«Forse anche tu, come me, affronti il mistero con curiosità.
Io continuo a cercare di interpretare quello che accade...
Dobbiamo essere sospettosi di tutti coloro che presumono di avere una conoscenza completa delle cose come se non ci fosse più mistero...
Mettere in dubbio la verità ufficiale è l’inizio della saggezza»
(Fehrsen, 1998).
Poiché questo «sbrogliare il mistero» è un processo, una crescita continua, eccomi qui con la storia di questa paziente che mi ha insegnato, ancora una volta, a non dire «ho trovato la verità», ma piuttosto «ho trovato una verità».
PRESENTAZIONE DELLA PAZIENTE
M. D., una signora di 56 anni, era sul letto n. 1 quando quel giorno andai a fare il giro del reparto. Era stata ricoverata la sera precedente per dolori al basso addome, con una diagnosi di sal-pingite (infezione delle tube uterine) e, per terapia, antibiotici e analgesici.
* Dal 1986 fino al 2002 ho lavorato come medico in un ospedale di una zona solo per neri del Sud Africa. In una società in cui la malattia non è solo un evento biologico, ma coinvolge in modo determinante anche la sfera psichica, spirituale e sociale della persona, è scaturita un’esperienza che mi ha portato a un nuovo modo di guardare al paziente, al suo mondo, al suo “essere ammalato”, e, di conseguenza, anche all’approccio terapeutico. Questo articolo, se da un lato rispecchia un’esperienza tipicamente africana, dall’altro lato contiene degli aspetti e dei principi che si possono considerare universali, come anche avallato dalla bibliografia.
Sposata, con quattro figli, proveniente da uno dei nostri villaggi più distanti con un marito che faceva solo lavori saltuari, aveva iniziato ad avere quei forti dolori il giorno prima per la prima volta. Nessuna rilevante storia medica precedente. Nessun altro disturbo rilevante.
Si sentiva come se avesse una massa che si muoveva nell’addome e che aveva iniziato a farle molto male il giorno prima. Le sue condizioni generali erano soddisfacenti, malgrado fosse ovviamente sofferente. Clinicamente non era né anemica, né dispnoica.
All’esame clinico, l’addome era dolorante alla palpazione, ma non si avvertiva nessuna massa, né l’addome era teso e non c’erano altre anomalie nell’esame fisico.
Decisi allora di farle un’ecografia. Dovettero portarla sulla sedia a rotelle e aiutarla a stendersi sulla barella. All’ecografia tutti gli organi addominali e pelvici sembravano normali. A quel punto, decisi di aspettare i risultati degli esami alle urine e di quelli dell’emocromo.
Dissi a M. D. che fino ad allora non avevo trovato nulla di preciso e che avremmo continuato con la cura aspettando l’esito dei risultati. Mi sembrò più rilassata e accettò il fatto che avremmo riparlato solo il giorno seguente, quando forse avrei avuto ulteriori informazioni. Poiché si comportava come se avesse una sorta di colica,
decisi di somministrarle anche dell’antispastico.
Il giorno seguente era stesa supina. Fui contento di vedere questo, pensando che fosse il segno che stesse meglio. In effetti, i dolori all’addome erano diminuiti di molto, addirittura mi arrivò a dire che non li avvertiva più, ma ora si lamentava che la massa si era spostata, provocandole un forte dolore nella regione lombare sinistra che si propagava fino alla fossa iliaca sinistra.
All’esame clinico, la regione lombare sinistra era un po’ rigida alla percussione, ma non c’era nessun altro segno particolare. Poiché, però, c’erano delle cellule di pus, dei batteri e dei residui nei risultati delle urine, arrivai alla conclusione che forse aveva un’infezione urinaria, malgrado i sintomi fossero esagerati.
Spiegai tutto alla paziente, la rassicurai che non aveva niente di grave e che le avrei dato qualcosa per il dolore. Dopo aver acconsentito, mi chiese se avevo intenzione di farle un’operazione.
Con mia grande sorpresa, non fu felice della mia risposta negativa, così dovetti impiegare un po’ di tempo per spiegarle perché non avevo motivo di decidere di fare una laparotomia. Persino la caposala fece del suo meglio per spiegare la mia risposta, ma M. D. non sembrava molto convinta e io ci rimasi male nel non essere della stessa opinione di uno dei miei pazienti.
Il giorno seguente M. D. quasi gridava per il dolore: era supina sul letto, assolutamente incapace di muoversi. Diceva che il dolore nella regione lombare era sparito, l’addome andava bene, ma ora il dolore era localizzato nella schiena, e talmente forte che non riusciva neppure a muoversi.
Al mio esame, fatto con grande difficoltà a causa del forte dolore provato dalla paziente, la parte più bassa della schiena toracica era assai rigida, con spasmi muscolari localizzati. In quel momento temetti veramente di aver trascurato qualcosa fin dall’inizio (si trattava forse di una tubercolosi alla colonna vertebrale?),
così mandai M. D. a fare una radiografia della spina dorsale che risultò normale.
Avevo ormai tentato in tutti i modi di arrivare ad una diagnosi, senza successo. Ora, di fronte a quella radiografia, che era la mia ultima possibilità per arrivare a dare un nome ufficiale a un disturbo, e che, invece, era assolutamente normale, rimasi pochi, lunghi momenti. Mi venne qualcosa in mente e mi vergognai sul serio che non mi fosse sovvenuta prima, proprio a uno come me che lavorava da 13 anni in un contesto rurale africano. Solo allora mi fu chiaro di che si trattava.
Eppure volli essere sicuro che non stessi cercando di sbarazzarmi del problema. Dissi a M. D. che la spina dorsale andava bene. Chiese se non avessi preso nuovamente in considerazione la possibilità di operarla. Cercai nuovamente di spiegarle perché non potevo farle alcuna operazione e comunque, solo per amore di onestà, avrei chiesto a un altro dottore di esaminarla per un secondo parere. Accettò. Il mio collega non riuscì a trovare nulla che potesse spiegare i sintomi di M. D. e pensava già di mandarla a fare ulteriori indagini in un ospedale più attrezzato. Quando riferii a M. D. che il mio collega non aveva trovato alcun motivo per giustificare un’operazione, suggerì che la mandassi a fare l’operazione in un altro ospedale.
Le spiegai che, per mandarla in un altro ospedale, avrei dovuto avere delle ragioni cliniche che in quel momento non avevo. Poiché dovevo partecipare a una riunione, le promisi che sarei tornato più tardi e che senz’altro, entro la fine della giornata, saremmo arrivati ad una decisione comune sul da farsi.
Uscito dal reparto, presi da parte la caposala e le dissi che secondo me c’era qualcosa che M. D. non ci aveva detto; che avevamo fatto del nostro meglio per individuare la patologia, ma tutto era risultato negativo; che la paziente si era relazionata nei miei confronti in modo assai riservato; che mi ero sempre più convinto che si trattasse di qualcosa legato alla medicina tradizionale africana. Pensavo, quindi, fosse bene che lei trovasse il tempo per parlare in privato con M. D., per confermarle che non avevamo trovato alcuna patologia evidente e per scoprire da lei stessa se per caso non ci fosse qualche altra cosa sotto e, di conseguenza, qualche altra soluzione da cercare.
La caposala non fu sorpresa dalle mie osservazioni. Molte altre volte avevo parlato con i miei pazienti della loro cultura, delle loro credenze e, ogni volta, avevo appreso molto e, ovviamente, manifestato la mia comprensione e la mia apertura mentale nei loro confronti e in quelli dello staff dell’ospedale che era sempre assai collaborativo e pronto a spiegarmi in profondità tutto ciò che i pazienti condividevano con me.
La caposala mi disse che condivideva i miei sospetti e che sarebbe stata felice di parlare con M. D.
Nel pomeriggio, prima di entrare in reparto, andai a trovare la caposala. Aveva parlato a lungo con M. D. e questa, alla fine, aveva ammesso che quando le era iniziato il dolore addominale, era stata dal guaritore tradizionale che le aveva detto di essere stata “stregata” e di avere qualcosa che le si muoveva nell’addome; poiché non aveva soldi per eseguire le disposizioni del guaritore tradizionale, aveva sperato che in ospedale avessimo potuto farle
un’operazione per rimuovere quella massa addominale. La caposala l’aveva rassicurata che, dal momento che non aveva i soldi per fare quello che il guaritore tradizionale le aveva detto di fare, non doveva avere alcuna paura di essere punita dagli spiriti degli antenati, anche se doveva fare del suo meglio per procurarsi al più presto il denaro necessario per eseguire le disposizioni.
A queste parole M. D. si era tranquillizzata. Quando la rividi nel reparto, non aveva più alcun dolore e richiese di essere dimessa.
Tornò a casa il giorno dopo, sentendosi bene.
CRISI DELL’ASSISTENZA MEDICA
Parlando con molte persone provenienti da nazioni differenti, ho potuto constatare una generale insoddisfazione nei confronti del servizio sanitario (dal punto di vista amministrativo), e dell’assistenza medica (dal punto di vista del rapporto col medico).
La pubblica percezione di una crisi nel modo di curare i pazienti è costituita da una serie di componenti diverse: costi insostenibili, difficoltà ad accedere alle cure mediche a causa della cattiva distribuzione della loro dislocazione e specializzazione, malcontento per la “qualità” dell’incontro con il medico quelle volte che avviene. Paradossalmente, tutto ciò capita in un tempo in cui la biomedicina ha notevolmente accresciuto il suo potenziale per rendere migliore il curare il paziente.
In questa presentazione mi occuperò principalmente della crisi dell’assistenza medica.
Liberandoci dei modi di vedere “etnocentrici” e “medicocentrici”, possiamo iniziare a riconoscere importanti tematiche finora sistematicamente ignorate poiché tutti noi siamo il frutto del “modello biomedico”.
Di solito, nella scienza, il processo di cambiamento inizia quando un determinato paradigma ufficiale incontra delle anomalie che di per sé, dopo un periodo di resistenza, danno origine a uno stato di crisi. Il fallimento della scienza ufficiale nel risolvere i problemi creati dalle anomalie crea, così, un senso di insicurezza e da questo stato di cose, se il vecchio paradigma non riesce ad affrontare e risolvere la crisi, in genere emerge un nuovo paradigma.
In medicina, il vecchio paradigma, diversamente conosciuto
come il “modello biomedico”, può essere descritto come segue:
– i pazienti soffrono di disturbi che possono essere esaminati
a prescindere dalla persona che li presenta e dal suo contesto
sociale;
– i disturbi mentali e fisici possono essere presi in considerazione
separatamente, fatta eccezione per un certo gruppo di disturbi
psicosomatici in cui la mente sembra agire sul corpo;
– ogni disturbo ha uno specifico agente causale: scoprire tali
agenti è il principale obiettivo della ricerca. Dato un certo livello
di resistenza del singolo, il manifestarsi del disturbo può spiegarsi
come il risultato dell’esposizione ad un determinato agente patogeno;
– il principale scopo del medico è diagnosticare il disturbo
del paziente e prescrivere un rimedio specifico mirato a rimuovere
la causa o ad alleviare i sintomi;
– in questo processo, il medico è solitamente un osservatore
imparziale e il paziente un destinatario passivo.
In determinate condizioni (per esempio nell’ambito della ricerca
o in ambienti accademici), questo paradigma può ancora
avere successo ai nostri giorni. In medicina generale però si incontrano
anomalie che sono difficili da ignorare!
Anomalie incontrate dal vecchio paradigma
1) L’anomalia “malattia/disturbo”
Una grossa quantità di malati visitati in medicina generale
non possono rientrare in una specifica categoria in base ad un’anomalia
fisiologica o anatomica. Ad esempio, alcuni disordini
mentali sono chiaramente collegati a una patologia cerebrale, altri
a una disordinata funzione cerebrale, altri ancora a un comportamento
patologico; e comunque, la maggior parte di quelli esami-
424 Olismo: il futuro della medicina?
nati dai medici generici è causata da crisi esistenziali o da problemi
interiori, piuttosto che da malattie nel senso classico.
In una prospettiva più generale gli studi antropologici e sociologici
giustificano la distinzione concettuale che a me piace
fare fra disturbo e malattia. Tale distinzione ritiene che il disturbo,
nel paradigma medico occidentale classico, sia un cattivo funzionamento
o un adattamento dei processi biologici e psicofisiologici
dell’individuo; mentre la malattia include le reazioni e il
disagio personali, interpersonali e culturali che il disturbo stesso
ha provocato.
Poiché l’esperienza della malattia è un’intima parte dei sistemi
di riferimento e delle regole di comportamento sociali, essa è
fortemente influenzata dalla cultura: è, come vedremo, culturalmente
costruita ed espressa. La malattia è influenzata dalla cultura
nel senso che il modo in cui noi percepiamo, sperimentiamo e
affrontiamo il disturbo è basato sulle nostre spiegazioni della malattia,
spiegazioni derivanti dalle posizioni sociali che occupiamo
e dai sistemi di riferimento che impieghiamo.
Infatti è stato dimostrato che esse influenzano le nostre aspettative
e percezioni dei sintomi, il nostro modo di assegnare ad essi
il nome di una particolare malattia, e le valutazioni e le risposte che
scaturiscono da quel dato nome. Il modo in cui parliamo dei nostri
problemi di salute, la maniera in cui rappresentiamo i nostri sintomi,
quando e da chi siamo andati a farci curare, quanto tempo siamo
rimasti in cura, e come valutiamo quella cura, è tutto influenzato
da convinzioni culturali: impariamo a essere malati secondo cliché
approvati dalla società e dalla cultura in cui viviamo.
Malattia e disturbo, così definiti, non stanno in rapporto
uno-a-uno. Livelli similari di patologia organica possono generare
dolore e sofferenza alquanto differenti in pazienti diversi, e anche
nello stesso paziente in momenti diversi della sua vita; ci può essere
malattia in assenza di disturbo (il 50% delle visite che si fanno
dal medico sono fatte per lamentare disturbi che non possiedono
un’accertabile base biologica); spesso il decorso di un disturbo
è distinto dall’evoluzione della malattia che esso accompagna.
Inoltre, i rimedi prescritti dai medici per curare un disturbo
possono risultare fallimentari, nonostante la loro efficace azione
Olismo: il futuro della medicina? 425
farmacologica, quando i pazienti non riescono a seguire le prescrizioni
del medico perché non comprendono (o non sono d’accordo
con) quanto i medici hanno stabilito essere necessario fare.
Malgrado l’affermazione che i medici moderni diagnosticano
e curano disturbi mentre i pazienti soffrono di malattie possa
suonare un poco drastica, rimane il fatto che la biomedicina è
principalmente interessata a individuare e curare il disturbo, e
non a guarire la persona. E questo orientamento è così radicato
che la formazione professionale dei medici tende a sottovalutare
la malattia e la guarigione da essa (nel senso in cui ho detto prima).
La biomedicina ha sempre più messo da parte l’esperienza
della malattia come oggetto legittimo di interesse clinico. Portato
al suo estremo, questo orientamento, così efficace nel generare interventi
tecnologici, porta a una “pratica veterinaria”, per così
dire, della medicina.
La visione biomedica della realtà clinica sostenuta dal moderno
personale sanitario, sia in nazioni sviluppate che in quelle
in via di sviluppo, afferma che gli aspetti biologici sono più importanti,
“reali”, clinicamente significativi e interessanti rispetto
alle tematiche psicologiche e socioculturali. Il disturbo, e non la
malattia, è l’interesse principale; curare, e non guarire, è l’obiettivo
più importante. La cura, vista in questa prospettiva, enfatizza
il “guasto” tecnico da sistemare, piuttosto che il guardare alla
persona nel suo insieme, per cui si interessa di più delle forme
tecniche di assistenza clinica piuttosto che del loro “significato”.
Diremmo che tratta il paziente come una “macchina”.
Contrariamente al pensare comune degli operatori sanitari,
questo approccio biomedico è frutto di una cultura ben specifica
(quella occidentale) ed è guidato da un certo tipo di valori e di
punti di riferimento tipicamente occidentali che, a loro volta, forniscono
un paradigma molto specifico e limitato su come guardare
ai pazienti e su come curarli.
La crisi contemporanea è emersa anche perché pazienti e
gente comune hanno trovato sempre più tale orientamento inadeguato.
Questa sistematica disattenzione alla malattia è in parte responsabile,
a volte, della mancanza di collaborazione da parte del
paziente, dell’insoddisfazione sua e della famiglia nei confronti
426 Olismo: il futuro della medicina?
dell’assistenza medica, e anche delle inadeguate cure cliniche. E
può essere anche un fattore determinante del crescente ricorso a
sistemi di cura alternativa.
2) L’anomalia “eziologia specifica”
Hinkle e i suoi colleghi (1974) in uno studio fatto nel corso
di vent’anni hanno dimostrato che la frequenza di un certo disturbo
non dipende principalmente dalla presenza di uno specifico
agente eziologico, poiché, in una popolazione omogenea, disturbi
diversi non sono distribuiti in modo uniforme in tutta la
popolazione. Se si vuole quindi capire il rapporto tra salute e disturbo,
bisogna conoscere non solo i vari agenti eziologici, ma anche
quei fattori che proteggono le persone da tali agenti o le rendono
più vulnerabili ad essi (per esempio supporto familiare,
fede religiosa nel primo caso, stress, solitudine nel secondo, ecc.).
3) L’anomalia “mente/corpo”
Riesaminando l’argomento dell’ambiente sociale e della resistenza
del corpo alle malattie, Cassel, nel 1976, formulò tre postulati,
che erano supportati dalle prove sperimentali raccolte:
a) i fattori sociali di solito aumentano o diminuiscono la predisposizione
alle malattie in genere, non ai disturbi specifici;
b) i meccanismi coinvolti sono di natura generale;
c) i supporti sociali agiscono ammortizzando gli effetti dei
fattori stressanti ambientali.
L’influenza della mente sulla salute del corpo segue come
percorso principale i sistemi nervoso, endocrino e immunitario.
Le manifestazioni principali della Sindrome di Adattamento Generale
(GAS), descritta da Selye nel 1956, sono ipertrofia della
ghiandola surrenale, involuzione timica ed elevati livelli di corticosteroidi
(che sono immuno-soppressivi).
4) L’anomalia “effetto placebo”
Le precedenti anomalie mettono in dubbio le supposizioni
riguardanti la causa del disturbo; l’anomalia dell’effetto placebo
Olismo: il futuro della medicina? 427
mette in dubbio la supposizione riguardante la specificità della
terapia. Esso si verifica quando un paziente risponde alla forma,
ma non al contenuto della terapia; può seguire qualsiasi modalità
terapeutica, comprese quelle dove non viene somministrato alcun
tipo di cura fisica; può anche essere dannoso (provocando effetti
indesiderati e assuefazione), e può variare dal 10 al 90% dei casi.
Brody (1980) ha fatto notare che secondo lui l’effetto placebo si
verifica con maggiore probabilità se:
– viene fornita al paziente una spiegazione della sua malattia
che sia adeguata alla sua visione culturale;
– ci sono delle persone disposte a sostenere il paziente;
– la cura prescritta porta il paziente ad acquistare padronanza
e controllo sulla malattia.
UN NUOVO PARADIGMA
Uno dei tentativi fatti per dare una risposta a questa crisi
dell’assistenza medica è il “modello biopsicosociale” di malattia
che ha fornito un grosso contributo per un approccio più globale,
più olistico dell’assistenza del paziente.
Esso è nuovo nel senso che, nonostante affondi le sue radici
in una tradizione che risale agli antichi greci, include ciò che abbiamo
appreso nell’ultimo secolo. Secondo questo paradigma nascente,
sviluppato per tener conto delle anomalie che abbiamo passato
in rassegna, il disturbo non viene concettualmente separato dalla
persona, né la persona dal suo ambiente. Ciò implica conseguenze
importanti sia per il metodo clinico che per il modo con cui il medico
tratta il paziente. Infatti anche il rapporto fra medico e paziente
ha un profondo effetto sulla malattia e sul suo decorso.
Il nuovo paradigma si basa sulla Teoria del Sistema Generale
che cerca di affrontare i problemi includendo tutte le relazioni significative.
I suoi punti essenziali sono:
1) la Natura è ordinata secondo una gerarchia di sistemi;
428 Olismo: il futuro della medicina?
2) ciascun livello è un tutto in sé e, nello stesso tempo, parte
di un tutto più grande;
3) ciascun sistema ha caratteristiche che sono specifiche di
quel livello;
4) comprendere il tutto richiede la conoscenza dello scopo
del sistema;
5) l’intero è diverso dalla somma delle sue parti;
6) tutti i sistemi viventi sono sistemi aperti, che comunicano
a doppio senso, in uno stato di equilibrio dinamico sia interno
che esterno;
7) tutte le parti sono interdipendenti fra di loro.
Secondo il nuovo paradigma, comprendere i pazienti olisticamente
richiede nei medici non solo conoscenza e abilità, ma anche
gentilezza e compassione.
Fin dal secolo scorso la medicina è stata dominata dalla credenza
che l’unica conoscenza valida fosse quella ottenuta tramite
il metodo empirico. La saggezza distillata nei secoli riconosce, invece,
tre livelli di esistenza: trascendente, mentale e fisica.
Il livello superiore ha capacità che non si trovano nel livello
inferiore, e ciascun livello ha un suo modo di conoscere, che è:
– sensoriale per la sfera fisica (le nostre percezioni però devono
essere addestrate);
– simbolico per la sfera mentale, tramite le parole, i gesti, le
espressioni (anche il nostro “orecchio interiore” deve essere però
esercitato all’ascolto; e non va dimenticato che possiamo comprendere
gli altri nella misura in cui conosciamo noi stessi);
– contemplativo e intuitivo per la sfera trascendente; e questo
livello non può essere raggiunto dall’intelletto, ma dal cuore, e
il suo primo prerequisito è la fede nell’esistenza di un livello di
conoscenza fuori dalla portata dei nostri sensi.
Non si dovrebbe allora, alla luce di tutto ciò, riesaminare cos’è
la conoscenza medica, che cosa dovremmo sapere dei nostri
pazienti e la maniera di acquisire tale conoscenza?
Olismo: il futuro della medicina? 429
Costruzione culturale della realtà clinica
Per espandere ulteriormente l’approccio biopsicosociale alla
cura del paziente, dobbiamo anche includere i fattori culturali ed
etnomedici.
I fattori culturali, a cui abbiamo già accennato, di solito emergono
nella pratica clinica sotto forma di specifiche credenze etnomediche
(supposizioni, aspettative, interpretazioni, attitudini) che
riguardano il corpo, le sue normali funzioni, il sé, la famiglia e la
rete sociale, le cause e le conseguenze della malattia, la patologia, il
tipo di aiuto e di cura cercati, l’ubbidienza al medico, la soddisfazione
provata e molti altri fattori correlati.
Nonostante tutto ciò sia più evidente nei pazienti di certi
gruppi etnici, tutti i pazienti conservano credenze popolari che
possono influire sulla malattia e sui risultati della cura. Kleinman et
alii (1978) hanno fatto riferimento a ciò come alla «costruzione culturale
della realtà clinica». È difficile per i medici accettare che la
loro percezione della realtà clinica, basata sulla patologia, sia solo
una delle varie possibilità. Se la “costruzione” del paziente è diversa,
e non viene fatto nessun tentativo per colmare il divario, il probabile
risultato sarà spesso una rottura nella comunicazione e un
fallimento della cura. Così come l’orientamento etno-medico dei
pazienti può facilitare o ostacolare la cura, anche l’orientamento
etno-medico dei medici può creare un’opportunità o delle barriere
per un’efficace pratica clinica.
Queste credenze etno-mediche possono essere di due tipi: il
medico infatti, solitamente inconsciamente e senza rifletterci troppo,
possiede atteggiamenti e aspettative che derivano, da un lato,
dal proprio retroterra culturale e, dall’altro, dalla sua dottrina professionale
frutto di una particolare cornice istituzionalizzata di valori,
che prende il nome di biomedicina.
Tali difficoltà di comprensione reciproca medico-paziente
raggiungono il massimo quando c’è un ampio divario culturale fra i
due, poiché è un principio generale della comunicazione umana
che le difficoltà aumentino con la distanza culturale fra i partecipanti
(Bochner, 1983), per cui può risultare difficile interpretare il
comportamento di una persona appartenente ad un altro gruppo
430 Olismo: il futuro della medicina?
etnico. È difficile, per esempio, individuare una depressione in un
paziente appartenente a una cultura molto diversa. Le difficoltà
sorgono sia nella comunicazione verbale che in quella non verbale.
Ogni rapporto è un’esperienza interculturale
Le differenze culturali non sono solamente etniche. Si deve ricordare,
infatti, che esse non riguardano solo persone appartenenti
a razze diverse, ma si verificano anche nei consulti tra medico e paziente
che fanno parte dello stesso gruppo etnico. Può essere errato
supporre che le credenze riguardanti la salute siano le stesse solo
perché ci si sta occupando di un paziente che appartiene alla nostra
stessa cultura. La medicina stessa è una subcultura, con il suo bagaglio
di supposizioni e aspettative, anche se non sempre dichiarate.
Un paziente che entra in questa subcultura è dunque nella
stessa posizione di un viaggiatore che visita un paese straniero.
Ciò mette il paziente in uno stato di ulteriore svantaggio, oltre a
quello di sentirsi vulnerabile per la sua malattia e (in genere) per
mancanza di conoscenza medica. È dunque responsabilità del
medico essere consapevole delle potenziali difficoltà di comunicazione
e fare tutto il possibile per mitigarle.
Bisogna poi stare bene attenti, inoltre, che anche sottogruppi
culturali, definiti per età, classe sociale, sesso, istruzione, occupazione
o luogo di provenienza, possono manifestare una distanza
culturale fra di essi e, dunque, difficoltà nella comunicazione.
In questo senso lato, tutti i consulti sono multiculturali, in
un modo o nell’altro. Direi di più: ogni rapporto interpersonale è
un incontro tra culture diverse, e, in questo senso, ad esso si può
applicare tanto di ciò che diremo riferendoci al consulto.
Certo, il processo è difficile, ma una cultura diversa dalla
propria (anche nel senso più ampio descritto sopra) si può conoscere.
Il problema principale da affrontare per chi vuole conoscere
è, però, che le regole che governano il comportamento degli individui
di un determinato gruppo culturale non sono tutte esplicite.
I membri indigeni di un gruppo culturale imparano tali regole
in modo implicito, a livello inconsapevole. E a meno che non
Olismo: il futuro della medicina? 431
abbiano la rara abilità di guardare la loro stessa cultura dall’esterno,
essi non sono mai consapevoli del fatto che il loro comportamento
sia governato da regole. Lo stesso vale per le supposizioni
di una cultura; di rado vengono rese esplicite!
L’arte del curare un paziente di cultura diversa
Un approccio specifico viene suggerito da George Deagle.
Egli non ha scritto regole e norme sul rapporto con chi appartiene
a una cultura diversa, piuttosto ha avuto l’ispirazione di parlare
di arte che, a mio parere, significa fantasia, immaginazione,
flessibilità o, detto in altro modo, è frutto d’amore, di quel genere
d’amore che «è un impegno, un atto di volontà», e che significa
«ricercare il bene dell’altra persona, incondizionatamente».
Secondo Deagle l’arte del rapporto interculturale consiste
nell’imparare come trascendere la nostra cultura in modo da formare
un’alleanza terapeutica positiva con i pazienti che sono diversi
da noi. Per sviluppare quest’arte si richiede un passo basilare:
comprendere la propria cultura. A questo fine è utile prendere
in esame due domande basilari:
Cosa significa “cultura”?
Come possiamo migliorare la nostra efficacia negli ambienti
interculturali?
Il termine cultura, possiamo dire, si riferisce a quell’insieme
di atteggiamenti, abitudini e valori condivisi che viene trasmesso
da una società ai suoi membri (Ellis, 1996).
Come dichiara Hall (1976), «l’autoconsapevolezza e la consapevolezza
della propria cultura sono inseparabili, il che significa
che il superamento della propria cultura, che avviene ad un livello
inconscio, non può essere compiuto senza un certo grado di
autoconsapevolezza».
Noi tutti siamo convinti che i nostri modelli di comportamento
siano “normali”, tanto che spesso descriviamo le persone
di altre culture come “diverse”, “strane”, “primitive”, “grossolane”.
L’uso che facciamo di tali termini spesso rivela un atteggia-
432 Olismo: il futuro della medicina?
mento di fondo in noi: cioè che la nostra cultura sia superiore,
più avanzata e preferibile alle altre; non solo diversa, ma migliore.
Keesing (1981) ha usato una metafora molto efficace per far
capire la difficoltà di analizzare codici o valori culturali. Ha paragonato
i nostri codici e valori culturali individuali ad occhiali con
lenti deformanti: le cose, gli eventi e le relazioni che diamo per
scontato («sono proprio così!») vengono, in effetti, filtrate attraverso
questo filtro interpretativo. Vedere i modi di vita degli altri
attraverso i nostri stessi occhiali culturali viene chiamato etnocentrismo.
Divenire consapevoli dei nostri occhiali culturali è un
processo a volte doloroso.
Come possiamo allora essere più efficaci nel prenderci cura
di qualcuno appartenente ad una cultura diversa? Ci sono determinati
passi concreti che si possono fare in questo senso:
– essere pronti a condividere situazioni giornaliere con
membri dell’altro gruppo culturale;
– se possibile, imparare i loro gesti e la loro lingua;
– poiché il pensiero inconscio si esprime anche nel linguaggio
figurato, sviluppare e usare metafore culturalmente compatibili.
Ciò può essere fatto ascoltando il modo in cui le altre persone
usano tali metafore. Un paziente anziano depresso, per esempio,
può dire di sentirsi «come un salmone che non ha più l’energia
di nuotare e che il fiume sta trascinandolo all’indietro»; oppure
di sentirsi «come un limone spremuto», ecc.;
– ricordare che le culture sono dinamiche e che nessun individuo
sa come tutti i “canoni inconsci” operino in una cultura. È
più importante osservare quello che le persone fanno nelle situazioni
di vita reale piuttosto che sentire ciò che dicono di fare. E se
i membri di un gruppo culturale censurano o criticano il comportamento
di un singolo membro stare attenti al fatto che un tale
comportamento segna un confine attorno ai codici e i valori “normali”
di quella cultura;
– essere molto pazienti e procedere molto lentamente. Sbagli
iniziali, sviste o ignoranza possono precludere in modo permanente
la possibilità di essere accettato nella benché minima relazione
con i membri del gruppo. I codici culturali devono essere
Olismo: il futuro della medicina? 433
rispettati persino nelle questioni più semplici come il vestiario, lo
spazio interpersonale o il contatto fisico. Le stesse abilità che possediamo
come medici e che usiamo nei consulti possono essere
impiegate in questo critico periodo preliminare;
– essere preparati a sperimentare qualche difficoltà. È difficile
e talvolta doloroso scoprire alcuni aspetti di sé e diventare consapevoli
che spesso i nostri “occhiali” culturali sono stati una lente che
ha distorto ciò che avevamo percepito come realtà oggettiva. Superare
la propria cultura significa scoprire che anche noi abbiamo dei
miti e delle metafore che spesso non sono più validi e veri di quelli
di altre culture. Riconoscerlo può essere doloroso, ma le altre culture,
in genere, non sono migliori o peggiori, non più ricche o più
povere della nostra: esse sono semplicemente diverse.
Nella mia esperienza personale ho anche constatato che una
conoscenza basilare della cultura dei nostri pazienti (spesso così
diversa dalla nostra!) deve provenire anche dal di fuori del nostro
consulto, quel tanto che basti a far sentire al paziente che si conosce,
si apprezza e si rispetta la sua cultura.
Una conoscenza ulteriore può poi provenire: direttamente dai
pazienti, anche se non attraverso domande dirette, ma tramite un
“saper leggere tra le righe”; o dalle persone con cui lavoriamo più a
stretto contatto. A tal proposito condivido pienamente la stessa
esperienza di Miller (1996): «Nella mia pratica personale, ho trovato
che il mio staff è un’ottima fonte di informazioni nelle interazioni
interculturali. Essi mi raccontano le reazioni dei pazienti e mi forniscono
altri spunti. Questo loro contributo è incoraggiato dal mio
ascolto rispettoso, fatto senza stare sulle difensive e con gratitudine.
La quantità di informazioni condivise dipende dall’interesse che dimostro.
A volte invogliare i commenti da parte del paziente sul contenuto
o sullo stile del consulto ha migliorato la mia autoconsapevolezza
e sembra aver accresciuto la soddisfazione del paziente».
Il mistero: culla di vera arte e scienza
Chiaramente, come abbiamo detto prima, il nuovo paradigma
deve affrontare anche l’arroganza o la sufficienza di quei me-
434 Olismo: il futuro della medicina?
dici che riescono a pensare solo nei termini del modello biomedico.
Sono convinto che una delle ragioni di tale atteggiamento sia
in realtà l’ignoranza. Infatti, formalmente si insegna pochissimo
sull’argomento e la maggior parte dei medici occidentali spesso
non conosce le idee che i pazienti hanno sulle cause delle loro
malattie o il loro concetto di salute o di stato di malessere. Inoltre,
anche se il medico volesse capire il paziente, egli si rende conto
di conoscere molto poco della sua vita reale e delle sue percezioni;
se poi il paziente proviene da un ambiente diverso, il divario
è ancora più evidente. In maniera più specifica, la maggior
parte dei medici generici occidentali, quando si trova in ambulatorio
pazienti neri, possiede solo una vaga idea delle loro credenze
riguardo alla stregoneria, ai guaritori tradizionali e ai loro rituali;
i medici moderni, poi, anche se riconoscono la presenza del
guaritore tradizionale, in genere mostrano poco interesse per ciò
che il guaritore tradizionale fa.
In ogni caso, a mio parere, un altro motivo di un certo atteggiamento
di sufficienza sta nel fatto che, anche se inconsciamente,
siamo frutto di un certo modo di pensare che ci porta a voler
dare sempre a tutto, e ad ogni costo, una spiegazione “razionale”
(che poi a volte vuol dire secondo i nostri schemi!), quasi a eliminare
ogni sorta di mistero.
Per spiegare meglio cosa intendo dire bisogna spendere
qualche parola sul «problema della demarcazione».
Il problema della demarcazione
Includere l’aspetto culturale nel modello biopsicosociale,
come abbiamo già detto, non significa solo considerare l’influenza
culturale sulla malattia, ma anche sul processo di guarigione.
In questo senso è importante considerare il ruolo della medicina
tradizionale (popolare) nelle varie culture.
Questa è un’altra grossa questione poiché i medici occidentali
che seguono l’approccio biomedico a volte non accettano,
non comprendono, non credono, o non sanno molto a proposito
della medicina tradizionale nelle sue varie forme.
Olismo: il futuro della medicina? 435
In realtà, la medicina tradizionale è stata sempre poco considerata
o persino ignorata dalla medicina e dal mondo occidentali.
Per esempio, i tribunali occidentali riconoscono i medici
qualificati come “esperti” di molte materie, mentre i guaritori tradizionali
non sono così riconosciuti. Per quale motivo la professione
medica ha un suo status intellettuale riconosciuto da tutti?
Più precisamente, cos’è che rende la scienza medica occidentale
più credibile della stregoneria e dell’attività dei guaritori tradizionali
in genere o dei guaritori spirituali (che usano preghiere per
guarire)?
Tale questione, o piuttosto la sua generalizzazione, è uno dei
problemi fondamentali della filosofia della scienza: il problema
della demarcazione. Esso non è semplicemente una definizione di
termini; il problema è in pratica quello di spiegare perché, tutto
sommato, dovremmo prendere più seriamente in considerazione
le affermazioni e le teorie della scienza empirica (e in particolare
quelle della scienza medica), piuttosto che quelle della stregoneria,
dei guaritori, ecc.
Tale problema è di seria importanza per la medicina poiché
la base della pratica della medicina occidentale sembrerebbe essere
la nostra conoscenza scientifica delle malattie, delle loro cause
e delle loro cure. Se dobbiamo spiegare perché le teorie della
scienza empirica e la pratica della medicina occidentale sono preferibili
dal punto di vista della verità a quelle del cosiddetto stregone,
allora abbiamo bisogno di risolvere il problema della demarcazione.
Ed è importante rendersi conto del perché sia così. Per
esempio, se un paziente che ha la febbre alta va da un medico, e il
medico, dopo un esame, diagnostica un’infezione batteriologica e
gli prescrive della penicillina, sta facendo uso di una considerevole
quantità di conoscenza scientifica. Se lo stesso paziente andasse
da uno stregone, le tecniche di esame, la diagnosi e la cura prescritta
sarebbero molto diverse. Ad esempio, l’esame potrebbe
comprendere uno studio delle interiora di un pollo; la diagnosi
potrebbe essere che la febbre è il risultato di una maledizione; e
la cura prescritta potrebbe essere una sorta di purificazione rituale
o qualche altro tipo di azione simbolica (come ad esempio con-
436 Olismo: il futuro della medicina?
ficcare degli spilli in un’immagine della persona identificata come
quella che ha provocato la maledizione). Tali prescrizioni sono,
naturalmente, “rituali” o “simboliche” dal nostro punto di vista
(e in realtà, oserei dire, lo sono); ma dal punto di vista del “ciclo
magico” della stregoneria esse non sono né rituali, né simboliche.
Esse sono strumentali e tecnologiche. In altre parole, data la visione
del mondo dello stregone – cioè date le sue teorie – le sue
tecniche di esame e diagnosi e la cura prescritta sono per lui “razionali”
come le loro controparti occidentali.
Così, abbiamo bisogno di segnare una linea di demarcazione
fra la “genuina” scienza empirica, “meritevole” di essere presa sul
serio dal punto di vista della verità, e le “superstizioni pseudoempiriche”,
come le teorie degli stregoni, non altrettanto “attendibili”
e “meritevoli”.
Nella tradizione filosofica britannica la soluzione comunemente
accettata a questi problemi prende origine dalla filosofia
induttiva di Francis Bacon. Secondo la sua opinione, ciò che distingue
la genuina scienza empirica dalla superstizione pseudoempirica
è l’uso di un determinato metodo: quello induttivo.
La scienza empirica è il prodotto della sua applicazione, la superstiziosa
pseudoscienza non lo è. Ciò che contraddistingue lo
scienziato (colui che impiega l’induzione) è che egli inizia sempre
la sua investigazione del mondo senza idee preconcette: egli si accosta
al mondo a “mente aperta” e fa osservazioni empiriche oggettive,
fatte senza pregiudizi. Solo dopo aver raccolto una sufficiente
quantità di osservazioni oggettive egli inizia a cercare,
usando tali osservazioni, di scoprire le cause di un certo fenomeno
o le sue spiegazioni, e questo avviene per mezzo del metodo
induttivo arrivando a tali cause o spiegazioni a partire dalle osservazioni
effettuate.
Al contrario, il metodo della superstizione o, come Bacon lo
chiama (in Briskman, 1987), il metodo della speculazione – nel
senso negativo –, è alquanto diverso. Questo piuttosto che permettere
che le nostre idee si formino a partire dai fatti osservati,
ci fa iniziare dalle idee – ossia da mere congetture circa le cause e
le spiegazioni dei fenomeni – per poi farci procedere, come abbiamo
visto fare allo stregone, con la ricerca della prova empirica
Olismo: il futuro della medicina? 437
o osservativa per poi sostenere o “confermare” le idee preconcette
formulate. Così, coloro che usano tale metodo non iniziano a
“mente aperta” dai fatti per poi formulare delle idee a seconda
delle osservazioni (come fanno gli scienziati); ma piuttosto iniziano
con un’idea e cercano di conformare le osservazioni a quell’idea
(in Briskman, 1987).
La soluzione induttiva al problema della demarcazione è stata,
però, rifiutata da Hume (in Briskman, 1987). Secondo quest’ultimo,
infatti, lo stesso metodo induttivo richiede una «superstizione
pseudoempirica»: ogni ragionamento induttivo (dagli effetti
alle cause oppure dai particolari alle leggi universali), infatti,
deve far uso di una supposizione nascosta, quella secondo cui gli
effetti osservati sono una buona guida per risalire alle cause che
ne sono alla base oppure che i particolari sono delle buone guide
per risalire alle leggi universali. Questa supposizione, spesso chiamata
«principio di induzione», si rivela, alla fine, un’idea preconcetta,
che può ricevere un supporto empirico solo se per prima
viene presupposta.
Secondo Popper (in Briskman, 1987), ciò che delimita il
confine attorno alle teorie della scienza empirica non è il fatto che
esse siano state raggiunte tramite osservazione, ma piuttosto il fatto
che esse siano aperte a critiche frutto dell’osservazione e dell’esperienza
empirica. Ciò che le rende meritevoli di seria considerazione,
dal punto di vista della loro veridicità, non è il fatto che abbiamo
buone ragioni empiriche per credere alla loro fondatezza,
quanto piuttosto il fatto che esse siano soggette a test empirici di
falsificazione, e che dopo aver impiegato ogni sforzo nel tentativo
di falsificarle, esse abbiano resistito a tali tentativi.
Viceversa, ciò che rende le teorie degli stregoni indegne di seria
considerazione, dal punto di vista della loro veridicità, non è il
fatto che non esistano buone ragioni empiriche per credere alla loro
fondatezza, quanto piuttosto il fatto che esse siano o immuni da
qualsiasi tentativo di confutazione empirica o facilmente confutabili.
Ora la questione del problema della demarcazione non è
solo un tema filosofico che appartiene al passato o alla speculazione
degli specialisti. Comunque, nonostante sia stato detto che
«ciò che è sbagliato nella, diciamo, guarigione miracolosa, non è
438 Olismo: il futuro della medicina?
il fatto che essa non abbia una “base scientifica”, se con ciò intendiamo
dire che al momento non riusciamo a dare alcuna spiegazione
scientifica della sua efficacia; dopo tutto è assolutamente
possibile che tali pratiche siano puntualmente efficaci nel, diciamo,
curare il cancro; se fosse così, il fatto che non riusciamo a
spiegarcele all’interno dell’attuale scienza medica, non vuol dire
che la guarigione miracolosa sia inefficace, ma piuttosto, che la
nostra attuale conoscenza scientifica è difettosa» (Briskman,
1987), e anche che «se la storia della medicina non ci insegna nulla,
essa almeno ci insegna che non ci sono oracoli» (Briskman,
1987), resta il fatto che i vari Bacon, Hume e Popper, appartengono
in ogni caso alla cultura occidentale col suo modo di pensare e
di guardare la medicina, e ciò, anche se inconsciamente, ci induce
a creare “oracoli” basati sulle nostre stesse convinzioni limitate
che poi influenzano la nostra attività giornaliera. Difatti, assolutizzare
ciò che sperimentiamo ci porta spesso a sottovalutare ciò che
sperimentano gli altri, o ciò in cui credono; e non mi riferisco solo
ai pazienti, e non mi riferisco solo a credenze o stregonerie (verso
le quali è comprensibile un tale atteggiamento), ma in generale alla
difficoltà di accettare modi di vedere diversi di persone di altre
subculture (intese nel senso generale che dicevo prima).
Dal modello teorico al metodo clinico
Il modello biopsicosociale è un’astrazione. Per essere utile
nella pratica, esso deve produrre un metodo clinico che eguagli,
in potenza, quello derivato dal modello biomedico, che ha grandi
punti forti e che, molto schematicamente, suona così: «trova il
principale disturbo, fanne la storia, esamina e indaga il paziente
in questo modo, e così arriverai o a una diagnosi, oppure escluderai
la patologia organica».
Questo approccio fornisce poi anche un criterio di conferma,
in quanto esami accurati diranno al medico se aveva ragione
o torto.
In letteratura medica troviamo diversi tentativi di sviluppare
un nuovo metodo clinico basato sul modello biopsicosociale.
Olismo: il futuro della medicina? 439
Fra gli altri autori, Michael Balint presenta il concetto di una
«diagnosi più profonda». Egli mostra l’importanza di non accogliere
i sintomi offerti dal paziente e di etichettarli subito, ma di approfondire
il caso, in modo da comprenderlo meglio, e così ridurre il
numero di volte in cui il medico deve prendere una decisione alla
cieca basata solo su una diagnosi fisica. Enfatizza molto l’importanza
dell’ascolto attento e della relazione medico-paziente. E nonostante
egli abbia principalmente parlato di esperienze con pazienti
che soffrivano di turbe psichiche, il suo contributo è stato valido
per impostare un approccio più olistico in generale.
Dal momento che l’ascolto è dimensione assai importante in
un consulto corretto, vorrei spendere alcune righe in proposito.
Ascoltare il paziente con completa attenzione è una disciplina
assai difficile. Richiede intensa concentrazione su tutto ciò che
il paziente cerca di dire, sia verbalmente che in altri modi, apertamente
o con quei segnali assai sottili per mezzo dei quali i pazienti
esprimono particolari significati.
L’ascolto attento richiede che ci svuotiamo di noi stessi, ci liberiamo
da preoccupazioni e distrazioni personali e mettiamo da
parte per un momento i nostri preconcetti e schemi di riferimento.
Carl Rogers (1980) lo esprime molto bene: «ascoltare attentamente
significa dare la propria totale e indivisa attenzione all’altra
persona e dirle quanto siamo interessati e preoccupati per lei».
Ascoltare è un processo esigente e difficile che non dobbiamo
intraprendere se non abbiamo profondo rispetto e cura dell’altro.
Dobbiamo ascoltare non solo con le orecchie, ma anche con gli occhi,
la mente, il cuore e l’immaginazione. E ascoltare anche ciò che
avviene dentro di noi, oltre che quello che sta accadendo nella persona
che abbiamo davanti. Ascoltare le parole dell’altro, ma anche i
messaggi inclusi nelle parole. Ascoltare il tono della voce, e cogliere
la mimica e il linguaggio del corpo dell’altro. Siamo attenti ascoltatori
solo quando ci concentriamo interamente su ciò che viene detto
e le circostanze in cui ciò avviene, non quando usiamo un ascolto
selettivo che ci porta a filtrare solo ciò che ci interessa e concorda
con le nostre percezioni. Si tratta di cercare semplicemente di
assorbire tutto ciò che l’interlocutore sta dicendo in modo verbale
e non verbale senza aggiungere, sottrarre o rettificare alcunché. Ve-
440 Olismo: il futuro della medicina?
dendo le cose da questa ottica è opinione diffusa che i medici in genere
non siano buoni ascoltatori!
Secondo una diversa prospettiva, idee assai innovative provengono
da Kleinman e dai suoi colleghi (1978). Facendo riferimento
a studi antropologici egli ha rivolto la sua attenzione sul
fatto che i pazienti hanno dei modelli di spiegazione della malattia
che subiscono l’influenza della propria cultura e che sono
spesso discordanti col modello biomedico. Pertanto se il medico
non esplora tra l’altro anche il modo in cui il paziente pensa la
propria malattia il risultato sarà probabilmente insoddisfacente.
Poiché il modello biomedico non prende per nulla in considerazione
questo punto, egli suggerisce prima di tutto una serie
di domande mirate a far emergere dal paziente il significato che
egli assegna alla sua malattia e i risultati terapeutici che si aspetta;
a ciò deve seguire poi una spiegazione dell’interpretazione che il
medico dà della malattia e, se necessario, una vera e propria “negoziazione”
col paziente riguardo la cura e il risultato atteso. In
questo processo anche la famiglia gioca un importante ruolo.
Altri contributi interessanti sono arrivati anche dal lavoro di
MacWhinney. Nel suo A Textbook of Family Medicine troviamo
alcune illuminanti dichiarazioni: il medico di famiglia si occupa
della persona piuttosto che di un particolare gruppo di malesseri;
il medico di famiglia cerca di capire il contesto della malattia.
MacWhinney sviluppa un metodo clinico centrato sul paziente
in cui tra l’altro afferma chiaramente che comprendere le
aspettative, le sensazioni e le paure che il paziente ha riguardo la
sua malattia, oltre che creare e mantenere una relazione terapeutica
medico-paziente, dovrebbe essere l’obiettivo di ogni consulto.
Ovviamente anche il medico ha un suo obiettivo: saper interpretare
la malattia tramite quanto gli è stato riferito dal paziente,
esaminare disturbi presintomatici e i fattori di rischio, controllare
la risposta alla cura; ma praticando questo metodo egli non
solo raggiunge il suo obiettivo, ma asseconda anche le aspettative
del paziente.
MacWhinney, in tal modo, sostituisce il concetto classico di
diagnosi con quelli di «problema da risolvere» e «decidere sul da
farsi» che ampliano l’ambito della gestione della malattia del pa-
Olismo: il futuro della medicina? 441
ziente: la soluzione del problema del paziente, a volte, può avere
ben poco a che fare con la diagnosi.
Su questa stessa linea di un metodo clinico maggiormente
incentrato sul paziente, Fehrsen e Henbest nel 1993 presentarono
il loro lavoro. Il loro primo passo fu annotare la valutazione del
paziente su tre livelli: quello clinico, quello individuale e quello
contestuale; e i loro primi tentativi riguardarono l’ampliamento
del livello clinico con una valutazione contestuale e una individuale
per ciascun problema presentato.
La valutazione clinica comprende i risultati dell’esame fisico
del paziente e le indagini necessarie (in realtà si tratta ancora della
classica valutazione biomedica).
La valutazione contestuale è strettamente legata al tipo di
dati raccolti nell’anamnesi familiare e sociale del metodo tradizionale,
ma acquista nuovo significato se la si collega a un problema
specifico tramite un’analisi più ampia rispetto a quella rivolta a
una mera ricerca di informazioni riguardante il background del
paziente. Essa prende anche in considerazione come la malattia
interferisce con la vita sociale del paziente, e le varie situazioni di
supporto o di stress in cui è coinvolto.
La valutazione individuale parte dall’esigenza di stabilire le
ragioni del consulto (che comprendono sia il problema in sé che
l’idea che il paziente se ne è fatto, le sue aspettative, paure e sensazioni).
Fintantoché il medico non scopre questi elementi non
può sapere quali siano tali ragioni e anche se può immaginare di
conoscerle, di fatto non ha il diritto di fare supposizioni non verificate.
E tutto ciò, malgrado sia stato da tempo raccomandato dai
maestri dell’arte della medicina, non è stato mai chiaramente preso
in considerazione dal metodo biomedico tradizionale.
Una volta completata la valutazione e giunti alla comprensione
delle aspettative e delle condizioni del paziente, il medico deve
approntare un piano d’azione globale che deve tener conto non
solo dei risultati clinici del consulto, ma anche di tutte le questioni
importanti emerse dalla valutazione individuale e contestuale.
Per finalizzare un piano d’intervento che abbia successo, il
medico deve, però, possedere un’abilità molto importante: quella
di riuscire a far partecipare attivamente il paziente a tutto il pro-
442 Olismo: il futuro della medicina?
cesso raggiungendo insieme un’unanime comprensione dei problemi
individuati durante il consulto; scegliendo con lui l’azione
appropriata per ciascuno di tali problemi; coinvolgendolo nella
gestione della situazione e incoraggiandolo ad accettare di assumersi
le dovute responsabilità a seconda dei casi.
La negoziazione con il paziente riguardo ciò che egli si
aspetta che accada, dipende anche da dove risiedono le discrepanze
di vedute tra lui e il medico, e se e quanto esse possono influenzare
la cura. Per esempio, se il paziente accetta l’uso di antibiotici,
ma crede che sia anche necessario bruciare dell’incenso,
indossare un amuleto o consultare un indovino, il medico deve
cercare di capire tale credenza e non deve necessariamente fare
dei tentativi per cambiarla. Chiaramente è diverso il caso in cui
c’è da parte del paziente una resistenza verso le prescrizioni che il
medico pensa di fare o su altri punti essenziali del piano d’azione
che egli propone.
Il processo di negoziazione pertanto può diventare il passo
più importante nel processo di guarigione del paziente perché intanto
serve a conquistare la sua fiducia onde evitare serie discrepanze
di vedute sul modo di affrontare i vari problemi che sono
stati evidenziati durante il consulto e in secondo luogo può servire
ad aumentare le possibilità che il paziente segua la cura che si
decide insieme e a ridurre la sua eventuale insoddisfazione.
Spesso, per motivi culturali o psicologici, i nostri pazienti
sono assai timidi nel comunicare o a volte non gradiscono molto
che vengano fatte loro delle domande. Il medico, quindi, ha bisogno
di acquisire delle abilità specifiche per il consulto. In sintesi
egli non solo ha bisogno di saper ascoltare, ma deve anche sapere:
come iniziare un consulto con domande aperte; quando parlare e
quando stare in silenzio; quando riflettere su ciò che il paziente
dice; quando confrontarsi col paziente; quando e come tirare le
somme di quanto è stato detto; come annunciare le brutte notizie;
come consigliare; come saper “prendere” un paziente difficile.
Inoltre, altri suggerimenti per un consulto appropriato possono
richiedere che si utilizzi un saluto caloroso e un passo iniziale
non affrettato, oltre a manifestare serenità e calma; si faccia uso
da parte del medico della comunicazione non verbale e del lin-
Olismo: il futuro della medicina? 443
guaggio del corpo e si sappia cogliere quello del paziente; si discuta
con lui il rapporto con la famiglia ed eventualmente con altri
medici, amici, che hanno un ruolo importante nella sua vita,
per valutare come questi ultimi possono essere coinvolti nel piano
d’azione stabilito (questo è di vitale importanza soprattutto nella
cura del malato cronico).
Inculturarsi nell’altro
Certo, ci si può sentire sgomenti di fronte a tutto ciò che è
stato detto, specie se non si è mai stati esposti a un approccio diverso
da quello biomedico coi propri pazienti, o se si è sempre svolto
il proprio lavoro di medici senza mai pensare che una visione olistica
avrebbe aggiunto qualcosa alle proprie diagnosi e cure.
In ogni modo dovremmo essere coscienti che: mai diventeremo
perfette guide spirituali, consiglieri, psicologi, assistenti sociali,
profeti o interpreti degli eventi della vita e quindi non dovremmo
sentirci obbligati a rimpiazzare questi altri ruoli; gran parte della
pratica medica si basa sul paradigma culturale occidentale dominante
e dunque è rivolta alle aspettative e ai bisogni del paziente occidentale;
non è sempre necessario e possibile rimuovere le proprie
influenze culturali, ma è importante essere consapevoli che queste
esistono (tale consapevolezza è spesso sinonimo di valorizzazione
del paziente come persona); bisogna stare attenti a non imporre agli
altri le proprie categorie culturali, etiche, religiose, sociali.
Occorre veramente “detribalizzarsi”, perdendo la propria
cultura. E perderla significa spostarla, affinché non venga a intralciare
il nostro lavoro, e significa vederne la relatività. Solo se saremo
così, distaccati dalla nostra cultura, potremo capire e imparare
a valutare le altre culture, entrare nel pensiero dell’altro e coglierne
le ricchezze.
Ora, è abbastanza facile ridurre parzialmente il divario se due
persone, quando si incontrano, hanno mutuo rispetto; pertanto
dobbiamo muoverci con cautela e con umiltà, come se si stesse incontrando
un esperto che necessita di essere riconosciuto come tale
(in effetti il paziente è un esperto in ciò che è la sua malattia!).
444 Olismo: il futuro della medicina?
CONCLUSIONE
A mio parere l’approccio olistico ci permette una maggiore
varietà di strategie e ci fornisce di ulteriori capacità nel delicato
compito di avviare alla guarigione sia gli individui che i gruppi,
ma soprattutto ci riporta al paziente visto come persona e in tal
modo ci fa riscoprire noi stessi come persone e ci aiuta a prenderci
cura degli altri con più efficacia.
Ci può aiutare a capire meglio come avere cura dei pazienti
nel nostro tempo e nel nostro ambiente, insegnandoci a costruire
un rapporto medico-paziente più vero. Un rapporto maggiormente
centrato sul paziente che significa, tra l’altro, creare uno
spazio vuoto dove il paziente può trovare un certo conforto e accoglienza;
uno spazio vuoto che però non è passività, o assenza di
pienezza, ma il risultato della proiezione di tutto il nostro essere
(mente, corpo, spirito) nell’altro che è di fronte a noi. (In realtà
ritengo che questo non sia un atteggiamento da tenere solo di
fronte ad un paziente, ma di fronte ad ogni essere umano!).
Ma nonostante tutto quello che è stato detto, sono anche del
parere che per quanto impegno ci si possa mettere nel fare un
consulto, ancora «come navi che passano di notte, ci domandiamo
quante barche ci sono passate accanto senza che le abbiamo
viste» (Ellis, 1996).
Quello che aiuta è accettare i nostri limiti e ricominciare
ogni volta con nuova forza ed entusiasmo.
PASQUALE DI MATTIA
Olismo: il futuro della medicina? 445
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