficoltà a riconoscere. Venivano fuori problemi non risolti. Abbiamo avuto diversi colloqui con la moglie, spiegandole la malattia e le sue conseguenze e cercando di trovare insieme quale fosse il modo migliore per relazionarsi a lui. Poi abbiamo programmato un lungo periodo di assistenza, che prevedeva il ritorno a casa ogni fine settimana e colloqui settimanali con entrambi. Anche dopo le dimissioni, il paziente ha mantenuto un contatto costante con il Centro e sono continuati con regolarità i colloqui con l’assistente sociale, per aiutare la stabilità del rapporto.

Un altro aspetto del mio lavoro è reinserire i pazienti nel processo lavorativo, in un posto adeguato al nuovo stato e, se per anni non hanno più lavorato o hanno fatto domanda di invalidità, “ri-analizzare” la loro situazione. In questo lavoro è importante non lasciarsi condizionare da fattori esterni, così come dall’aspetto del paziente. Una volta abbiamo seguito un paziente che non lavorava più da vent’anni; il suo aspetto era molto trasandato e sporco. Tutti mi consigliavano di mandarlo via subito, non era da esaminare. Per trattarlo con dignità, però, sono andata a cercare degli abiti puliti, che alle volte riceviamo dalle persone, e ho chiesto agli infermieri di aiutarlo a fare la doccia e a vestirsi con gli abiti puliti, dopodiché l’avrei visitato. Poi, l’ho visto nel mio studio, come tutti gli altri pazienti. Dagli esami è risultato che, effettivamente, non era abile al lavoro, ma almeno ci siamo parlati bene e con rispetto.

In alcuni casi, poi, è solo attraverso la comunicazione che riusciamo a far accettare ai pazienti situazioni difficili, che loro considerano ingiuste, come ad esempio le liste d’attesa per interventi chirurgici non urgenti, o l’impossibilità di eseguire un intervento in caso di gravi co-morbidità.

di AINO MIRJAM INKERI KELO

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