All’inizio di quest’anno è stato pubblicato il mio libro dal titolo “Soul Matters: the spiritual dimension within healthcare.” 
Il motivo di un tale libro? Sono un GP (General Practitioner o Family Doctor) che vuole dire  “medico di famiglia” in Gran Bretagna. Ci  prendiamo cura delle persone dal grembo materno fino alla morte. Da noi, la maggior parte della gente viene curata nella comunità. Pochi vedono uno specialista – pochi vanno in ospedale – almeno questa sarebbe l’idea. Curiamo le malattie, ma cerchiamo anche di prevenirle. Qualche volta succede che devo andare a trovare qualcuno a casa per via in genere della gravità della malattia o della poca mobilità del paziente.  Questo il caso di Molly – almeno così la chiamo nel libro – affetta da artrite reumatoide con la tipica deformazione delle mani. Aveva subito tre ictus cerebrali che l’avevano lasciata paralizzata da un lato. Ciò che mi colpiva in lei però non era la presentazione tipica di un caso di artrite reumatoide o di un ictus, ma la sua serenità davanti alla “tragedia” del disfacimento del suo corpo.  Il caso di Molly mi ha fatto riflettere e mi sono chiesta se io sarei stata capace di affrontare la malattia come lei. E mi sono domandata , “quali risorse interiori usano i pazienti per affrontare le malattie?”. Molly è solo un esempio di paziente. Ho fatto allora uno studio qualitativo per un Master's degree facendo la ricerca in questo campo e da lì, anni dopo, è uscito il libro.
Ma che cosa ha da fare la vita interiore con la medicina? Dalla mia esperienza assistendo i malati di vario tipo (chi con una fede religiosa, chi senza) ho visto che c’è spesso tra esse un legame stretto. Virginia Woolf era una grande scrittrice inglese. Soffriva di una forte depressione. Lei si chiede perché la malattia che suscita un “mutamento spirituale”, non viene considerato insieme “all’amore, all’invidia e alla guerra” come uno dei grandi temi della letteratura.


Quando assistiamo un paziente, non si tratta semplicemente di curare un organo, di rettificare le analisi del sangue, di far funzionare un sistema biologico. Si tratta di prendersi cura di una persona. Nella persona ci sono tante dimensioni – quelle più ovvie sono la dimensione fisica, mentale, emotiva, sociale e culturale. C’è anche però la dimensione spirituale. Dipende dalla persona, dalla sua personalità e storia, ma senz’altro una o più di queste dimensioni giocano un ruolo più o meno importante. 
La definizione della salute dell’OMS è ben conosciuta: Non solo l’assenza della malattia, ma lo stato di completa salute fisica, mentale e sociale. Però il dizionario medico di Dorland ha una definizione molto interessante. Lì è scritto che la salute è lo stato dove una persona funziona bene nel corpo, nella mente, nel sociale e nello spirituale per esprimere tutte le proprie potenzialità nell’ambiente dove vive.
Oggi la dimensione spirituale nella medicina è oggetto di studio da parte di vari ricercatori. Ma già più di 40 anni fa Sir Alister Hardy, uno scienzato, aveva cercato di vedere se l’uomo aveva una dimensione spirituale. Seguace di Darwin, lui si definiva un naturalista e un agnostico in ricerca. Attraverso la sua ricerca aveva concluso che la dimensione spirituale nell’uomo era in qualche modo legata al processo evolutivo. A seguito di interviste con migliaia di persone, Hardy aveva concluso che la dimensione spirituale includeva tra le sue componenti:
•    speranza e ottimismo
•    liberazione dalla paura della morte
•    senso di guida, vocazione e ispirazione
•    percezione di un senso dietro agli avvenimenti
•    percezione di una presenza non umana
Hardy aveva fatto la sua ricerca sugli adulti, mentre Robert Coles, specialista di psichiatria pediatrica e professore all’Università di Harvard, ha studiato la vita spirituale nei ragazzi. Coles ha visto che i bambini e i ragazzi con e senza una vita religiosa hanno una vita spirituale molto attiva. Si chiedono il significato della  vita, sia quando tutto prosegue bene, sia quando affrontano le difficoltà.
L’anno scorso ho fatto una ricerca su Medline usando le parole “la dimensione spirituale e la salute”. Ho trovato più di 1300 riferimenti. Quindi è un argomento che interessa tanti... Però è importante?
Trevor Smith, un medico della Gran Bretagna che si è trasferito negli USA, ha scritto un libro basato sulla sua esperienza clinica. In esso afferma che tante persone, che si rivolgevano a lui dicendo di avere “la depressione” o/e “l’ansia”, avevano invece ciò che egli definisce “malessere esistenziale”. Smith diceva che questo fenomeno si osserva specialmente in Occidente perché la società con tutto ciò che ci offre (per esempio la televisione) non ci permette di riflettere profondamente, perché ci ‘anestetizza’. Negli anni trenta del secolo passato, Carl Jung ha osservato che tanti pazienti venivano da lui non perché avevano delle vere malattie mentali, ma perché non riuscivano a scoprire il perché della vita.



Mi sembra che il non trovare il perché della vita, il sopraggiungere di una malattia terminale o di una malattia cronica, qualsiasi malattia che scombina il cammino “sicuro”della propria vita (anche se si tratta di qualcosa che a livello medico oggettivamente potrebbe sembrare non grave) – tutte queste cose possono condurre al malessere spirituale (“spiritual distress” in inglese). Nella letteratura, ho trovato qualche definizione dell’angoscia spirituale. Fra l’altro, un’associazione statunitense di infermieri che si occupano di cure palliative descrive così i sintomi ed i segni del malessere spirituale:
•    chiedersi il perché della vita
•    paura di addormentarsi
•    rabbia contro Dio
•    dolore fisico ed altri sintomi somatici
Anche se non si riferiscono a sintomi fisici, Kliewer e Saulz parlano di paura, rabbia, disperazione, separazione e di un complesso di colpa (che cosa ho mai fatto per meritare una cosa del genere?).
Magari illustro questo legame tra la malattia e il malessere spirituale con il caso di un “paziente”. È vissuto nel diciannovesimo secolo ed era un genio, con la promessa di una carriera brillante. Pian piano però viene colpito da una malattia. Ha descritto le sofferenze subite a causa della malattia e come la malattia gli ha fatto maledire la sua esistenza. La cosa ironica è che Beethoven, il nostro paziente, ha scritto la sua più bella musica dopo essere diventato sordo. Milton, secondo solo a Shakespeare tra i drammaturghi inglesi, ha fatto il suo più bel lavoro dopo esser diventato cieco. Michelangelo non sarebbe stato capace di dipingere la Cappella Sistina senza il dolore fisico. Il paradosso del dolore e della sofferenza è che porta tanta creatività – ma questo potrebbe essere il contenuto per per un altro libro...
La Dr.ssa Christina Pulchalski è una professoressa di medicina all’Università George Washington negli USA. Con un gruppo di medici di famiglia ha messo insieme un sistema per valutare la dimensione spirituale nei pazienti in quattro punti.
•    Faith (Fede – che cosa dà un significato alla tua vita?)
•    Importance (Importanza o non della fede nella vita)
•    Community (Comunità – che cosa ti dà sostegno? Una comunità religiosa è importante per te?)
•    Address (Affrontare – c’è qualcosa che possiamo aiutarti ad affrontare? Che significato ha questa malattia per te? Che cosa ti aiuta ad affrontare i momenti duri?)



Il considerare la dimensione spirituale ci interpella sulla qualità del nostro rapporto con il paziente. Pellegrino dice che c’è il bisogno pressante di una filosofia della pratica medica. Per lui ci sono tre componenti nel rapporto paziente/medico:
•    Il fatto della malattia
•    La promessa di curare
•    L’atto della guarigione
Però stanno subentrando altri modelli del rapporto paziente/medico:
•    Il contratto “legale”
•    Il mercato (il paziente compra e il medico vende)
•    Il medico come meccanico
Il rapporto di guarigione conduce al bene spirituale, psicologico e fisico della persona malata e non solo al bene biomedico. In questo rapporto il medico o chi fa da “medico” fa anche l’esperienza della propria fragilità, del dolore e della guarigione. Quando un medico non è disposto ad entrare dentro quest’esperienza, il suo lavoro si riduce ad una serie di compiti più o meno tecnici.
Pellegrino parla del “buon medico”, le cui virtù per lui sono:
•    La compassione
•    La benevolenza
•    L’umiltà
•    Il coraggio

Una delle virtù, dunque, è la compassione. Il buon medico soffre con il paziente. La compassione è la capacità di soffrire con l’altro e si manifesta nel linguaggio del nostro corpo, nelle nostre parole, nei nostri gesti, nel nostro partecipare nella storia della malattia dell’altro.
Queste parole di Chiara M, una sofferente di una malattia cronica molto dolorosa, per me illustra la profonda vita spirituale di un malato e la distanza che magari senza volere ci può essere tra il mondo dei malati e il mondo dei “sani”.
...è difficile spiegare cosa può passare nell’anima. Di tutto. Ad un certo punto arrivi anche a pensare che senso sia l’essere nata...disabile. Una parola del vocabolario che nell’immaginario collettivo ti configura già in un certo modo, a scapito spesso della considerazione della persona in tutto il suo essere...Ho imparato molto in questi ultimi tre anni. Ho pianto, ho reagito duramente davanti a certe ingiustizie, ho dovuto accettare il fatto di non essere capita da alcune persone che mi stavano più vicine, ma ho anche imparato a non giudicare né a pretendere, né a dare per scontato che gli altri entrino nella mia realtà quando io stessa la sento stretta e la rifiuto. (Chiara M)
Credo che debba nascere una nuova cultura, una nuova mentalità, una nuova conoscenza da parte di tutti.    
La sfida è di essere un buon medico che non ha paura di entrare dove c’è il dolore, dove c’è magari una vera prova spirituale, prendersi addosso quel dolore e portarlo assieme al paziente, che diventa così nostro docente.
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La  dimensione spirituale in medicina, Mabel Aghadiuno


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