La forza della vulnerabilità. La cura del dolore globale. Spirituale, cioè profondamente umano. Il silenzio.


Una giovane donna, ancora proiettata su irrealistiche speranze di guarigione, parla dei bambini, del desiderio di vederli “almeno diplomati”. Per un attimo, come un lampo, mi passa per la testa un pensiero: «forse fra due mesi li vedrà e li potrà amare dal Paradiso». È un attimo, non so se passa qualcosa nel mio sguardo: il suo si fa profondo, ma anche più luminoso. Un breve momento che cambia radicalmente il piano del rapporto, che da quel momento diventa più orientato all’accompagnamento e ad una graduale presa di consapevolezza fino al saluto da quei figli tanto amati. Uno sguardo reciproco, più di cento parole.

Mi vengono in mente molti episodi simili, in quella dimensione “spirituale” che riguarda la cura della sofferenza. Delle quattro dimensioni del dolore alla fine della vita (fisico, psicologico, sociale e spirituale), quest’ultima è la più discussa, secondo qualcuno assimilabile alla dimensione psichica e relazionale. Eppure sono gli stessi psicologi a riconoscere che esiste, è tangibile, concreta e laica, e al tempo stesso indefinibile e non quantificabile.

Sfugge agli schemi, non riguarda necessariamente l’esperienza religiosa, ma emerge in modo evidente nel terreno della comune umanità, nello spazio delle domande condivise (molto più che nelle risposte spesso impossibili), nelle storie di cura che si aprono alla ricerca di senso e significato ogni volta che la speranza non è più quella di guarire.

Come dimenticare, nei giorni del lockdown, i quasi dieci milioni di contatti, certamente non tutti di “credenti”, che ogni mattina alle sette si sintonizzavano con l’essenzialità della Messa di papa Francesco da Santa Marta? Una carezza spirituale che è diventata forza e cura nel momento di più grande sofferenza e disorientamento.

Nelle ultime settimane mi ha colpito riscontrare quanto questa prospettiva, forse in modo particolare proprio in questi tempi sconvolti dalla pandemia, emerga in modo più evidente in ambiti diversi. Ho potuto condividere momenti di intensa condivisione con i colleghi palliativisti con cui abbiamo parlato della “forza della vulnerabilità” in una bella sessione del recente congresso nazionale della SICP (Società Italiana di Cure Palliative).

Abbiamo ripreso un dialogo di confronto per me molto stimolante con alcuni sociologi di diverse Università italiane sul ricco tema dell’ “eccedenza relazionale” peculiare anche se non esclusivo dei percorsi di fine vita; ho potuto negli stessi giorni partecipare ad alcune interessanti riunioni di un laboratorio di ricerca su Spiritualità e Religioni in Ospedale.

Si parla in altro contesto di lavorare a un libro sulla sofferenza e la cura spirituale, mentre è già stato pubblicato un libro per medici urgentisti sulle cure palliative nei setting di emergenza (il fine vita così presente nei Pronto Soccorso) in cui un capitolo è dedicato proprio al dolore globale, con particolare attenzione alla sua componente spirituale.

Nella cartella del nostro ospedale, abbiamo introdotto una voce apposita per rilevare il dolore non solo con i punteggi della componente fisica, ma anche con brevi modalità narrative che possano dare voce alla parte psichica, sociale e spirituale. Qualche anno fa un convegno organizzato nell’ambito di un pluriennale percorso di dialogo fra persone di diverse convinzioni religiose e non religiose ci aveva dimostrato quanto queste domande fossero proprio dell’Uomo e costitutive per un incontro esistenziale.

È una sfida, per chi vive quotidianamente il rapporto coni malati più gravi e le loro famiglie: tenere l’attenzione accesa su una dimensione che c’è, è vera, è universale, è traducibile in concrete scelte assistenziali originali e coraggiose (un requisito da riconoscere per la costruzione dei percorsi di cura). Un bel libro di Paolo Mirabella uscito di recente (La vita dentro il morire) fonda una nuova prospettiva della bioetica proprio sul dolore globale.

Non è facile, in una Sanità che sempre di più cerca i dati quantitativi, misurabili con punteggi e certificabili con gli accreditamenti, dimostrare quanto questa dimensione sia importante. Ma d’altra parte sarebbe impossibile farne a meno, se non a costo di un drammatico impoverimento delle nostre relazioni.

In conclusione, viene in mente un momento di profonda autentica unità di popolo vissuta nel dolore per la morte di David Sassoli. Altissimo momento di spiritualità, a cui forse non eravamo più abituati in un contesto pubblico di questo genere. Le parole (“dignità, passione, amore”), i toni, le posture e gli sguardi della moglie e dei figli hanno portato tutti ad un livello altissimo. Spirituale, appunto, cioè profondamente umano. Nessuno di loro ha usato la parola “Dio”, un Dio non ostentato eppure così presente in trasparenza, in ogni attimo.

Mi ha colpito, in particolare, il silenzio. Al termine degli interventi, in un tempo in cui gli applausi sembrano fatti apposta per esorcizzare le emozioni (il cosiddetto “applauso liberatorio”, come allo stadio), il silenzio ha reso ancora più sacro quel momento. Nulla di più spirituale, nulla di più umano, di un breve, interminabile, profondo istante di silenzio. Ne abbiamo bisogno.

di Ferdinando Garetto

FONTE: CITTÀ NUOVA

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