La domanda di eutanasia e di suicidio assistito da parte del malato esprime, esplicitamente o implicitamente, il desiderio di mantenere in se stessi il “luogo di controllo” (locus of control) sulla propria vita, non fosse altro che decidendo l’ora del morire: segno di una difficoltà a fare lutto, accettare umilmente il limite creaturale e la perdita, ma anche della paura di affidarsi ad una tecnica senza volto.

Nel rapporto con chi muore ci viene riflessa, come in uno specchio, la nostra morte. La tendenza può essere – per i vari professionisti sanitari - quella di rompere, in qualche modo, lo specchio, di “occultare” anche in ambito sanitario la morte ed il morente, di difendersi dietro la tecnica impedendo un coinvolgimento con il malato, di portare sempre più in là il momento della morte (la terapia portata all’eccesso) o di controllarne il momento (eutanasia). Il rifiuto della morte, frutto di una sofferenza non accettata e rimossa, rende “in-sopportabile” (per tutti i partecipanti) la sofferenza del morire.

È la sofferenza taciuta o negata che si interpone tra l’operatore sanitario e il malato e spesso altera, anche in modo considerevole, la qualità degli scambi relazionali, o viene anestetizzata dall’uso della tecnica. Dietro la sofferenza del malato (“egli soffre troppo”) c’è la sofferenza di chi lo cura (“soffro troppo a vederlo così”). Ed è importante non rimuoverla, - anche dietro la tecnica sempre più sofisticata - ma rendersene conto, guardarla in faccia, poterla esprimere ed elaborare. Capire, accettare ed elaborare - da parte dei vari professionisti sanitari - la loro sofferenza accanto al malato che soffre e che muore, vuol dire impedire che essa prenda strade che sfuggono di mano e aprirsi invece alla possibilità di trovare adeguate risposte sul piano terapeutico e relazionale.

La sofferenza in tutta la sua ampiezza, se non capita ed elaborata, influenza anche il dolore fisico e può spingere il malato a chiedere che si affretti la sua morte come una liberazione. La paura della sofferenza prevista nel morire porta, anche coloro che ne sono ancora lontani, a guardare con simpatia all’eutanasia e affrettarsi a stilare dichiarazioni anticipate sul trattamento desiderato che, dal punto di vista psicologico, possono essere lette come un’anticipata dichiarazione di sfiducia nella competenza professionale e nella preparazione etica dei vari operatori sanitari che, nel momento più fragile, ci prenderanno in cura. E ciò che si desidera per il nostro morire, quando ne siamo lontani, spesso non è quello che vogliamo quando ne siamo realmente implicati.

Trattare qui il tema del “dopo la morte del paziente per eutanasia”, e le possibili conseguenze psicologiche su coloro che rimangono, potrebbe portarci lontano. Vorrei citare solo una ricerca nella quale si evince che la famiglia e gli amici di pazienti malati di cancro morti per eutanasia reagivano meglio al lutto se comparati con famiglie di pazienti che morivano per morte naturale. Questi risultati non devono essere interpretati come un appello per l’eutanasia, ma come un appello per lo stesso livello di presa in cura (care) e di franchezza nei riguardi di tutti i pazienti, assicurando l’opportunità di parlare apertamente del tema della morte, essere meglio preparati e poter dire addio al proprio caro.

È un appello ad un rapporto vero con chi muore e con coloro che gli stanno amorevolmente accanto in cui l’uso della tecnica è a servizio della cura e della speranza del malato. La speranza è una variabile importante nell’esperienza del malato e nel percorso della cura, e va diversamente declinata e continuamente rinegoziata. Essa può trovare obiettivi significativi, anche quando una guarigione non è possibile: può essere speranza di non morire soli, speranza di non soffrire dolori eccessivi, speranza di non essere di peso agli altri, speranza di lasciare un’eredità e di essere ricordato dalle persone care.

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