Seminario di studioSTATUS OF ART
Le conquiste della scienza e della tecnologia hanno portato dei mutamenti anche riguardo alle modalità della morte. Se da un lato, mediante apparecchiature e sistemi avanzati, la scienza e la pratica medica possono oggi risolvere situazioni che fino a poco tempo erano insolubili e sono in grado di salvare e curare pazienti una volta destinati a morte certa, dall’altro le stesse tecniche di rianimazione e di sostentamento vitale possono protrarre la vita perfino in situazioni di debolezza estrema, prolungando il processo del morire .




Introduzione

Le conquiste della scienza e della tecnologia hanno portato dei mutamenti anche riguardo alle modalità della morte. Se da un lato, mediante apparecchiature e sistemi avanzati, la scienza e la pratica medica possono oggi risolvere situazioni che fino a poco tempo erano insolubili e sono in grado di salvare e curare pazienti una volta destinati a morte certa, dall’altro le stesse tecniche di rianimazione e di sostentamento vitale possono protrarre la vita perfino in situazioni di debolezza estrema, prolungando il processo del morire[1].

Oggi come ieri la morte fa paura, ma nel tempo questa angoscia ha avuto motivazioni diverse: in passato, ad esempio, il credente aveva paura anche di ciò che faceva seguito alla morte, cioè del giudizio di Dio; oggi è anche il processo del morire che fa paura: si teme la sofferenza della malattia e della vecchiaia, si temono i tormenti dell’agonia, ma anche di finire “in quella terra di nessuno che si stende tra il mondo dei vivi e quello dei morti; paura di diventare cioè uno di quei corpi vegetali che non finiscono mai di morire”[2].

Si è affermato che “oggi si muore con cuore e cervello innestato ai fili, che finiscono in uno strumento registratore. E il personale curante è ormai un’équipe di meccanici impegnati a badare che la flebo sgoccioli e che l’ossigeno arrivi. E’ la morte intubata, segno e deriva dell’impoverimento che il morire oggi subisce”[3].

E’ una immagine letteraria ma questo “rimanere attaccati ad una macchina”, almeno apparentemente senza coscienza, costituisce un’ulteriore preoccupazione, nella consapevolezza di dover dipendere solo dalla decisioni di altri – i medici – e senza essere in grado di esprimere i propri desideri sulla terapia.

In un clima culturale, frutto delle influenze della cultura anglosassone, che esalta la “libertà” della persona di adottare decisioni personali, nell’ambito di specifiche prospettive religiose e spirituali, anche in Italia, si è diffusa la preoccupazione di non essere in grado, nel momento in cui dovranno essere prese decisioni cruciali “sulla propria morte”, di partecipare attivamente.

Ma anche per il medico si pongono delle problematiche. Se il mistero della morte non può essere controllato dalla volontà e dalla autoaffermazione umana, il processo del morire costringe spesso il medico ad affrontare  situazioni molto complesse improvvisando decisioni terapeutiche che si basano più che altro sulla sensibilità e sul buon senso personale, e con i dubbi su quale sia la soluzione migliore per un paziente che è irrevocabilmente in cammino verso la morte fisica.

Naturalmente è importante salvaguardare la dignità della persona e il significato cristiano della vita  al momento della morte di fronte ad una tecnologia utile, ma sempre più invadente. Questo significa porsi la domanda se si debbano applicare tutti i possibili mezzi terapeutici in ogni circostanza. E’ importante valutare se il tipo di trattamento, il grado di difficoltà e il rischio, il costo e la possibilità di applicazione siano eccessivi rispetto ai risultati prevedibili, nella situazione della singola persona e delle sue risorse fisiche e spirituali.

Quindi, come procedere per adottare decisioni terapeutiche difficili? E ancora, ci possono essere delle volontà espresse dal paziente in precedenza da tenere conto? E’ in risposta a queste domande che si è elaborato quel documento che in Europa nella sua espressione più diffusa si è definito “dichiarazioni anticipate di trattamento”, cioè quel documento con il quale una persona, dotata di piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti terapeutici ai quali desidererebbe o non essere sottoposta nel caso in cui, nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse più in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso.

Ma è un argomento controverso, già a partire da una prima lettura concettuale. Se da una parte si è affermato che la legge sul testamento biologico dovrebbe essere una occasione di rafforzamento della relazione medico-paziente e, prima di tutto, la relazione del paziente col proprio medico di fiducia perché è nel rapporto con quest’ultimo che si dovrebbe vedere la sede naturale della eventuale formazione di dichiarazioni anticipate di trattamento; dall’altra parte si è affermato che la domanda di chi muore, o di chi ne vive in anticipo la sofferenza e la paura, è carica di un’attesa relazionale più ampia della semplice prestazione tecnica, è ricerca della propria identità e di un suo riconoscimento, del senso del proprio vivere e del proprio morire. Le dichiarazioni anticipate di trattamento rischiano di “sostituire la relazione terapeutica”, ancora più importante nei momenti finali della vita, e di essere piuttosto una dichiarazione anticipata di sfiducia[4].

Una ulteriore convinzione è che una motivazione delle dichiarazioni anticipate risiede nello squilibrio storico esistente nel rapporto tra medico e paziente, e nel primato degli obiettivi del primo.  In questo quadro di disparità, il testamento biologico è destinato a valorizzare, in ogni possibile controversia tra volontà del malato e indirizzi terapeutici, la volontà del malato stesso. Non si tratta, si badi, di interpretare il rapporto tra il paziente e il medico in termini antagonistici o, peggio, agonistici; piuttosto, si intende dare un fondamento nuovo, per lo più inedito in Italia, a quella “alleanza terapeutica” spesso invocata, ma difficilmente realizzata, ponendo al centro della relazione i diritti e le garanzie che devono essere riconosciuti al paziente.

Ancora, spesso l’attuale dibattito sul cosiddetto testamento biologico viene presentato come un confronto tra due schieramenti ideologici contrapposti, tra coloro da un lato che vogliono a tutti i costi difendere la vita, persino nella forma della nuda vita biologica e contro la volontà della persona, e coloro che insistono invece sul criterio dell’autodeterminazione, che potrebbe spingersi sino al punto estremo di considerare lecita l’eutanasia.

Non tutti quelli che sostengono questa seconda posizione giungono a questa conclusione estrema e si fermano ad un principio che trova ormai ampio riconoscimento giuridico in documenti internazionali, come la Convenzione di Oviedo (art.5), la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art.2) e la Costituzione italiana (art.32), vale a dire quello che afferma che qualsiasi intervento sanitario non possa essere effettuato se non dopo che il paziente abbia dato il suo consenso libero e informato. E di conseguenza sulla base di questo riconoscimento si ammette che la persona interessata, possa in qualsiasi momento, ritirare il proprio consenso, rifiutando le terapie cui è sottoposta, anche nel caso in cui si tratti di terapie venendo meno le quali, viene meno pure la vita del paziente. Tutto ciò è oggi largamente condiviso e il rifiuto delle terapie, anche quando abbia conseguenze letali, dovrebbe (pur essendoci zone di grigio di confine) essere tenuto distinto dall’eutanasia, da una condotta diretta e attiva volta a cagionare la morte del paziente[5].

Sul testamento di vita è in atto da anni un accanito dibattito bioetico. I giuristi tendono, dal loro punto di vista, a ridurre questo dibattito in termini formali: che validità è possibile riconoscere a simili direttive anticipate, nel contesto di ordinamenti giuridici che non considerano la vita alla stregua di un bene disponibile? I medici, da parte loro, si interrogano sulla compatibilità dei testamenti di vita con i loro doveri deontologici. I bioeticisti discutono sui criteri antropologici ed etici che debbono governare e indirizzare le prassi relazionali. Chi oggi entra in un ospedale ha il diritto di sapere qual è l’orizzonte di senso che governa la medicina a cui si affida. Così, chi oggi opera in ospedale deve interrogarsi su quale sia il contributo umano che gli è richiesto nell’esercizio di una professione che non a che fare con oggetti di studio o da esperimento, ma con dei propri simili, in condizioni particolari, nelle quali l’esercizio della libertà è spesso offuscato e a volte decisamente impedito[6].

Ma - è non certo un’ultima problematica - per le influenze che tali argomenti hanno sulla considerazione del valore stesso della vita umana e del valore della vita anche in momenti di particolare debolezza come alla fine della vita terrena, intervengono nel dibattito anche motivazioni religiose. Il riferimento principale in etica è la persona. Perciò si devono ricondurre i valori principali (l’autonomia da onorare, la salute da sostenere, la giustizia da salvare, il rispetto della libertà e la difesa della vita) al valore della persona interamente considerata. Ciò che costituisce il criterio di giudizio ultimo per le decisioni concrete è il bene della persona e non i beni particolari presi a sé stanti e assolutizzati, ad es. il prolungamento della vita, la guarigione di una parte corporea, l’annullamento di certi sintomi e così via[7].

A questo proposito si può ancora notare come la discussione sulle direttive anticipate fa sì che queste sembrino quasi la chiave di una corretta assistenza alla fine della vita, ma è necessario sottolineare che queste costituiscono solo un aspetto dell’ assistenza medico-sanitaria che a sua volta è solo un parziale aspetto di una corretta assistenza alla persona alla fine della vita dovendosi considerare accanto alla soddisfazione dei bisogni psicologici, spirituali, religiosi – nel senso più ampio - della persona morente.

Venendo ora a trattare il tema del testamento biologico, è necessario premettere a questo la trattazione dei due argomenti che ne sono alla base e ne costituiscono le motivazioni quali l’accanimento terapeutico e il consenso informato.


 

L’accanimento terapeutico e il Magistero della Chiesa Cattolica

“La vita dell’uomo non è un bene disponibile, ma un prezioso scrigno da custodire e curare con ogni attenzione possibile, dal momento del suo inizio fino al suo ultimo e naturale compimento”[8].

Sullo sfondo di tale profonda e perenne convinzione, già da tempo, in ambito cattolico, è in atto la discussione sulla liceità dell’accanimento terapeutico, o con una espressione più soft, delle cure eccessive. E’ infatti già lontano nel tempo il sorgere della discussione sulla necessità di salvaguardare il momento della morte liberandolo da tutte quelle forme che esprimono il tentativo di “di essere coinvolti personalmente in un dialogo con il morente, accanendosi a farlo vivere dopo l’ora della morte”[9].

Già Pio XII, nel suo discorso del novembre 1957 – Risposte ad alcuni importanti quesiti sulla rianimazione – affermava che la vita non è un bene da difendere ad ogni costo, poiché se pur l’uomo ha il diritto e il dovere, in caso di malattia grave, di intraprendere le cure mediche necessarie a conservare la vita e la salute, tale dovere non obbliga che all’impiego dei mezzi ordinari, vale a dire dei mezzi che non comportano alcun carico straordinario per se stessi o per gli altri e spetta al paziente “se è capace di decisione personale”, se non lo è, alla famiglia “lecitamente insistere perché il medico interrompa i tentativi”.

Il 3 ottobre 1970, in una lettera scritta a nome di Paolo VI al Segretario Generale della Federazione internazionale delle associazioni mediche cattoliche, il cardinale Villot, affermava “che, pur escludendosi l’eutanasia, ciò non significa obbligare il medico ad utilizzare tutte le tecniche della sopravvivenza che gli offre una scienza infaticabilmente creatrice. In tali casi non sarebbe una tortura inutile imporre la rianimazione vegetativa, nell’ultima fase di una malattia incurabile? Il dovere del medico consiste piuttosto nell’adoperarsi a calmare le sofferenze, invece di prolungare più a lungo, con qualunque mezzo e a qualunque condizione, una vita che non è più pienamente umana e che va naturalmente verso la conclusione”.

Come si è detto,  già Pio XII aveva distinto fra mezzi ordinari e straordinari di cura. Il carattere straordinario era definito in rapporto all’incremento di sofferenza che tali mezzi potevano procurare, oppure alla dispendiosità o alle difficoltà di usufruirne per tutti coloro che ne potevano fare richiesta.

In un passato non troppo lontano, infatti, i moralisti avrebbero affermato che l’uso dei mezzi “straordinari” non poteva essere obbligatorio. Tale affermazione è ancora valida in linea di principio, ma è oggi meno evidente, a motivo della sua indeterminatezza per i rapidi progressi nel campo delle moderne tecnologie. Per tale ragione, oggi si preferisce parlare di “mezzi proporzionati” e “non proporzionati”, in riferimento non più al “mezzo terapeutico”, quanto piuttosto al “risultato terapeutico”

Per facilitare l’applicazione di questi principi generali, nel 1980, sono state elaborate dalla Congregazione per la Dottrina della Fede le seguenti precisazioni[10]:

  • In mancanza di altri rimedi, è lecito ricorrere, con il consenso dell’ammalato, ai mezzi messi a disposizione dalla medicina più avanzata, anche se sono ancora allo stadio sperimentale e non sono esenti da qualche rischio. Accettandoli, l’ammalato potrà anche dare esempio di generosità per il bene dell’umanità[11].
  • E’ anche lecito interrompere l’applicazione di tali mezzi, quando i risultati deludono le speranze riposte in essi. Ma nel prendere una decisione del genere si dovrà tener conto del giusto desiderio dell’ammalato e dei suoi desideri, nonché del parere di medici veramente competenti; costoro potranno senza dubbio giudicare meglio di ogni altro se l’investimento di strumenti e di personale è sproporzionato ai risultati prevedibili e se le tecniche adottate impongono al paziente sofferenze e disagi maggiori dei benefici che se ne possono trarre.
  • E’ sempre lecito accontentarsi dei mezzi normali che la medicina può offrire. Non si può quindi imporre a nessuno l’obbligo di ricorrere ad un tipo di cura che, per quanto già in uso,  tuttavia non è ancora esente da pericoli o è troppo onerosa. Il suo rifiuto non equivale al suicidio; significa piuttosto o semplice accettazione della condizione umana, o desiderio di evitare la messa in opera di un dispositivo medico sproporzionato ai risultati che si potrebbero sperare oppure volontà di non imporre oneri troppo gravi alla famiglia o alla collettività.
  • Nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi. Perciò il medico non ha motivo di angustiarsi, quasi che non avesse prestato assistenza ad una persona in pericolo.

 

Il Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori sanitari, nel 1994, nella Carta degli Operatori Sanitari[12], afferma che: “All’ammalato sono dovute le cure possibili da cui può trarre un salutare beneficio. La responsabilità della cura della salute impone a ciascuno “il dovere di curarsi e di farsi curare”. Di conseguenza “coloro che hanno in cura gli ammalati devono prestare le loro opere con ogni diligenza e somministrare quei rimedi che riterranno necessari o utili. Non solo quelli miranti alla possibile guarigione, ma anche quelli lenitivi del dolore e di sollievo di una condizione inguaribile” (n. 63).

Prosegue poi affermando che: “L’operatore sanitario nell’impossibilità di guarire, non deve mai rinunciare a curare. Egli è tenuto a praticare tutte le cure “proporzionate”. Non c’è obbligo invece di ricorrere a quelle “sproporzionate”. In relazione alle condizioni di un ammalato, sono da ritenersi ordinarie, le cure in cui si dà rapporto di debita proporzione tra i mezzi impiegati e il fine perseguito. Dove non si dà proporzione le cure sono da considerarsi straordinarie.

Al fine di verificare e stabilire il darsi o meno del rapporto di proporzione in una determinata situazione, si devono “valutare bene i mezzi mettendo a confronto il tipo di terapia, il grado di difficoltà e di rischio che comporta, le spese necessarie e le possibilità di applicazione, con il risultato che ci si può aspettare, tenuto conto delle condizioni dell’ammalato e delle sue forze fisiche e morali” (n.64)

Il documento prosegue poi citando al numero successivo (n. 65) i criteri sulla proporzionalità delle cure del precedente documento della Congregazione per la Dottrina della Fede.

In tempi più recenti, in questo ambito il Catechismo della Chiesa Cattolica scrive: “La morale non richiede alcuna terapia a qualsiasi costo. L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima… Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente” (n. 2278).

Se pur quindi è possibile rinunciare a particolari trattamenti, ha affermato Giovanni Paolo II, questa rinuncia “non dispensa dal compito terapeutico di sostenere la vita o dall’assistenza con i normali mezzi di sostegno alla vita”[13].

Anche se è vero che i documenti della Chiesa non contengono un esplicito e diretto pronunciamento sulla nutrizione e sull’idratazione medicalmente assistite nel senso di dichiararle cure normali alla stregua dell’alimentazione e idratazione consuete, tuttavia è altrettanto vero che per la loro stessa natura e validità, ossia per il fatto di essere necessari e validi sostegni alla vita per sé, l’alimentazione e l’idratazione medicalmente assistite non possono non collocarsi in via normale tra le cure ordinarie e i mezzi normali[14].

Tuttavia, nell’ambito delle cure o trattamenti da somministrare ai pazienti che si trovano nella fase finale di una patologia si possono ricordare due documenti episcopali: il primo Nutrition and hydration: moral considerations, è della Conferenza Episcopale della Pennsylvania[15], il secondo è del Comitato Pro-Life dell’Episcopato degli Stati Uniti, Nutrition and hydration: moral and pastoral reflections[16].

Il documento del Comitato Pro-Life dei Vescovi USA nota che l’alimentazione e idratazione artificiale comporta un intervento e può diventare, almeno in certe situazioni, un aggravio per il paziente, specialmente nella fase dell’agonia o in condizioni in cui il morente non è più in grado di riceverle o di trarne beneficio. Di qui la necessità di esaminare la situazione caso per caso per rilevare se questo tipo di alimentazione in certe circostanze venga sentito come “intrusivo, doloroso e ripugnante”. In questi casi non sussisterebbe l’obbligo di imporre tale gravame al paziente.

Lo stesso documento afferma poi nelle conclusioni: “Noi rifiutiamo qualunque omissione di  nutrizione e di idratazione al fine di provocare la morte del paziente. Assumiamo il presupposto in favore della somministrazione dell’idratazione e dell’alimentazione assistite ai pazienti che ne hanno bisogno, presupposto che potrebbe venire meno nei casi in cui tali procedimenti non offrano la speranza ragionevole da un punto di vista medico di essere efficaci per mantenere in vita e richiedano rischi e costi eccessivi”.

Anche il documento dell’Episcopato della Pennsylvania sottolinea: “Come conclusione generale, quasi in ogni circostanza, vi è l’obbligo di fornire nutrizione ed idratazione al soggetto in stato di incoscienza. Esistono situazioni in cui questo non è valido, ma si tratta di eccezioni alla regola”.


 

L’accanimento terapeutico: legislazione statale e codice deontologico

Il Comitato Nazionale per la bioetica ha definito l’accanimento terapeutico “come un trattamento di documentata inefficacia in relazione all’obiettivo, a cui si aggiunga la presenza di un rischio elevato e/o una particolare gravosità per il paziente con un’ulteriore sofferenza, in cui l’eccezionalità dei mezzi adoperati risulta chiaramente sproporzionata agli obiettivi della condizione specifica”[17].

I francesi utilizzano il termine acharnement thérapeutique, mentre gli inglesi usano overtreatment. Queste parole stanno ad indicare, più che un preciso e conosciuto comportamento, una ostinazione nel perpetuare un’azione che nel giudizio comune è considerata deplorevole[18].

E’ bene ricordare, inoltre, che nella medicina moderna è frequente un altro tipo di accanimento: quello diagnostico. Molti  pazienti vengono sottoposti ad indagini invasive, spesso dolorose, a volte non prive di rischi, senza una concreta prospettiva terapeutica. In pratica l’accertamento diagnostico non si propone l’obiettivo di un beneficio, quantomeno potenziale, ma solo quello di approfondire la conoscenza della patologia in atto e della sua evoluzione[19].

In questo l’apparato tecnologico, che pur ha i suoi indiscutibili meriti, travalica l’interesse della persone e ne fa “un oggetto”. Ciò che si domanda agli operatori medici, in nome del diritto di ogni uomo a una morte umana, è che si rinunci all’accanimento terapeutico: non tutte le risorse per prolungare la vita, di cui la medicina dispone, di risolvono sempre a vantaggio del morente; spesso invece producono solo uno sterile prolungamento della sofferenza e impediscono al morente di vivere la propria morte da protagonista[20].

Si è affermato che l’accanimento terapeutico tende a prolungare ad ogni costo la vicenda biologica, talvolta proprio a discapito della qualità; esso non ha alcuna giustificazione bioetica, ma soprattutto sotto il profilo della dignità della persona e del suo essere immagine di Dio[21]

Tuttavia davanti al 90% dei medici negli Stati Uniti e al 79% di quelli europei, gli anestesisti rianimatori italiani sono quelli che meno di tutti, al di sotto dei 10%, fermano ogni intervento terapeutico nei casi in cui le cure non servano più e il malato sia in uno stato terminale della vita.

Questo atteggiamento estremamente “conservativo” del mondo medico italiano, rispetto a quello di altri Paesi è “il vero dato importante e significativo” emerso da una recente ricerca condotta dall’Università cattolica del Sacro Cuore che ha coinvolto 225 medici dei Centri di Rianimazione di Milano[22].

Ma, nel limitare o nel sospendere le cure intensive, non si deve realizzare l’”abbandono terapeutico”, di deve quindi passare all’attuazione di “cure ordinarie o proporzionate”, rappresentate dalla sedazione, dall’analgesia, dalla nutrizione e idratazione, dalle cure igieniche, dalla prevenzione delle ulcere da pressione, sì da contribuire ad elidere la sofferenza fisica e psicologica del paziente.

Un limite alle cure è pure previsto dall’artico 44 del Codice di Deontologia Medica del 16 dicembre 2006 che afferma: “In caso di malattia allo stato terminale, il medico nel rispetto della volontà del paziente, potrà limitare la sua opera all’assistenza morale e alla terapia atta a risparmiare inutile sofferenza, fornendogli i trattamenti appropriati e conservando per quanto possibile la qualità di una vita che si spegne. Ove si accompagna difetto di coscienza, il medico dovrà agire secondo scienza e coscienza, proseguendo nella terapia finché ragionevolmente utile”.

A tal fine si è coniata l’espressione desistenza terapeutica per definire l’atteggiamento terapeutico con il quale il medico desiste dalle terapie futili ed inutili. La desistenza terapeutica è un concetto che proviene dall’ambito medico dell’anestesia-rianimazione e si applica nei confronti dei pazienti malati terminali. La desistenza terapeutica ha la sua base nel concetto di accompagnamento alla morte secondo dei criteri bioetici e di deontologia medica già stabiliti. La desistenza terapeutica non ha niente a che fare con l’eutanasia, da cui anzi prende le distanze, e vuole combattere l’accanimento terapeutico.

L’effettiva sussistenza di un accanimento clinico-diagnostico, ha peraltro cause molteplici. Se infatti una delle prime motivazioni può essere la difficoltà del caso clinico, incide anche la formazione prevalentemente tecnologica  e lo stile professionale medico. L’accanimento terapeutico è coerente con una filosofia che concepisce la medicina come l’impresa umana che contrasta la morte, fino al punto di darle scacco. Dare scacco alla morte è il vanto supremo della medicina degli ultimi due secoli. Per lo stesso motivo si assume tacitamente che il malato chieda alla medicina di far ricorso a tutti i mezzi terapeutici che allontanano la morte. Ancora, l’estrema specializzazione delle branche della medicina conduce alla perdita completa del carattere personale della malattia: non si cura la persona del malato, ma i processi organici disturbati che chiamiamo malattie; il nuovo modello di rapporto medico-paziente, sempre più orientato al contrattualismo di provenienza anglosassone, spinge il personale sanitario a “fare di tutto”, anche quando certe terapie sono inutili, pur di non essere accusati dai parenti di omissioni o negligenze. La paura di conseguenze legali è forse la motivazione più diffusa che spinge il personale medico a qualche forma di accanimento terapeutico. Infatti i giudici tendono ad utilizzare  criteri non pertinenti ed astratti, non idonei a valutare l’operato del medico. L’insufficiente chiarezza della normativa giuridico-deontologica attuale incentiva quindi comportamenti difensivi da parte dei medici a scapito dei pazienti[23]. Concorrono tuttavia anche cause obiettive, quali ad esempio, interventi terapeutici su pazienti giunti al Pronto Soccorso, con la parziale conoscenza del caso clinico del paziente e la necessità di rapide decisioni.


  

 

Il consenso informato

L’ultimo comma dell’art. 35 del Codice di Deontologia medica della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici, Chirurghi e Odontoiatri (FNOMCeO) recita: “in ogni caso, in presenza di un documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona”.

Afferma il Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori sanitari, nel documento Carta degli Operatori sanitari, già citato, che “nell’intervenire medicalmente su un ammalato l’operatore sanitario deve avere il suo consenso espresso o tacito.

Egli infatti “non ha nei confronti del paziente un diritto separato o indipendente. In generale, può agire solo se il paziente lo autorizza esplicitamente o implicitamente (direttamente o indirettamente)”[24]. Senza questa autorizzazione egli si attribuisce un potere arbitrario[25].

Il rapporto sanitario è una relazione umana, dialogica non oggettuale. Il paziente “non è un individuo anonimo” su cui vengono applicate delle conoscenze mediche, ma “una persona responsabile, che deve essere chiamata a farsi compartecipe del miglioramento della propria salute e del raggiungimento della guarigione. Egli deve essere messo nella condizione di poter scegliere personalmente e di non dover subire decisioni e scelte di altri[26].

Per una scelta operata in piena consapevolezza e libertà, all’ammalato va data la percezione esatta del suo male e delle possibilità terapeutiche, con i rischi, le difficoltà e le conseguenze che comportano[27]. Questo significa che al paziente deve essere richiesto un consenso informato”.

Questo significa però che fra i doveri etici, giuridici e professionali del medico rientra la necessità che la formale acquisizione del consenso non si deve risolvere in un puro adempimento burocratico, ma sia il risultato di una adeguata fase di comunicazione e interazione tra il soggetto in grado di fornire le informazioni necessarie (il medico) ed il soggetto chiamato a compiere la scelta (il paziente)[28].

E’ per questo che occorre dire basta al modo, spesso burocratico, con cui si chiede al paziente il consenso informato, illudendosi che una firma in calce a un foglio garantisca il paziente da possibili abusi e il medico da possibili imputazioni. Il consenso informato sembra rispondere a una logica di medicina difensiva più che a un diritto del malato e della sua famiglia. Il sapere su di sé e sulle proprie condizioni di salute, sia in chiave diagnostica che prognostica, aiuta il malato a prendere le giuste decisioni sul piano di cura[29].

D’altra parte anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, afferma che il consenso libero e informato del paziente all’atto medico non deve essere visto più soltanto come un requisito di liceità del trattamento, ma deve essere considerato prima di tutto alla stregua di un vero e proprio diritto fondamentale del cittadino europeo afferente al più generale diritto all’integrità della persona (titolo I. Dignità, art. 3 Diritto all’integrità personale)[30].  

Per completezza si ricorda anche che nel documento approvato dal Comitato Nazionale per la Bioetica nella seduta del 24 ottobre 2008 “Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione paziente-medico” si sostiene che il paziente consapevole e cosciente ha il diritto di rifiutare i trattamenti sanitari, anche quando si tratta di cure salvavita.  Arriva inoltre ad affermare che il paziente ha in ogni caso il diritto ad ottenere altrimenti la realizzazione delle propria richiesta all’interruzione delle cure, anche in considerazione dell’eventuale possibile astensione del medico e dell’équipe medica[31].


 

Il testamento biologico

Con le espressioni “testamento biologico” (o testamento di vita,), “direttive (o disposizioni) anticipate di volontà, “dichiarazioni anticipate di trattamento”, si indica generalmente lo strumento volto a manifestare le scelte di fine vita. Si tratta di documenti scritti contenenti le indicazioni espresse da una persona sana e capace di intendere e di volere (“competente”, secondo la traduzione letterale di una parola anglosassone ormai entrata nell’uso) e aventi per oggetto i trattamenti sanitari e assistenziali che la persona vorrà o non vorrà ricevere nell’ipotesi in cui, a causa di una malattia grave, inguaribile, o di evento traumatico, si venisse a trovare in uno stato di incapacità di intendere e di volere (“incompetente”)[32].

Si è affermato che l’atto con cui il paziente in fieri dà disposizioni sulla propria fine è un atto non burocratico, ma etico. Esso concerne non solo e non tanto l’organismo, oggetto della biologia, ma anche e soprattutto la persona, la quale è un soggetto la cui natura è intrecciata alla storia, alla sua storia di vita. Coinvolta in tale atto è la biologia, ma anche una biografia. Per questo l’atto medesimo dovrebbe essere detto testamento biografico, con accezione più ampia, affrancata da riduzionismo biologico.

Nella terra di nessuno, ma di tutti, che intercorre tra la vita e la morte, il transito non è soltanto quello governato dalle leggi della bio-tanatologia; è anche un trapasso che fa di ogni persona non un cadavere, ma un defunto, il cui lascito testamentario non può essere oggetto di biolitigio. Il testamento biografico va rispettato non eluso o impugnato[33]

Una prima osservazione deve essere fatta sulle definizioni “direttive” o “dichiarazioni”. La dizione “direttive (o disposizioni) anticipate di volontà è la traduzione dell’espressione inglese advance health care directives, che letteralmente significa disposizioni anticipate di volontà in ordine ai trattamenti sanitari. Questo tipo di documento non dovrebbe implicare necessariamente una volontà di morire, perché si chiedono alcuni trattamenti e se ne rifiutano altri. Il personale medico, però, è tenuto a rispettare le volontà del paziente.

Alle espressioni “testamento biologico” e “disposizioni (o “direttive”) anticipate, si oppone quella di “dichiarazioni anticipate di trattamento”, coniata dal Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) nel 2003, per contrastare  una duplice idea: quella per cui oggetto del documento possa essere la decisione sulla vita umana (in questo senso è usata la parola “trattamento”) e quella per cui la volontà del paziente non debba essere vincolante per il medico (per questo è usata la parola “dichiarazioni” in luogo di “direttive”).

La descrizione del panorama terminologico va completata ricordando la “procura sanitaria” (durable power of attorney), con cui un soggetto nomina un rappresentante legale incaricato di prendere decisioni al suo posto (proxy decision maker) nella previsione di una futura incapacità e in materia di decisioni sui trattamenti. La procura sanitaria può essere contenuta anche nel testamento biologico, nelle direttive o dichiarazioni anticipate.

Il percorso italiano verso una legge sul c.d. “testamento biologico” risale al 1990, quando la Consulta di Bioetica di Milano, fondata nel 1989 dal neurologo Renato Boeri, ha promosso la c.d. “biocard” o “carta di autodeterminazione”. Tale documento è rivolto alla famiglia, ai medici curanti e a tutti coloro che saranno coinvolti nell’assistenza del sottoscrittore e si presenta comprensivo di richieste assai diverse che hanno una diversa rilevanza sia etica sia giuridica. Accanto alle volontà circa i trattamenti nella fase terminale, alla nomina di due tutori, alle disposizioni sulla donazione degli organi e sulla conservazione del proprio cadavere, all’assistenza religiosa, è previsto anche il rifiuto dei “provvedimenti di sostegno vitale”. Questi ultimi sono definiti “misure urgenti senza le quali il processo della malattia porta in tempi brevi alla morte”. Tali provvedimenti comprendono, secondo il modulo: 1. la rianimazione cardiopolmonare, 2. la ventilazione assistita, 3, la dialisi, 4. la chirurgia d’urgenza, 5. le trasfusioni di sangue, 6. le terapie antibiotiche, 7. l’alimentazione artificiale.

In questo senso si dispone che non siano curate le “infezioni respiratorie” e urinarie, le emorragie, i disturbi cardiaci o renali, o attivare l’alimentazione e l’idratazione artificiali, in presenza di: 1. malattie in fase terminale, 2. una malattia o una lesione traumatica del cervello gravemente invalidanti e giudicate irreversibili, 3.  altre malattie gravemente invalidanti e non rimediabili (per esempio, l’Aids)[34].

Il fondamento legislativo della rinuncia ad un trattamento medico è già rintracciabile nell’art. 32 della Costituzione Italiana che recita: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario, se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Ulteriori riferimenti possono essere l’art. 13 della stessa Costituzione che dispone che la libertà personale è inviolabile e l’art. 33 della legge 833/1978 Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale che prevede che gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari.

Un testo fondamentale in tale ambito è costituito dalla Convenzione sui diritti umani e la Biomedicina del Consiglio di Europa (Convenzione di Oviedo, 4 aprile 2007, ratificata in Italia con legge n.145 del 28 marzo 2001) dove all’articolo 9 si legge: “I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente, che al momento dell’intervento non è in grado di esprimere la sua volontà saranno presi in considerazione (testo inglese: shall be taken into account”.

Il Comitato Nazionale per la Bioetica il 18 dicembre 2003 ha approvato un documento sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento, riprendendo ed approfondendo -come dichiarato – un precedente documento, dello stesso Comitato, Questioni bioetiche sulla fine della vita del 14 luglio 1995 “alla luce della più recente riflessione bioetica e di rilevanti novità biogiuridiche”.

La motivazione delle dichiarazioni anticipate, riprendendo quanto affermato precedentemente,  come è scritto nel documento, considera che “la più ampia partecipazione dei cittadini nelle decisioni che li riguardano si applica a tutto l’arco del processo di cura ed è particolarmente richiesta quando il soggetto potrebbe essere privato delle facoltà cognitive e della stessa coscienza, trovandosi così a dipendere interamente dalla volontà di altri. Queste situazioni appaiono particolarmente drammatiche quando l’intervento potrebbe mettere in discussione la vita o la qualità della vita. Le dichiarazioni anticipate di trattamento tendono a favorire una socializzazione dei momenti più drammatici dell’esistenza e ad evitare che l’eventuale incapacità del malato possa indurre i medici a considerarlo, magari inconsapevolmente e contro le loro migliori intenzioni, non più come una persona, con la quale concordare il programma terapeutico ottimale, ma soltanto come un corpo, da sottoporre ad un anonimo trattamento. A tal fine è opportuno fornire ai medici, al personale sanitario e ai familiari elementi conoscitivi che li aiutino a prendere decisioni che siano compatibilmente in sintonia con la volontà e le preferenze della persona da curare”.

Il documento sottolinea ancora che: “In realtà le dichiarazioni non possono essere intese soltanto come un’estensione della cultura che ha introdotto, nel rapporto medico-paziente, il modello del consenso informato, ma hanno anche il compito, molto più delicato e complesso, di rendere ancora possibile un rapporto personale tra il medico e il paziente proprio in quelle situazioni estreme in cui non sembra poter sussistere alcun legame tra la solitudine di chi non può esprimersi e la solitudine di chi deve decidere. La finalità fondamentale è, quindi, quella di fornire uno strumento per recuperare al meglio, nelle situazioni di incapacità decisionale, il ruolo che ordinariamente viene svolto dal dialogo informato del paziente col medico e che porta il primo, attraverso il processo avente per esito l’espressione del consenso (o del dissenso), a rendere edotto il medico di ogni elemento giudicato significativo al fine di far valere i diritti connessi alla tutela della salute e, più in generale, del bene integrato della persona, E’come se, grazie alle dichiarazioni anticipate, il dialogo tra medico e paziente idealmente continuasse anche quando il paziente non possa più prendervi consapevolmente parte”.

Il documento sottolinea poi alcune patologie nelle quali le dichiarazioni anticipate possono contribuire a far sì che “molti ardui problemi decisionali di terapia e di trattamento possono essere, se non risolti, almeno attenuati da questo tipo di documenti, qualora vengano formulati nell’attualità delle prime fasi della malattia e trovino specifica applicazione soprattutto in relazione a particolari patologie a lenta evoluzione (AIDS, morbo di Alzheimer, malattie tumorali), il cui decorso tipico è sufficientemente conosciuto e per le quali, in base alle correnti conoscenze mediche, esistono diverse opzioni diagnostico terapeutiche, nessuna delle quali prevalente in assoluto su altre, ma ciascuna caratterizzata da particolari benefici riconnessi con particolari oneri e tale quindi da esigere una valutazione di complessivo bilanciamento, che non può non spettare, almeno prima facie, se non al paziente stesso” .

Il documento del Comitato Nazionale per la bioetica, pur senza impegnarsi in una completa analisi comparativa dei contenuti dei modelli di dichiarazioni anticipate già esistenti, evidenzia poi alcuni ti pi di indicazioni per quanto riguarda i contenuti stessi:

 

  • indicazioni sull’assistenza religiosa, sull’intenzione di donare o no gli organi per trapianti, sull’utilizzo del cadavere o parti di esso per scopo di ricerca e/o didattica,
  • indicazioni circa le modalità di umanizzazione della morte (cure palliative, richiesta di essere curato in casa o in ospedale, ecc.)
  • indicazioni che riflettono le preferenze del soggetto in relazione al ventaglio delle possibilità diagnostico-terapeutiche che si possono prospettare lungo il decorso della malattia,
  • indicazioni finalizzate ad implementare le cure palliative,
  • indicazioni finalizzate a richiedere formalmente la non attivazione di qualsiasi forma di accanimento terapeutico, cioè di trattamenti di sostegno vitale che appaiano sproporzionati o ingiustificati,
  • indicazioni finalizzate a richiedere il non inizio o la sospensione di trattamenti terapeutici di sostegno vitale, che però non realizzino nella fattispecie indiscutibili ipotesi accanimento,
  • indicazioni finalizzate a richiedere la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale.

E’ però assolutamente necessario sottolineare che gli ultimi due punti hanno determinato discussioni non risolte nell’ambito del Comitato Nazionale, così che il documento attesta che alcuni membri ritengono che il potere dispositivo del paziente vada limitato esclusivamente a quei trattamenti che integrino, in varia misura, forme di accanimento terapeutico, perché sproporzionati o addirittura futili. Non rientrerebbero a loro avviso, in tali ipotesi interventi di sostegno  vitale di carattere non straordinario, né l’alimentazione né l’idratazione artificiale che, quando non risultino gravose per lui, costituirebbero invece, atti eticamente e deontologicamente doverosi, nella misura in cui – proporzionati alle condizioni cliniche – contribuiscono ad eliminare le sofferenze del malato terminale e la cui omissione realizzerebbe una ipotesi di eutanasia passiva.

Tuttavia , si afferma poi che”pur essendo numerosi e complessi i problemi bioetici sollevati dalle dichiarazioni anticipate, sul piano etico non esistono radicali obiezioni di principio nei loro confronti, anche se differenti possono essere le motivazioni e gli argomenti che le differenti teorie etiche formulano a sostegno delle proprie posizioni”.

Il documento esprime poi le seguenti raccomandazioni:

 

  • le dichiarazioni abbiano carattere pubblico, siano cioè fornite di data, redatte in forma scritta e da soggetti maggiorenni,
  • non contengano disposizioni aventi finalità eutanasiche, che contraddicano il diritto positivo, le regole di pratica medica, la deontologia,
  • si auspica che siano compilate con l’assistenza di un medico, che può controfirmarle,
  • siano tali da garantire la massima personalizzazione delle volontà del futuro paziente, non consistano nella mera sottoscrizione di moduli.

Inoltre il Comitato Nazionale per la Bioetica ritiene opportuno che:

  • il legislatore intervenga esplicitamente in materia,
  • la legge obblighi il medico a prendere in considerazione le dichiarazioni anticipate, escludendone espressamente il carattere vincolante, ma imponendogli, qualora si discosti da esse nella sua decisione, di esplicitare formalmente in cartella clinica le ragioni del suo dissenso,
  • le dichiarazioni anticipate possano eventualmente indicare i nominativi di uno o più soggetti fiduciari, da coinvolgere obbligatoriamente,
  • ove le dichiarazioni anticipate contengano informazioni “sensibili” sul piano della privacy, la legge imponga apposite procedure per la loro conservazione e consultazione.

E’ importante precisare la figura e il ruolo del fiduciario: si tratta di una persona indicata dal paziente stesso per il rispetto delle sue volontà. A questo proposito il documento sottolinea che “questa figura è presente in molti dei modelli di dichiarazioni anticipate proposti in Italia e all’estero, alcuni dei quali già hanno ottenuto riconoscimento legale in diversi Stati. In particolare negli Stati Uniti, la direttiva di delega (Durable power of attorney for health care nello stato della California; Health care representative nello stato dell’Oregon; Patient advocate for health care nello stato del Michigan) costituisce la struttura portante di questi documenti, mentre le dichiarazioni vere e proprie vengono formulate sotto forma di limiti posti dal paziente all’azione del suo delegato”.

La filosofia sottostante le dichiarazioni anticipate è recepita dal Codice di Deontologia Medica Italiano, che nella ultima versione del 16 dicembre 2006 la sottolinea all’articolo 38 quando afferma: “Il medico deve attenersi, nell’ambito dell’autonomia ed indipendenza che caratterizza la professione, alla volontà liberamente espressa dalla persona di curarsi e deve agire nel rispetto della dignità, della libertà e autonomia della stessa… il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, deve tenere conto nelle proprie scelte di quanto precedentemente manifestato dallo stesso in modo certo e documentato”.

Nell’articolo si richiamano, quindi, due concetti fondamentali: da una parte l’autonomia ed indipendenza che caratterizzano la professione medica vincolandole comunque a principi etici fondamentali come il rispetto della dignità e della libertà della persona, e dall’altra parte, la necessità di verificare che la volontà del paziente sia documentata in modo certo.

A completamento si può ricordare come il nuovo Codice Deontologico degli Infermieri Italiani[35] dichiara  all’articolo 36 che “L’infermiere tutela la volontà dell’assistito di porre dei limiti agli interventi che non siano proporzionati alla sua condizione clinica e coerenti con la concezione da lui espressa della qualità della vita” e all’articolo 37: “L’infermiere, quando l’assistito non è in grado di manifestare la propria volontà, tiene conto di quanto da lui chiaramente espresso in precedenza e documentato”.

Un esempio pratico di dichiarazioni delle volontà anticipate è quello sostenuto dalla Fondazione Veronesi all’insegna del motto “Scegliere in modo consapevole come affrontare le incognite del futuro è una forma di libertà”, recentemente rinnovato nel più sintetico “Nessuno deve scegliere per noi[36]. Nel modulo predisposto il sottoscrittore si dichiara “nel pieno delle facoltà mentali e in totale libertà di scelta” e dichiara che in caso di malattia o lesione traumatica cerebrale irreversibile e invalidante, sia di malattia che mi costringa a trattamenti permanenti con macchine o sistemi artificiali che impediscano una normale vita di relazione chiedo di non essere sottoposto ad alcun trattamento terapeutico né ad idratazione e alimentazione forzate e artificiali in caso di impossibilità ad alimentarmi autonomamente”. Dichiarazione che i medici sono tenuti a rispettare.

Si può ricordare ancora la Carta delle Volontà Anticipate elaborate dal Comitato per l’Etica di Fine Vita[37] nella consapevolezza dell’inscindibile nesso che lega un’assistenza capace, in prossimità della morte, di alleviare la sofferenza e salvaguardare, per quanto possibile, la qualità e la dignità della vita dei pazienti e il rispetto della loro autodeterminazione nelle scelte sulle cure sino alla fine della vita.

In Germania, la Conferenza Episcopale tedesca il Consiglio della Chiesa evangelica hanno elaborato un testo comune definito Disposizioni sanitarie del paziente cristiano (Christliche Patientenverfugung) contenenti disposizioni di fine vita. Il testo, che contiene anche un modulo da compilare da parte del paziente, è stato siglato nel 1999 e rivisto nel 2003. Nel caso in cui venga decisa la limitazione delle misure terapeutiche, particolare importanza viene conferita al trattamento e all’assistenza della persona malata. La limitazione delle misure terapeutiche può rientrare anche nell’ampio accompagnamento medico e sanitario del morente, il quale include anzitutto la dedizione umana verso il malato, la sedazione del dolore e dei sintomi, così come la messa in atto di misure specifiche di trattamento in modo che i bisogni primari dell’esistenza umana restino tutelati. Di ciò fanno parte fra le altre cose una sistemazione dignitosa, la dedizione, l’igiene del corpo, l’alleviamento del dolore, della difficoltà respiratoria e della nausea, così come l’appagamento della fame e della sete. A questo proposito il documento puntualizza che l’alimentazione artificiale tramite un sondino naso-gastrico o per via gastroenterica (la cosiddetta sonda PEG) o per fleboclisi rientri alla fine della vita nell’”assistenza di base”, ma vada decisa da caso a caso[38].

Anche la “United States Catholic Health Association” aveva distribuito già nel 1974 un documento (Christian Affirmation of Life) che comprendeva anche questa affermazione: “richiedo che, se possibile, io sia consultato riguardo ai procedimenti medici che potrebbero essere usati per prolungare la mia vita, quando la morte si avvicina. Se io non posso più prendere parte in decisioni concernenti il mio futuro e non c’è ragionevole aspettativa di un mio recupero da condizioni di invalidità fisica o mentale, io richiedo che non si impieghino mezzi straordinari per prolungare la mia vita”. Altre iniziative simili sono sorte successivamente, come ad esempio il “testamento di vita” proposto dal Comitato Episcopale per la difesa della vita della Conferenza Episcopale Spagnola, affermante il principio che “la vita è un dono e una benedizione di Dio, ma non è il valore supremo assoluto”[39].


 

Legislazione e normativa internazionale

Quanto all’Unione Europea, merita di essere ricordata la proposta sull’assistenza ai malati terminali (25 aprile 1991) elaborata dalla Commissione per la protezione dell’ambiente, la sanità pubblica e la tutela dei consumatori del Parlamento Europeo che, fra l’altro, affermando che “l’esistenza di una persona non è riducibile alle funzioni naturali, vale a dire alle funzioni della vita vegetativa”, giunge ad affermare che “ogni qual volta un malato pienamente cosciente chieda, in modo insistente e continuo, che sia fatta cessare un’esistenza ormai priva per lui di qualsiasi dignità ed un collegio di medici, costituito all’uopo, constati l’impossibilità di dispensare nuove cure specifiche, detta richiesta deve essere soddisfatta”. La Proposta non è mai stata approvata.

In Olanda il 10 aprile 2001 è stata approvata la legge n. 137 (entrata in vigore nel 2002) che, andando oltre la depenalizzazione dell’eutanasia, legalizza le pratiche per “porre fine alla vita su richiesta e per il suicidio assistito”.

La normativa subordina ad una serie di condizioni (definite criteri di accuratezza) il comportamento del medico che provoca la morte o che assiste il malato nel suicidio: piena convinzione che la richiesta del paziente è “volontaria e ben ponderata”; che le sofferenze siano “insopportabili e senza prospettive di miglioramento”; che il paziente sia stato informato; che non vi sia “altra ragionevole soluzione”; che sia chiesto il parere di almeno un altro medico indipendente; che l’interruzione della vita o il suicidio sia eseguito scrupolosamente dal punto di vista medico.

In Belgio, il 28 maggio 2002 diviene legge a tutti gli effetti la “Legge relativa all’eutanasia”, modellata su quella olandese. Il capitolo III è dedicato alle dichiarazioni anticipate ed è stato integrato da un decreto del 2 aprile 2003 riguardante le modalità di redazione, conferma, modifica o revoca delle dichiarazioni anticipate. Esse, in sintesi, possono essere redatte da un soggetto capace, maggiorenne o minore emancipato, in presenza di due testimoni di cui almeno uno non abbia interesse alla morte del dichiarante, hanno durata quinquennale, non sono vincolanti, il medico non è tenuto a praticare l’eutanasia.

In Francia, la legge n. 370 del 22 aprile 2005, Loi relative aux droits des malate et à la fin de vie, prevede la possibilità per un soggetto maggiorenne di redigere in un documento scritto i propri desideri (souhaits) circa le limitazioni o l’interruzione di trattamenti medici in caso di perdita di coscienza.

Il decreto n. 119 del 6 febbraio 2006 detta poi, disposizioni regolamentari in materia di direttive anticipate: esse possono essere revocate o modificate (parzialmente o totalmente) in ogni momento, devono essere formulate a distanza di meno di tre anni dalla perdita di coscienza del paziente; la durata triennale può essere rinnovata può essere con semplice decisione firmata sul documento originario da parte del soggetto stesso; ma nell’impossibilità di scrivere e firmare, due testimoni (uno dei quali deve essere il fiduciario eventualmente designato) attestano che il documento è espressione della libera volontà del soggetto; sono conservate dal medico curante o da un altro medico scelto dal paziente oppure, nel caso di degenza in ospedale, nella cartella clinica; se il soggetto preferisce conservare il documento presso di sé, presso il fiduciario, presso un familiare o un parente, la scheda o la cartella clinica si limitano a fare riferimento all’esistenza di disposizioni anticipate; il medico al momento di dover prendere una decisione in ordine alla limitazione o alla interruzione di un trattamento, se le direttive non sono presenti nella scheda o nella cartella clinica, deve accertarsi della loro eventuale esistenza presso il fiduciario, i familiari, i parenti, il medico curante o il medico che ha indirizzato a lui stesso il paziente.

Oltre la legge svolge un interessante ruolo anche la Charte de la personne hospitalisée (Carta della persona ricoverata in ospedale) che, quando una persona che non sia morente rifiuta i trattamenti vitali, dispone che il dovere d’assistenza del medico debba prevalere in caso d’urgenza sul rifiuto delle cure, in quanto il paziente non avrebbe disposto di un termine minimo, necessario per ribadire, con piena cognizione di causa, la sua volontà. Viceversa, se è in fin di vita, prevale la volontà del paziente[40].

In Svizzera, vi è un progetto che prevede che la persona capace di discernimento possa designare, con direttive vincolanti, i procedimenti medici ai quali accetta o rifiuta di essere sottoposto nel caso in cui divenga incapace di discernimento.

In Germania, sulla scia della sentenza del 17 marzo 2003 la Corte suprema federale ha dichiarato la legittimità e il carattere vincolante dell’atto di disposizione del paziente (Patientenverfugung) a condizione che la volontà anticipata coincida esattamente con la situazione in cui la volontà stessa dovrebbe essere eseguita. Il 18 giugno 2009 il Parlamento tedesco, dopo sei anni di discussioni, ha approvato un disegno di legge, in base al quale in futuro il testamento biologico sarà vincolante per i medici indipendentemente dal tipo e dalla gravità della malattia[41].

In seguito all’approvazione della legge, la Conferenza Episcopale Tedesca, il Consiglio della Chiesa evangelica tedesca e delle Comunità delle Chiese cristiane il 26 gennaio 2011 hanno rivisto un precedente documento, elaborando così la “Dichiarazione anticipata cristiana mediante procura preventiva, disposizioni per l’assistenza, preferenze sui trattamenti e direttive di trattamento. Sussidio e formulario” che prevede[42]:

Ø  l’accompagnamento e trattamento medico, nonché la cura devono essere finalizzati a lenire i disturbi come ad esempio dolori, irrequietezza, paura, insufficienza respiratoria o nausea, anche se mediante le cure necessarie non si può escludere un abbreviamento della vita;

Ø  non si deve praticare alcuna alimentazione artificiale mediante interventi medici (ad esempio, né mediante un sondino naso-gastrico o addominale né endovena). La fame deve esser placata in modo naturale, eventualmente con un aiuto nellassunzione di cibo;

Ø  si deve ridurre in base al giudizio del medico lidratazione artificiale. Il senso di sete deve essere placato in modo naturale, eventualmente con un aiuto nellintroduzione di liquidi e inumidimento delle mucose della bocca;

Ø  si devono tralasciare trattamenti di rianimazione;

Ø  si deve rinunciare alla respirazione artificiale, ma si devono somministrare medicine per alleviare laffanno. Accetto la possibilità che queste medicine riducano il livello della mia coscienza o provochino una riduzione involontaria della mia vita

Ø  non si deve praticare alcuna dialisi o si deve interrompere una dialisi già avviata;

Ø  non devono essere più somministrati antibiotici;

Ø  si deve rinunciare alla trasfusione di sangue o di suoi componenti;

Ø  trattamenti diagnostici o ricovero in ospedale devono avvenire solo se servono

Ø  a un maggiore lenimento dei disturbi e non possono essere effettuati a domicilio;

Ø  se possibile, vorrei restare a casa e ivi ricevere le cure necessarie;

Ø  se non posso restare a casa, vorrei essere ricoverato nell’ospedale,ospizio,luogo di cura ……

  

Negli Stati Uniti, fondamentale è la disciplina federale nota come Patient Self Determination Act (PSDA) in vigore dal 1 dicembre 1991 che prevede  la stesura di living will soprattutto per esprimere il desiderio di non essere mantenuto in vita con mezzi artificiali, ciò che viene reso con l’icastico “that the plug be pulled (che si stacchi la spina).

In Canada, nell’Ontario, il Joint Centre for Bioethics ha predisposto un documento “Testamento di vita” nel quale sono specificate le volontà riguardanti la futura tutela della salute e la cura della persona; viene detto anche testamento biologico, living will o advance directive, che ha valore cogente nelle provincie canadesi, pur assumendo denominazioni diverse:

nell’Alberta è considerato una personal directive, come previsto dal Personal Directives Act,

nel Manitoba è considerato una health care directive, come previsto dall’Health Care Directives Act,

nel Newfoundland è consideratoun advance health care directive, come previsto dall’Advance Health Care Directives Act,.

Nella Nova Scotia, è considerato un advance health care directive come previsto dal Medical Consent Act,

nell’Ontario è considerato un power of attorney for personal care, come previsto dal Substitute Decisions Act,

nella Prince Edward Island, è considerato una health care directive, come previsto dal Consent  to Treatment and Health Care Directives,

nel Saskatchwan è considerato una directive cone previsto dal Health CareDirctive and Substitute Health Care Decision Makers act.

In Inghilterra, la legge Mental Capacity Act 2005 prevede, all’articolo  24 e seguenti, le Advance decisions to refuse treatment. Questa normativa è entrata in vigore nel 2007.

In Giappone, pur in mancanza di una normativa specifica, la prassi ha introdotto il testamento biologico[43].

In Argentina, nel 2005 il Colegio de Escribanos de la Provincia de Buenos Aires (Collegio Notarile della Provincia di Buenos Aires) ha istituito un registro di “atti di auto protezione”, questa denominazione fa riferimento alle direttive anticipate e alla procura in previsione dell’incapacità.

Inoltre, sul piano legislativo, la legislatura della provincia di Rìo Negro ha emanato la legge  4263, pubblicata il 3 gennaio 2008, con la quale riconosce la “Declaracìon de Voluntad AnticipadaD.V.A

In Austria, la legge austriaca sul testamento biologico – Patientenvergugunsgesetz) regola i requisiti e l’efficacia dei testamenti biologici.

In Danimarca, ogni persona che ha più di diciotto anni, che non è sotto tutela, che riveste le condizioni personali e, nello stesso tempo di salute, previste dall’art. 5 della legge sulla tutela, può redigere un testamento di vita.

In Spagna, la legge Instrucciones Previas del 14 novembre 2002 consente l’interruzione dei trattamenti vitali della persona. Il documento di “istruzioni preventive” redatto da un soggetto maggiorenne e capace può contenere disposizioni riguardanti le cure e terapie cui essere sottoposto, la destinazione del proprio corpo e dei propri organi in caso di morte;

In Australia, alcuni Stati si sono dotati di una legge sul “living will” con provvedimenti che ricalcano la normativa statunitense.


 

Disegno di legge n. 10/A: Dichiarazioni anticipate di trattamento

Il disegno di legge n.10/A “Disposizioni in materia di consenso informato e dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari al fine di evitare l’accanimento terapeutico, nonché in materia di cure palliative e di terapia del dolore” che è stata approvato in prima lettura dal Senato della Repubblica con il nuovo titolo “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di  dichiarazioni anticipate di trattamento” , ha quali elementi fondanti i seguenti punti:

 

-        le Dat non sono vincolanti. Il soggetto dichiara il proprio orientamento circa l’attivazione o non attivazione di trattamenti sanitari, purché conformi a quanto prescritto dalla legge e dal codice di deontologia medica,

-        le Dat hanno validità per cinque anni, termine dopo il quale perdono ogni efficacia, ma possono essere indefinitivamente rinnovate. Chi intende avvalersene deve farlo per iscritto con un atto avente data certa e firma del soggetto interessato maggiorenne. Le può raccogliere solo il medico di medicina generale che contestualmente le sottoscrive,

-        deve essere assicurata l’assistenza domiciliare per i soggetti in stato vegetativo permanente,

-        gli atti medici non possono prescindere dall’espressione del consenso informato. Il consenso informato non è richiesto quando il paziente sia in pericolo di vita per il verificarsi di un evento acuto,

-        si garantisce la partecipazione del paziente all’identificazione informata e consapevole delle cure mediche più appropriate, riconoscendo come prioritaria l’alleanza terapeutica tra il medico e il paziente,

-        e vietata ogni forma di eutanasia e ogni forma di assistenza o di aiuto al suicidio,

-        in caso di pazienti in stato di fine vita o in condizioni di morte prevista come imminente, il medico deve astenersi da trattamenti straordinari non proporzionati, rispetto alle condizioni cliniche del paziente e agli obiettivi di cura,

-        l’alimentazione e l’idratazione nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, sono forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze fino alla fine della vita. Esse  non possono formare oggetto di Dat,

-        è possibile la nomina di un fiduciario che si impegna ad agire nell’esclusivo e migliore interesse del paziente, operando sempre e solo secondo le intenzioni legittimamente esplicitate dal soggetto nelle dichiarazioni anticipate. Nel caso si crei un conflitto tra il medico curante e il fiduciario, è stabilito che venga chiamato in causa un collegio di medici designato dalla direzione sanitaria della struttura di ricovero del paziente o dalla Asl competente. In assenza del fiduciario o per inadempimento e inerzia di chi è legittimato a esprimere il consenso, la decisione è autorizzata dal giudice tutelare. Su parere del collegio medico o, in caso d’urgenza, sentito il medio curante,

-        la volontà espressa dal soggetto nella sua Dat è attentamente presa in considerazione dal medico curante che, sentito il fiduciario, annota nella cartella clinica le motivazioni per le quali ritiene di seguirle o meno,

-        è istituito il Registro delle dichiarazioni anticipate di trattamento nnell’ambito di un archivio unico nazionale informatico. Il titolare del trattamento dei dati contenuti nel predetto archivio e il ministero del Welfare.


 

Discussioni successive

L’approvazione, come si è detto, del Senato della Repubblica, non ha spento la discussione sulle Dat. Sono emerse infatti numerose ulteriori discussioni su quanto previsto dal disegno di legge in ordine:

alle necessità assistenziali:I medici italiani ritengono che il legislatore nel decidere di intervenire in materia di dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario, debba altresì garantire un’efficace rete di tutela dei soggetti più deboli perché inguaribili, terminali, morenti, ancor più se divenuti incapaci. “Le politiche di governo dei processi di cura vita registrano infatti pesanti ritardi nel nostro Paese, nonostante i meritori progressi degli ultimissimi anni; ci riferiamo alle cure del dolore, agli approcci palliativi, agli hospices ma anche alle carenze di supporti economici e sociali per chi resta e spesso l’incertezza sul futuro dei propri cari ingigantisce a dismisura l’angoscia del paziente[44].

alla nutrizione e idratazione artificiale: La maggior parte, se non la totalità, delle società mediche e scientifiche, dai National Institute of Health all’Organizzazione Mondiale della Sanità , dalla Società Italiana di nutrizione parenterale ed enterale alla Società Italiana di cure palliative, i diversi trattamenti di “nutrizione e idratazione forzate” costituiscono una terapia medica e non un semplice aiuto a una persona disabile[45]. Anche l’Ordine dei Medici Italiani ritiene l’idratazione/nutrizione artificiale un trattamento terapeutico da ricondurre ai profili di competenza e di responsabilità riservati ai medici in collaborazione con altre figure sanitarie. La nutrizione artificiale è calibrata su specifici problemi clinici mediante la prescrizione di nutrienti, farmacologicamente preparati e somministrati attraverso procedure artificiali, sottoposti a rigoroso controllo sanitario ed infine richiedente il consenso informato del paziente in ragione dei rischi connessi alla sua predisposizione e mantenimento nel tempo[46]. Essendo quindi, in base a tali valutazioni, un atto medico dovrebbero essere tra i trattamenti oggetto delle Dat.

Si è così affermato che il testo approvato dal Senato presenta un grosso limite. Se dovesse essere approvato anche dalla Camera dei Deputati il testo del disegno di legge, non sarà in nessun caso possibile sospendere alimentazione e idratazione perché finalizzata ad alleviare le sofferenze  fino alla fine della vita. Ora anche trascurando per un momento il tema del consenso, ci sono casi in cui nell’imminenza della morte (in seguito ad esempio a malattie tumorali) è l’organismo stesso a non essere più in grado di assimilare le sostanze fornite, e alimentazione e idratazione invece di alleviare le sofferenze diventano esse stesse fonti di sofferenza. Ogni medico sa (o dovrebbe sapere) che nell’imminenza della morte può verificarsi questa situazione. Ebbene, sulla base della legge in discussione l’alimentazione e l’idratazione dovranno proseguire forzatamente sino all’arresto cardiocircolatorio o all’accertamento di morte cerebrale. Si poteva facilmente superare l’ostacolo sostenendo che l’alimentazione e l’idratazione sono atti doverosi, quando non risultino gravosi per il paziente[47].

D’altra parte si è affermato come “possa essere opportuno nell’ambito della riflessione etica un ulteriore approfondimento della reale gravosità per il paziente delle tecniche invasive di somministrazione usate per la l’alimentazione e l’idratazione e, sugli effetti della sospensione di tale alimentazione qualora sia stata iniziata con la speranza di un beneficio[48].

alla variabilità decisionale: poiché la persona può modificare le sue opinioni e le proprie volontà in base all’evoluzione della malattia e agli adattamenti psicologici a questa, tali “volontà anticipate” non sembrano essere vincolanti, almeno sotto l’aspetto giuridico, poiché esse non possono estendersi ad atti implicitamente dispositivi della vita, in quanto l’atto medico non può trovare la sua legittimazione unicamente nel consenso,in quanto le direttive anticipate non assicurano il requisito di persistenza della volontà del paziente[49].

Uno dei rilievi più frequentemente mossi alle dichiarazioni anticipate, o a documenti consimili, riguarda l’astrattezza di cui tali documenti inevitabilmente soffrirebbero, un’astrattezza e genericità dovute alla distanza, psicologica e temporale, tra la condizione in cui la dichiarazione viene redatta e la situazione reale di malattia in cui essa dovrebbe essere applicata[50]

ai mezzi di sostentamento: sulla procedura del livig will rimangono delle perplessità rilevanti, anzitutto sulla validità giuridica e morale di una volontà testamentaria espressa in anticipo,  fuori delle concrete di malattia, su un bene che è la vita e non una cosa. Ma rimane anche la perplessità di fondo sull’interpretazione nel caso concreto di quelli che vengono chiamati i mezzi di sostentamento vitale e sulla determinazione delle condizioni di irreversibilità: si intendono per mezzi di sostentamento vitale anche l’aiuto alla respirazione, la nutrizione, l’igiene personale, l’idratazione?  Sono questi veramente i mezzi di cui parla Dichiarazione della S.Congregazione o i mezzi straordinari di cui parla la Christian Affirmation of Life? Inoltre è lecito “dispensare” il medico dall’avere una sua propria valutazione anche contro la volontà dei pazienti? Come potrebbe in queste condizioni, il medico rimanere autonomo nella propria coscienza e nella veste di “prestatore d’opera intellettuale” per cui è la sua intelligenza che deve valutare i mezzi idonei ad assistere il malato terminale? Qualcuno ha notato che il living will parte dal presupposto che il medico voglia a tutti i costi e sempre praticare terapie eroiche[51].

ai vincoli per il medico: come già affermato al punto precedente, rimane aperto il dibattito tra una interpretazione vincolante delle Dichiarazioni, rendendo il medico simile a un “esecutore testamentario”, e un loro rispetto posto a verifica da parte del medico, cioè intendendo le Dichiarazioni come “strumento utile” per decidere, in dialogo con il fiduciario, quando il paziente non sia più capace di un reale dissenso/consenso.


 

Conclusioni

La buona pratica medica sa che i protocolli scientifici e terapeutici sono sempre da interpretare al letto del malato, che è una persona concreta, una individualità effettiva anche come risposta meramente biologica alle terapie. Di qui un dubbio di fondo su documenti che possono diventare di tipo “giuridico” e a cui, come tali, non si può chiedere di garantire una buona morte o di risolvere il dramma e il limite radicale che tocca la condizione umana[52], e il cui ricorso, in base alle esperienza, almeno negli Stati Uniti, si valuta sul 15-18% dei pazienti. Inoltre la probabile futura conversione in legge delle dichiarazioni anticipate di trattamento, non elimina le necessità di una migliore assistenza medica alla fine della vita.

Un recente documento della International Association of Gerontology and Geriatrics degli Stati Uniti - “Statement of End-of-Life Care for Old People” -  in una visione globale degli interventi per migliorare l’assistenza alla fine della vita considera in primis una migliore formazione degli operatori sanitari, poi lo sviluppo di direttive assistenziali, l’elaborazione di un sistema sanitario che risponda meglio ai bisogni delle persone e dei loro familiari anche nell’ambito delle cure palliative. Si tratta pertanto di assicurare un miglior controllo dei sintomi che possono migliorare la qualità di vita e che possono influenzare il decorso della patologia, un miglior controllo da assicurare in tutti gli ambiti: negli ospedali, nell’assistenza domiciliare, nelle residenze sanitarie assistenziali.    

La seconda parte del documento Statement on ethical aspects for admission to, treatment and care of older persons in Intensive Care Unit” , aggiunge poi che dall’accordo tra il paziente, la famiglia, il medico di famiglia, lo staff infermieristico, il geriatra e lo specialista in cure intensive, può scaturire la decisione di interrompere o iniziare trattamenti (peraltro non specificati) se ritenuti ininfluenti sul decorso della patologia.

Questa parte del documento si può dire che sia motivato dalla constatazione che la morte “naturale” non può più essere il paradigma per un elevato numero di pazienti. Il potere di “intervenire” sulla vita rende sempre più lo staff medico responsabile del modo in cui si muore e del momento in cui si muore. Il ritardo o l’anticipazione della morte dipendono in modo crescente dalla scelta di utilizzare

o non utilizzare, continuare o sospendere trattamenti “artificiali“. Oltre a questo si deve considerare che, a partire dagli anni Settanta, si è sempre più affermata l’idea che tra i diritti dei pazienti vi fosse anche quello dell’autonomia decisionale, cioè il potere di decidere in merito ai trattamenti medici a cui venire o non venire sottoposti anche nel caso di pericolo di morte prossima.

D’altra parte la cura oggi è affidata ad una équipe di esperti, ognuno dei quali ha una propria competenza e specializzazione. Questo è uno degli elementi che hanno contribuito a ripensare l’autorità del medico riguardo alle decisioni terapeutiche, determinando una revisione del potere decisionale che lascia spazio alla negoziazione tra medico, paziente e famiglia.

Oggi, negli Stati Uniti, anche in assenza di un documento esplicito come il Testamento biologico,interrompere le terapie quando non esiste una ragionevole speranza di riportare il paziente a una condizione di vita accettabile e a recuperare le proprie facoltà intellettive non solo è una prassi comune negli ospedali, ma è una possibilità prevista da regole precise, rispettate dagli operatori sanitari senza suscitare alcun clamore o polemica. Ogni giorno capita che ci si trovi di fronte al dilemma se interrompere o meno alcune  delle terapie che, grazie agli enormi progressi tecnologici cui godiamo, permettono di mantenere in vita un essere umano destinato altrimenti a morire. La decisione viene presa di comune accordo tra i medici e i familiari del paziente e solo molto raramente si corre il rischio che si creino dei conflitti[53].

Ma un esempio di “alleanza terapeutica” è possibile indicarla anche in Italia, nel documento Scelte di fine vita rianimazione pediatrica”, quando afferma che “E’ essenziale che le scelte di fine vita vengano elaborate attraverso itinerari decisionali eticamente pensati, adeguatamente argomentati, espliciti e il più possibile condivisi all’interno del particolare “triangolo relazionale” costituito da paziente, genitori ed equipe curante. Il ruolo dei genitori quali naturali interpreti e rappresentanti del miglior interesse del loro bambino, si integra con l’obbligo etico e professionale che il medico ha nei riguardi del paziente di attivare e mantenere esclusivamente trattamenti proporzionati….. Quando, da parte di un componente dell’équipe, dal paziente o dai genitori, viene sollevata la questione della sospensione o del non inizio dei trattamenti di supporto vitale, il medico che ha la responsabilità del paziente e il Primario della Rianimazione devono guidare il processo decisionale e fare ogni sforzo per realizzare l’obiettivo di una decisione condivisa, favorendo in ogni modo una informazione completa dell’équipe curante, dei genitori e del paziente, nonché una comunicazione aperta e tempestiva tra tutte queste figure”[54].

Si può aggiungere che questo processo decisionale può svolgersi anche nel tempo con l’acquisizione dei desideri personali del paziente durante i vari incontri che il processo assistenziale richiede. Attualmente le cartelle cliniche non testimoniano adeguati rapporti tra medico e paziente; inesistenti sono di solito i riferimenti alla morte, pertanto si dovrà cercare di introdurre nella storia dei pazienti dei riferimenti alle volontà anticipate rispettando così la dimensione spirituale della vita[55].

Forse, proprio attraverso il dialogo e la comunicazione “anticipati” all’interno di una relazione che comprende fiducia,informazione, condivisione si riescono ad elaborare quelle dichiarazioni per cui trovare poi quel trattamento “giusto” quando il paziente non è più capace, evitando accanimento terapeutico ed eutanasia.

Il documento della International Association of Gerontology and Geriatrics, già citato, ricorda poi come i pazienti con una lunga storia di malattia, gravemente non autosufficienti, in fase terminale, possono ricevere un migliore trattamento dei sintomi in un reparto di cure palliative piuttosto che in un reparto di cure intensive.

Riconoscere la morte come un evento naturale e come un momento della vita è caratteristica peculiare dell’ethos palliativo, ove si afferma la vita senza che il cammino verso la morte sia prolungato o accelerato.

Una seconda osservazione è che l’incorporazione dell’ethos palliativo nella medicina intensiva può avere un impatto profondo sulle qualità delle cure. L’ethos palliativo potrebbe aiutare a ridefinire la selezione dei criteri per l’assistenza medica intensiva. Ammettere in un reparto di cure intensive un paziente di cui si conosca una prognosi infausta è un frequente errore decisionale che può distruggere tutti gli schemi di un’ assistenza compassionevole e aggiungere solo sofferenze ai suoi ultimi giorni. In alcuni casi particolarmente dolorosi, si potrebbero addirittura ravvisare elementi di inefficienza professionale e di violazione dei diritti del paziente[56]. 


Riassunto

Le conquiste della scienza e della tecnologia hanno portato dei mutamenti anche riguardo alle modalità della morte. Se da un lato, mediante apparecchiature e sistemi avanzati, la scienza e la pratica medica possono oggi risolvere situazioni che fino a poco tempo erano insolubili e sono in grado di salvare e curare pazienti una volta destinati a morte certa, dall’altro possono protrarre la vita perfino in situazioni di debolezza estrema, prolungando il processo del morire

Con le espressioni “testamento biologico” (o testamento di vita,), “direttive (o disposizioni) anticipate di volontà, “dichiarazioni anticipate di trattamento”, si indica generalmente lo strumento volto a manifestare le scelte di fine vita. Si tratta di documenti scritti contenenti le indicazioni espresse da una persona sana e capace di intendere e di volere (“competente”, secondo la traduzione letterale di una parola anglosassone ormai entrata nell’uso) e aventi per oggetto i trattamenti sanitari e assistenziali che la persona vorrà o non vorrà ricevere nell’ipotesi in cui, a causa di una malattia grave, inguaribile, o di evento traumatico, si venisse a trovare in uno stato di incapacità di intendere e di volere (“incompetente”).

Il disegno di legge n.10/A,  che è stato approvato in prima lettura dalla Camera dei Deputati con il  titolo “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di  dichiarazioni anticipate di trattamento” non ha certo risolto le problematiche etiche ed il testo stesso è oggetto di numerose obiezioni.

Massimo Petrini·

 



[1] Cf.Casini C., Casini M., Di Pietro M.L., Testamento biologico, Società Editrice Fiorentina, Firenze 2007, p. 14

[2] Spinsanti S., Umanizzare la malattia e la morte, Paoline, Milano 1980, p. 6

[3] Camon F., Così si spegne l’uomo macchina, “Confini Capire la morte per crescere la vita” 9(1996), p. 12

[4] Sandrin L., Testamento di vita o testamento di sfiducia, “Camillianum” 18 n.s.(2006), pp.557-563 Le sottolineature in  corsivo sono dell’Autore.

[5] Becchi P., Il testamento biologico e i falsi paladini della “libera scelta”, “Il Giornale” del 5 marzo 2009, p. 25

[6] Pessina A., Bioetica L’uomo sperimentale, B.Mondadori, Milano 2000, pp. 154-155

[7] Piva P., Testamento biologico: problema teologico-etico, “Rivista di Teologia Morale” 162(2009), pp.211-228

[8] Benedetto XVI, Discorso agli ammalati e agli operatori sanitari per la XVII Giornata Mondiale del Malato, 11 febbraio 2009

[9] Malerbe J.F., La medicalizzazione della vita e la resistenza della parola, in AA.VV., Nascere, amare, morire, Paoline, Cinisello Balsamo 1989, p. 63

[10] Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione sull’Eutanasia, 5 maggio 1980, in AAS 72(1980), pp. 1542-1552

[11] “Può accadere, in casi dubbi, quando siano falliti i mezzi già noti, che un nuovo metodo, ancora insufficientemente provato, offra, accanto a elementi assai pericolosi, delle buone probabilità di successo. Se il malato dà il suo assenso, l’applicazione del provvedimento in questione è lecita” (Pio XII, Ai partecipanti del I Congresso internazionale di istopatologia del sistema nervoso, 14 settembre 1952, in AAS 44(1952), p. 788)

[12] Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori pastorali, Carta degli Operatori Sanitari, Città del Vaticano 1994

[13] Giovanni Paolo II, Discorso del 15 novembre 1985, “La Traccia” 10(1985), p. 1361

[14] Tettamanzi D., Nuova Bioetica Cristiana, Piemme, Casale Monferrato 2000, p. 518

[15] The Catholic Bishops’ of Pennsylvania, Statement on Nutrition: moral considerations, trad. Italiana, “Medicina e Morale” 4(1992), pp. 739-763

[16] United States Bishops’ Pro-Life Committee, Nutrition and hydration: moral and pastoral reflections, “Origins” 21(1992), pp. 705-712

[17] Comitato Nazionale per la Bioetica, Questioni etiche relative alla fine della vita umana, Presidenza del Consiglio dei Ministri/Dipartimento per l’informazione e l’editoria, Roma 1995, p. 29

[18] Associazione Medici Cattolici Italiani, Senso della morte e amore per la vita, San Paolo, Cinisello Balsamo 2007, p. 57

[19] Proietti R., Accanimento terapeutico, in G.Cinà, E.Locci, C. Rocchetta, L.Sandrin (a cura di), Dizionario di Teologia Pastorale Sanitaria, Edizioni Camilliane, Torino 1997, p. 5

[20] Cf. Spinsanti S., Umanizzare la malattia e la morte, Paoline, Cinisello Balsamo 1985, p. 139

[21] Autiero A., Medicina e tecnologia per la prassi dell’etica medica, “Rivista di Teologia morale” 79(1988), pp. 47-58

[22] Il Giornale del 10 novembre 2002, p. 14 . Per la pubblicazione della ricerca vedi Gianni A., Limite terapeutico e scelte di fine vita: il processo decisionale in terapia intensiva, in A.Pessina (a cura), Scelte di confine in medicina. Sugli orientamenti dei medici rianimatori, Vita e Pensiero, Milano 2004, pp.37-76

[23] Aramini M., Testamento biologico Spunti per un dibattito, Ancora, Milano 2007, pp.62-63

[24] Pio XII, Ai medici dell’Istituto G. Mendel, 24 nov. 1957, in “AAS” 49(1957), p. 1031

[25] “Non si può fare del malato l’oggetto di decisioni che non è lui a prendere o, se non è in grado di farlo, che non potrebbe approvare. La “persona”, principale responsabile della propria vita, deve essere il centro di qualsiasi intervento di assistenza: gli altri sono presenti per aiutarla, ma non per sostituirsi ad essa” (Pontificio Consiglio, “Cor Unum”, Alcune questioni etiche relative,ai malati gravi e ai morenti, 27 luglio 1981, in Enchiridion Vaticanum, 7, EDB, Bologna 1985, p. 1137, n. 2.1.2)

[26] Cf. Giovanni Paolo II, Al Congresso mondiale dei medici cattolici, 3 ottobre 1982, in Insegnamenti V/3, p. 673, n. 4

[27] Cf. Giovanni Paolo II, Ai partecipanti a due Congressi di medicina e chirurgia, 27 ottobre 1980,in Insegnamenti III/2, p. 1008-1009, n. 9

[28] Comitato Nazionale di Bioetica, Informazione e consenso all’atto medico, 20 giugno 1992

[29] Binetti P., La vita è uguale per tutti La legge italiana e la dignità della persona, Mondadori, Milano 2009, p. 85

[30] Spagnolo A.G., Sacchini D., Pessina A., Lenoci M., Etica e giustizia in sanità Questioni generali Aspetti Metodologici e organizzativi, Mc Graw-Hill, Milano 2004, p. 378

[31] Marcucci S., Il paziente cosciente ha diritto a rifiutare le cure, “Panorama della Sanità” 41(2008), pp. 17-18

[32] Casini C., Casini M., Di Pietro M.L., Testamento biologico, Società Editrice Fiorentina, Firenze 2007, p. 19

[33] Cosmacini G., Chiamatelo “testamento biografico”, “Il Sole 24 Ore” del 1 marzo 2009, p. 27

[34] Casini C., Casini M., Di Pietro M.L., Testamento biologico, Società Editrice Fiorentina, Firenze 2007, pp. 27-28

[35] Approvato dal Comitato centrale della Federazione Nazionale Collegi Ipasvi con deliberazione n. 1/09 del 10.01.2009 e dal Consiglio Nazionale della Federazione Nazionale Collegi IPASVI il 17 gennaio 1009, “Panorama della Salute” 8(2009), pp.20-22

[36] De Tilla M., Militerni L., Veronesi U., La parola al paziente. Il consenso informato e il rifiuto delle cure, Sperling &

Kupfer, Milano 2008 vedi anche Flores D’Arcais P., A chi appartiene la tua vita?, Ponte alle Grazie, Milano 2009

[37] C.E.F., Carta delle Volontà Anticipate, Casa Editrice Vicolo del Pavone, Piacenza 2005

[38] Conferenza Episcopale tedesca, Consiglio delle Chiese evangeliche, Testamento biologico cristiano con delega preventiva e nomina di un fiduciario, “Micromega” del 16 marzo 2009

[39] O’Rourke, The christian affirmation of life, “Hospital Progress” 55(1974), pp.65-72; Perico G., Testamento biologico e malati terminali, “Aggiornamenti Sociali” 11(19929, PP. 667-692; The Catholic Bishop’s of Pennsylvania, Living Will and Proxy for Really Care Decisions, “Medicina e Morale” 5(1993), pp.989-999

[40] Calò E., Il Testamento biologico tra diritto e anomia, IPSOA, Milano 2008, pp.56-57

[41] Zappalà D., Biotestamento alla tedesca, no dei medici, “Avvenire” Inserto E’ Vita del 25 giugno 2009

[42] Conferenza Episcopale, Chiesa evangelica e Chiese cristiane tedesche, Il biotestamento, “Il Regno Documenti” 9(2011), pp. 290-300

[43] Masuda A. et al., Physician’s reports on the impact of living wills at the end of life in Iapan, “Medical Ethics” 29(2003), pp. 248-252

[44] Bianco A., Progetti di legge relativi al consenso informato e disposizioni di trattamento, “Professione Cultura e pratica del medico d’oggi” 1(2009), p. 8

[45] Greco P., E domani, forzati ad intervenire?, “Janus” primavera 2009 pp.126-127

[46] Consiglio Nazionale della Federazione Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri, Rivalutare il ruolo del medico all’interno di un diritto mite, “Panorama della Sanità, 24(2009), pp. 18-22

[47] Becchi P., Testamento biologico Che errore questa legge Aumenterà solo la sofferenza dei malati, “Il Giornale” del 28 marzo 2009, p. 46

[48] Spagnolo A.G., Bioetica nella ricerca e nella prassi medica, Camilliane, Torino 1997, pp. 351-354

[49] Iadecola G., Principi di diritto sanitario, Giappichelli, Torino 1999

[50] Aramini M., Testamento biologico Spunti per un dibattito, Ancora, Milano 2007, p. 27

[51] Sgreccia E., Manuale di bioetica I.Fondamenti ed etica biomedica, Vita e Pensiero, Milano 2007, pp.911-912

[52] Chodi M., Medicina Tecnica e Morte: Le questioni antropologiche. Le dichiarazioni anticipate di trattamento, in AA.VV. Salute e salvezza, Glossa, Milano 2008, pp. 151-172

[53] Marino R.I., Testamento biologico: i diritti dei malati e l’operato dei medici, in Boraschi A., Manconi L., Il dolore e la politica Accanimento terapeutico, testamento biologico, libertà di cura, B.Mondadori, Milano 2007, p. 46

[54] Giannini et al., Scelte di fine vita in rianimazione pediatrica Raccomandazioni del Gruppo di Studio SARNePI per la Bioetica, “La Rivista Italiana di Cure Palliative” 1(2009), pp. 25-29. Il corsivo è nel testo.

[55] Salvioli G., Il testamento biologico: il punto di vista del Geriatra, “Giornale di Gerontologia” 56(2008), pp.118-122

[56] Cf. Herranz G., Interventi di sostegno vitale e pazienti terminali:l’integrazione tra medicina intensiva e palliativa, in E. Sgreccia ,J.Laffitte (a cura di), Accanto al malato inguaribile e al morente: orientamenti etici e operativi. Atti della quattordicesima Assemblea Generale della Pontificia Accademia per la Vita (Città del Vaticano, 25-27 febbraio 2008), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano  2009, p. 82

· Vice Preside e Professore ordinario di Teologia Pastorale presso l’ Istituto Internazionale di Teologia Pastorale Sanitaria “Camillianum”, Roma

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