Seminario di studio

"Face-to-face with It”

Così titola un lavoro americano che denuncia la lentezza delle proprie scuole mediche a prevedere per gli studenti delle significative esperienze formative circa il fine vita: la morte si fa notare per la sua assenza, riflettendo una cultura medica che considera la morte come un fallimento. (0) (1)In generale gli studenti non si sentono ben preparati o sostenuti come vorrebbero per il loro primo paziente che muore, comprendendo anche la difficoltà di comunicare una prognosi terminale.

Comunque, mentre vorrebbero più sostegno e dei modelli da seguire negli specializzandi e strutturati, in generale ritengono che il miglior modo per imparare come farsi carico del morente è l’esperienza clinica diretta piuttosto che pesanti lezioni teoriche. (0)In numerosi altri studi americani si conferma la sensibilità al problema ed in molti atenei si è formata una commissione multidisciplinare per progettare, valutare e istituzionalizzare dei corsi teorico-pratici per fornire agli studenti di medicina almeno delle competenze di base sulla presa in carico del fine vita.

In Italia non esiste un corso universitario volto a fornire strumenti che ci rendano capaci di gestire la realtà complessa della persona morente. Nei corsi di laurea in Medicina e Chirurgia generalmente non si prevedono che poche basi di psicologia clinica e qualche accenno alle cure palliative. Qualcosa in più, in termini di formazione all'approccio alla persona morente si trova ad esempio nei curricola dei corsi di Scienze Infermieristiche. In generale comunque si avverte non solo una mancanza di formazione riguardo a strumenti comunicativi, ma anche di conoscenze sulla fisiopatologia della morte, sui meccanismi ad esempio del dolore nella persona morente. Ad esempio come medico mi chiedo come posso accompagnare anche con l'armamentario farmacologico un paziente in un evento di cui non conosco i meccanismi fisiologici? 

Eppure se ne sente la necessità e l’urgenza.

E’ quanto risulta anche da una survey nazionale condotta nel 2007 su oltre mille studenti di 16 università del Giappone: gli studenti di medicina agli ultimi anni sono interessati e disponibili ad acquisire una formazione specifica nelle cure palliative e di fine vita (hanno apprezzato in particolare gli insegnamenti sulle tecniche di comunicazione con il malato terminale e la sua famiglia e tutti si sono detti interessati a visitare gli hospice o a parlare con i pazienti in funzione della propria formazione), ma cominciando a interessarsi dell'argomento, non si sono fatti una buona opinione delle pratiche di fine vita per come sono attuate nella pratica clinica. (2)

A tal proposito un interessante studio sottolinea che un ruolo importante nella formazione è rivestito dai comportamenti e da modi di pensare impliciti nella cultura medica che costituirebbero una sorta di “curriculum nascosto” e che svalorizzerebbero il care del fine vita e renderebbero gli studenti meno propensi e preparati per  questa tipologia di pazienti. Atteggiamenti negativi e comportamenti in conflitto con le lezioni teoriche possono condurre ad una “ethical erosion” o minare i valori dello studente. I messaggi impliciti offerti dal personale medico, così come gli insegnamenti intenzionali, hanno perciò un impatto significativo sullo sviluppo professionale degli studenti (3) e ciò fa riflettere sulla necessità  di una maggiore preparazione e coerenza da parte di tutti per il bene comune.

Si tratta di orientarsi verso un cambiamento culturale oltrechè curriculare. (4)


Un altro aspetto culturale da segnalare è che oggi il rapporto con la morte è segnato dal tentativo più o meno cosciente di fuggirla, di dimenticarla (indagine su circa 100.000 libri di saggistica mostra che solo lo 0,2% affronta il problema della morte, libri di medicina compresi). Infatti sempre più si ricorre all'ospedalizzazione negli ultimi giorni di vita, anche solo per allontanare l'esperienza morte dalla quotidianità familiare. Sempre più si muore in ospedale, quindi, e questo, come medici e infermieri, ci porta ad avere a che fare con parenti che rifiutano la morte del familiare, non avendo gli strumenti per affrontarla e per accompagnare il proprio caro. Forse non è richiesta alla figura del medico la competenza per supportare psicologicamente paziente e familiare nell'evento morte, ma deve essere fornito lui stesso degli strumenti per comunicarla e per garantire la migliore qualità di vita al paziente fino in fondo. Non può essere lasciata alla singola esperienza personale una formazione così importante, proprio a causa del vuoto culturale di cui anche i giovani medici sono vittime: quello della negazione.

Non si può quindi imputare esclusivamente ai docenti la responsabilità della scarsa educazione del giovane studente in questo tema così delicato, anzi si potrebbe proporre, invece di un insegnamento di tipo frontale, un confronto tra docente e discenti su quello che è lo sfondo culturale di ciascuno, per una formazione circolare che coinvolga entrambe le parti non solo in base alle esperienze professionali ma anche personali.

Probabilmente l’Università non ci prepara a saper gestire la fine della vita di una persona anche perchè è senz’altro importante che ognuno si interroghi e la affronti secondo i suoi valori, i suoi riferimenti spirituali, ma sicuramente sarebbe importante per qualsiasi medico almeno conoscere:

l  i meccanismi psicologici che si instaurano nel paziente e nei suoi familiari al momento della comunicazione del fallimento terapeutico e della malattia terminale;

l  le strategie psicologiche che possono facilitare l’accompagnamento del paziente e dei familiari, che tengano conto anche dello sfondo culturale e religioso della famiglia;

l  le basi fisiopatologiche necessarie per valutare le alternative farmacologiche negli ultimi momenti della vita, e magari una formazione di base sul dibattito etico che le cure di fine vita implicano.

Forse sarebbe importante che tutti cominciassimo a sfidare i ritmi accelerati delle nostre corsie, la corsa alla competizione e all’individualismo per fermarsi ad imparare prima di tutto a fare silenzio e riscoprire il valore dell’ascolto e del “perdere tempo” con un malato. Fare silenzio non vuol dire che non so che dire o che non sto facendo rumore... vuol dire riflessione, meditazione, confronto con qualcosa più grande di me. Vuol dire semplicemente stare accanto al paziente, non lasciarlo solo.


 

Troppo spesso succede che il paziente che sta morendo, per il quale “non c'è nulla da fare”, venga lasciato da parte per dedicarsi a qualche altro “caso” per cui la nostra attività sembra più utile. Questa frequente esperienza è ancora più grave quando avviene in reparti con delle precise restrizioni come le terapie intensive, dove i parenti non sanno muoversi o hanno paura di affacciarsi. Questa non volontà o incapacità di affrontare questi momenti si riperquote inevitabilmente sulla formazione del giovane medico, che viene a mancare proprio nella sua espressione pratica e quindi più preziosa. Non di rado il medico in formazione, affiancato magari da un infermiere spesso più esperto e formato di lui, si trova a dover affrontare senza esperienza e senza mezzi le ultime ore del paziente, il delicato deporre le armi terapeutiche senza violare la dignità della persona e a dover gestire la comunicazione con i familiari.

Probabilmente questo vuoto formativo nella pratica è dovuto, oltre che ad un vuoto culturale, anche ad una scarsa considerazione di queste tematiche nel corso del curriculum degli stessi docenti o tutor, ma si potrebbe sperare in una inversione di tendenza anche nella formazione medica: una formazione che metta al centro la persona e il rapporto terapeutico che posso costruire con lei, soprattutto in un fallimento terapeutico o una prognosi infausta, una formazione che mi renda capace, oltre che di porre una coretta diagnosi ed elaborare una adeguata terapia di fronte ad una patologia, di prendere in carico la persona malata comprendendo le sue problematiche ed accompagnandola nel percorso della malattia.   

Nelle Scuole di Medicina ci viene insegnato a riconoscere le malattie nell’ottica esclusiva della guarigione. Il medico è colui che salva. Ma bisogna essere realisti: per molte malattie oggi non c’è cura. L’idea dell’insuccesso terapeutico e dell’inguaribilità che si associano alla necessità di prepararsi alla presa in carico di chi muore, non rientrano in nessun insegnamento. (5)

Così il morente è vissuto in modo più o meno esplicito come un fallimento, come una frustrazione del nostro ruolo, del nostro riconoscimento e della soddisfazione professionale. Occorre una formazione più completa per un mutamento di mentalità.

Da quanto detto è evidente che la morte non è un problema al quale si può dare una soluzione tecnica che ci può essere impartita a lezione, o nei confronti della quale più ci si relaziona più si impara. Abbiamo sicuramente bisogno di maggiori opportunità di dialogo e di confronto su questo argomento, ma soprattutto vorremmo che il “care” del paziente avesse la stessa dignità del “cure” nella nostra formazione.

Segnali positivi comunque ci sono come è testimoniato dal titolo eloquente di una national survey uscita già nel 2003: “There is hope for the future” e dimostra come i geriatri americani giudicano eccellente la loro preparazione circa la gestione del fine vita e si sentono preparati a farsi carico del paziente morente grazie a palliative and end-of-life care rotations. (6)


800x600 Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE MicrosoftInternetExplorer4 /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin:0cm; mso-para-margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:10.0pt; font-family:"Cambria","serif";}

Maria Friso *, Maria Chiara Tuccio**



* Maria Friso - Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università Tor Vergata, Roma

** Maria Chiara Tuccio - Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università di Pisa


 

 

0 - Wear D." face-to-face with it": medical students' narratives about their end-of-life education. Acad Med. 2002 Apr;77(4):271-7.

1 - Sadhu S, Salins NS, Kamath A. Palliative care awareness among indian undergraduate health care students: a needs-assessment study to determine incorporation of palliative care education in undergraduate medical, nursing and allied health education. Indian J Palliat Care. 2010 Sep;16(3):154-9.

2 - Hirakawa Y, Masuda Y, Kuzuya M, Iguchi A, Uemura K.  end-of-life care in the curriculum in japan: a national survey of senior medical students nippon ronen igakkai zasshi. 2007 May;44(3):380-3.

 

3 - Billings M E,  Engelberg R., Curtis J R, Block S, Sullivan A M.  Determinants of medical students' perceived preparation to perform end-of-life care, quality of end-of-life care education, and attitudes toward end-of-life care J Palliat Med. 2010 March; 13(3): 319–326.

4- Sullivan AM, Lakoma MD, Block SD. The status of medical education in end-of-life care: a national report. J Gen Intern Med. 2003 Sep;18(9):685-95.

5- Bickel-Swenson D. End-of-life training in u.s. medical schools: a systematic literature review. J Palliat Med. 2007 Feb;10(1):229-35.

6- Pan CX, Carmody S, Leipzig RM, Granieri E, Sullivan A, Block SD, Arnold RM. There is hope for the future: national survey results reveal that geriatric medicine fellows are well-educated in end-of-life care. J Am Geriatr Soc. 2005 Apr;53(4):705-10.

 

 

 

Documenti più scaricati

Questo sito utilizza cookie tecnici, anche di terze parti, per consentire l’esplorazione sicura ed efficiente del sito. Chiudendo questo banner, o continuando la navigazione, accetti le nostre modalità per l’uso dei cookie. Nella pagina dell’informativa estesa sono indicate le modalità per negare l’installazione di qualunque cookie.