La dura prova della malattia, la paura di morire… e i rapporti che fanno la differenza.

«Falsificare il nome delle cose significa aumentare l’infelicità del mondo». Lo dice, citando una frase attribuita a Camus, Jean Leonetti, medico francese artefice della più importante legge sul fine vita promulgata ormai più di dieci anni fa in Francia, commentando alcune forzature da lui osservate nel recente dibattito legislativo francese sull’argomento.

Fa riferimento in particolare alla ricerca di eufemismi che servirebbero ad addolcire il termine “suicidio”, sostituendolo con “morte assistita”, come se questo fosse sufficiente a rendere meno drammatica e interrogante la sofferenza che c’è alla base della domanda di poter morire. Come se la parola “suicidio” fosse una parola di cui vergognarsi e non un gesto estremo meritevole di silenzio, rispetto, profonda compassione che da sempre interroga il pensiero umano. Ma innanzitutto, qual è la domanda autentica?

Una storia…
Che cosa sono quaranta giorni nella vita di un uomo?

Antonio (nome di fantasia), 81 anni. Viene ricoverato in hospice, direttamente dal Pronto Soccorso di un ospedale torinese, al termine di un faticoso percorso oncologico di cancro al polmone metastatico.

All’ingresso appare taciturno, poco propenso al dialogo. Riferisce dolore non controllato da giorni e frequenti crisi respiratorie. Alla domanda sulla eventuale rete famigliare risponde di avere un figlio… che per lui “è morto da 25 anni”. Emerge una rottura di rapporti apparentemente insanabile.

Nei giorni successivi le crisi respiratorie e di dolore aumentano, così come la chiusura al supporto e alle proposte di terapia. Occasionalmente accetta la somministrazione di morfina, che un po’ per il dolore e per la dispnea funzionano, ma non come ci si potrebbe attendere. Piange e dice che chiederebbe di «farla finita», se non avesse «paura».

Dopo una settimana affrontiamo “il tema”. Prendendo coraggio gli chiediamo: «Forse il suo dolore è la lontananza del figlio?». Piange. Si chiude ancora di più, sembra in modo definitivo, ma poi.. la vita ci sorprende.

Il mattino dopo giunge in hospice il figlio. Il papà lo ha fatto chiamare. Non sapeva nulla della malattia. A fatica riesce a comprendere che cos’è un hospice. Quel dialogo che osserviamo con riservatezza e rispetto, con la porta della stanza socchiusa, è il racconto di una vita.

Temevamo l’impatto emotivo o una rottura definitiva: è una rinascita. Da quel momento non è mai solo. Lunghi racconti, le visite quotidiane. Nelle settimane successive è sereno, persino gioioso. Non c’è più necessità di morfina. Partecipa al pranzo di Pasqua a casa del figlio, con un permesso di uscita che si ripeterà in alcune giornate successive. Nelle lunghe ore sul terrazzo dell’hospice nella tiepida primavera si lega ad altri ricoverati.

Poi la malattia fa il suo corso, spesso vediamo lacrime di commozione, in lui e in tutti i suoi cari. Pochi giorni prima di morire ci dice: «Qui la mia vita ha ritrovato senso. Mi resta solo una profonda gioia. E per la prima volta non ho più il terrore di morire soffrendo, che mi ha sempre accompagnato. Perché so che in quel momento ci sarete voi». E così sarà anche l’ultimo passaggio, avvenuto in sedazione palliativa, con suo figlio accanto. Mantenendo una promessa.

Che cosa sono quaranta giorni nella vita di un uomo? Sarebbe stato indifferente, o più degno, se in presenza di una legge che lo avesse consentito, i giorni fossero stati accorciati in quella grande sofferenza iniziale in cui apparentemente c’erano tutti i motivi per “farla finita”?


Fonte: Città Nuova

 

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