Seminario di studioSTATUS OF ART
Le conquiste della scienza e della tecnologia hanno portato dei mutamenti anche riguardo alle modalità della morte. Se da un lato, mediante apparecchiature e sistemi avanzati, la scienza e la pratica medica possono oggi risolvere situazioni che fino a poco tempo erano insolubili e sono in grado di salvare e curare pazienti una volta destinati a morte certa, dall’altro le stesse tecniche di rianimazione e di sostentamento vitale possono protrarre la vita perfino in situazioni di debolezza estrema, prolungando il processo del morire .




Introduzione

Le conquiste della scienza e della tecnologia hanno portato dei mutamenti anche riguardo alle modalità della morte. Se da un lato, mediante apparecchiature e sistemi avanzati, la scienza e la pratica medica possono oggi risolvere situazioni che fino a poco tempo erano insolubili e sono in grado di salvare e curare pazienti una volta destinati a morte certa, dall’altro le stesse tecniche di rianimazione e di sostentamento vitale possono protrarre la vita perfino in situazioni di debolezza estrema, prolungando il processo del morire[1].

Oggi come ieri la morte fa paura, ma nel tempo questa angoscia ha avuto motivazioni diverse: in passato, ad esempio, il credente aveva paura anche di ciò che faceva seguito alla morte, cioè del giudizio di Dio; oggi è anche il processo del morire che fa paura: si teme la sofferenza della malattia e della vecchiaia, si temono i tormenti dell’agonia, ma anche di finire “in quella terra di nessuno che si stende tra il mondo dei vivi e quello dei morti; paura di diventare cioè uno di quei corpi vegetali che non finiscono mai di morire”[2].

Si è affermato che “oggi si muore con cuore e cervello innestato ai fili, che finiscono in uno strumento registratore. E il personale curante è ormai un’équipe di meccanici impegnati a badare che la flebo sgoccioli e che l’ossigeno arrivi. E’ la morte intubata, segno e deriva dell’impoverimento che il morire oggi subisce”[3].

E’ una immagine letteraria ma questo “rimanere attaccati ad una macchina”, almeno apparentemente senza coscienza, costituisce un’ulteriore preoccupazione, nella consapevolezza di dover dipendere solo dalla decisioni di altri – i medici – e senza essere in grado di esprimere i propri desideri sulla terapia.

In un clima culturale, frutto delle influenze della cultura anglosassone, che esalta la “libertà” della persona di adottare decisioni personali, nell’ambito di specifiche prospettive religiose e spirituali, anche in Italia, si è diffusa la preoccupazione di non essere in grado, nel momento in cui dovranno essere prese decisioni cruciali “sulla propria morte”, di partecipare attivamente.

Ma anche per il medico si pongono delle problematiche. Se il mistero della morte non può essere controllato dalla volontà e dalla autoaffermazione umana, il processo del morire costringe spesso il medico ad affrontare  situazioni molto complesse improvvisando decisioni terapeutiche che si basano più che altro sulla sensibilità e sul buon senso personale, e con i dubbi su quale sia la soluzione migliore per un paziente che è irrevocabilmente in cammino verso la morte fisica.

Naturalmente è importante salvaguardare la dignità della persona e il significato cristiano della vita  al momento della morte di fronte ad una tecnologia utile, ma sempre più invadente. Questo significa porsi la domanda se si debbano applicare tutti i possibili mezzi terapeutici in ogni circostanza. E’ importante valutare se il tipo di trattamento, il grado di difficoltà e il rischio, il costo e la possibilità di applicazione siano eccessivi rispetto ai risultati prevedibili, nella situazione della singola persona e delle sue risorse fisiche e spirituali.

Quindi, come procedere per adottare decisioni terapeutiche difficili? E ancora, ci possono essere delle volontà espresse dal paziente in precedenza da tenere conto? E’ in risposta a queste domande che si è elaborato quel documento che in Europa nella sua espressione più diffusa si è definito “dichiarazioni anticipate di trattamento”, cioè quel documento con il quale una persona, dotata di piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti terapeutici ai quali desidererebbe o non essere sottoposta nel caso in cui, nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse più in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso.

Ma è un argomento controverso, già a partire da una prima lettura concettuale. Se da una parte si è affermato che la legge sul testamento biologico dovrebbe essere una occasione di rafforzamento della relazione medico-paziente e, prima di tutto, la relazione del paziente col proprio medico di fiducia perché è nel rapporto con quest’ultimo che si dovrebbe vedere la sede naturale della eventuale formazione di dichiarazioni anticipate di trattamento; dall’altra parte si è affermato che la domanda di chi muore, o di chi ne vive in anticipo la sofferenza e la paura, è carica di un’attesa relazionale più ampia della semplice prestazione tecnica, è ricerca della propria identità e di un suo riconoscimento, del senso del proprio vivere e del proprio morire. Le dichiarazioni anticipate di trattamento rischiano di “sostituire la relazione terapeutica”, ancora più importante nei momenti finali della vita, e di essere piuttosto una dichiarazione anticipata di sfiducia[4].

Una ulteriore convinzione è che una motivazione delle dichiarazioni anticipate risiede nello squilibrio storico esistente nel rapporto tra medico e paziente, e nel primato degli obiettivi del primo.  In questo quadro di disparità, il testamento biologico è destinato a valorizzare, in ogni possibile controversia tra volontà del malato e indirizzi terapeutici, la volontà del malato stesso. Non si tratta, si badi, di interpretare il rapporto tra il paziente e il medico in termini antagonistici o, peggio, agonistici; piuttosto, si intende dare un fondamento nuovo, per lo più inedito in Italia, a quella “alleanza terapeutica” spesso invocata, ma difficilmente realizzata, ponendo al centro della relazione i diritti e le garanzie che devono essere riconosciuti al paziente.

Ancora, spesso l’attuale dibattito sul cosiddetto testamento biologico viene presentato come un confronto tra due schieramenti ideologici contrapposti, tra coloro da un lato che vogliono a tutti i costi difendere la vita, persino nella forma della nuda vita biologica e contro la volontà della persona, e coloro che insistono invece sul criterio dell’autodeterminazione, che potrebbe spingersi sino al punto estremo di considerare lecita l’eutanasia.

Non tutti quelli che sostengono questa seconda posizione giungono a questa conclusione estrema e si fermano ad un principio che trova ormai ampio riconoscimento giuridico in documenti internazionali, come la Convenzione di Oviedo (art.5), la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art.2) e la Costituzione italiana (art.32), vale a dire quello che afferma che qualsiasi intervento sanitario non possa essere effettuato se non dopo che il paziente abbia dato il suo consenso libero e informato. E di conseguenza sulla base di questo riconoscimento si ammette che la persona interessata, possa in qualsiasi momento, ritirare il proprio consenso, rifiutando le terapie cui è sottoposta, anche nel caso in cui si tratti di terapie venendo meno le quali, viene meno pure la vita del paziente. Tutto ciò è oggi largamente condiviso e il rifiuto delle terapie, anche quando abbia conseguenze letali, dovrebbe (pur essendoci zone di grigio di confine) essere tenuto distinto dall’eutanasia, da una condotta diretta e attiva volta a cagionare la morte del paziente[5].

Sul testamento di vita è in atto da anni un accanito dibattito bioetico. I giuristi tendono, dal loro punto di vista, a ridurre questo dibattito in termini formali: che validità è possibile riconoscere a simili direttive anticipate, nel contesto di ordinamenti giuridici che non considerano la vita alla stregua di un bene disponibile? I medici, da parte loro, si interrogano sulla compatibilità dei testamenti di vita con i loro doveri deontologici. I bioeticisti discutono sui criteri antropologici ed etici che debbono governare e indirizzare le prassi relazionali. Chi oggi entra in un ospedale ha il diritto di sapere qual è l’orizzonte di senso che governa la medicina a cui si affida. Così, chi oggi opera in ospedale deve interrogarsi su quale sia il contributo umano che gli è richiesto nell’esercizio di una professione che non a che fare con oggetti di studio o da esperimento, ma con dei propri simili, in condizioni particolari, nelle quali l’esercizio della libertà è spesso offuscato e a volte decisamente impedito[6].

Ma - è non certo un’ultima problematica - per le influenze che tali argomenti hanno sulla considerazione del valore stesso della vita umana e del valore della vita anche in momenti di particolare debolezza come alla fine della vita terrena, intervengono nel dibattito anche motivazioni religiose. Il riferimento principale in etica è la persona. Perciò si devono ricondurre i valori principali (l’autonomia da onorare, la salute da sostenere, la giustizia da salvare, il rispetto della libertà e la difesa della vita) al valore della persona interamente considerata. Ciò che costituisce il criterio di giudizio ultimo per le decisioni concrete è il bene della persona e non i beni particolari presi a sé stanti e assolutizzati, ad es. il prolungamento della vita, la guarigione di una parte corporea, l’annullamento di certi sintomi e così via[7].

A questo proposito si può ancora notare come la discussione sulle direttive anticipate fa sì che queste sembrino quasi la chiave di una corretta assistenza alla fine della vita, ma è necessario sottolineare che queste costituiscono solo un aspetto dell’ assistenza medico-sanitaria che a sua volta è solo un parziale aspetto di una corretta assistenza alla persona alla fine della vita dovendosi considerare accanto alla soddisfazione dei bisogni psicologici, spirituali, religiosi – nel senso più ampio - della persona morente.

Venendo ora a trattare il tema del testamento biologico, è necessario premettere a questo la trattazione dei due argomenti che ne sono alla base e ne costituiscono le motivazioni quali l’accanimento terapeutico e il consenso informato.

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