Intervista a Renzo Andrich, ingegnere esperto di ausili tecnologici per le persone con disabilità,
chiamato dall’Organizzazione mondiale della sanità a lavorare in una progetto internazionale sugli ausili tecnici considerati il “quarto pilastro” della strategia della salute
L’ingegner Renzo Andrich, esperto di ausili tecnologici per le persone con disabilità, dopo una lunga esperienza alla Fondazione Don Gnocchi di Milano, è stato chiamato dall’OMS a guidare una squadra internazionale per sviluppare un sistema intelligente online, che aiuti chiunque nel mondo – disabili, familiari, operatori sociali e sanitari – a trovare soluzioni tecniche a situazioni di disabilità.
L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), sigla quasi sconosciuta alla maggior parte delle persone, è assurta improvvisamente ad una delle Agenzie più visibili durante la pandemia. Quale è la sua esperienza con le istituzioni internazionali?
Ebbi una prima esperienza una quindicina d’anni fa partecipando alla sessione finale dell’Assemblea dell’ONU a New York in cui si approvava la convenzione internazionale sui diritti delle persone con disabilità. Allora l’impressione fu di partecipare ad una sorta di “assemblea di condominio”, i cui partecipanti avevano però qualità diplomatiche di ascolto e di costruttività ben diverse dalle nostre quando discutiamo nei nostri condomini.
Toccavo con mano un rispetto dell’uno verso le posizioni degli altri paesi, magari formalmente in conflitto (in quell’epoca, ad esempio, Israele con altri paesi del Medio Oriente), che però dialogavano e quindi mi sono detto: finché c’è un istituzione come l’ONU, c’è un seme di speranza che le persone si parlino e trovino soluzioni. Ero arrivato lì portandomi il pregiudizio che le persone “serie”, quelle che fanno progredire l’umanità, fossero gli uomini e le donne di scienza, mentre i diplomatici li collocavo nel ruolo di “cuochi”, abili a cucinare la minestra secondo la convenienza. Invece ho apprezzato cosa vuol dire il lavoro dei diplomatici, importantissimo: essere capaci di dialogare e porre il problema nella maniera opportuna e adeguata al momento. Senza il sistema della Nazioni Unite, con tutte le sue agenzie inclusa l’OMS, il mondo sarebbe a rischio.
Tornando ad OMS, ovviamente sto muovendo i primi passi nella conoscenza di questa organizzazione, molto diversa rispetto alle nostre. Ho colto l’esistenza di due binari: quello delle linee di emergenza che ha meccanismi decisionali rapidi e collaudati, come quelli necessari per i casi di pandemia, di migrazioni e crisi umanitarie; una macchina che si è già pre-costituita per essere pronta a scattare come una molla quando capita l’evento. E poi c’è il binario della struttura ordinaria in cui si costruiscono nuovi processi per il futuro. Sto collaborando ad un progetto che riguarda questa parte di OMS, dove si stabiliscono le strategie per il XXI secolo.
Qual’è il contributo personale e nazionale che porterà dentro questo progetto internazionale?
L’OMS, come tutte le altre agenzie del sistema della Nazioni Unite, non guarda né ai singoli Paesi né ai loro rappresentanti. Guarda all’intero pianeta. Per poter dire qualcosa bisogna avere in mente il mondo. Quindi non si porta il contributo e l’idea dell’Italia, piuttosto all’idea del problema già pensato su tutto il mondo. Anche nel campo di cui mi occupo, quello delle tecnologie per le persone con disabilità, non pensare da italiano, da europeo in un’area sviluppata ricca di risorse materiali e professionali, ma pensare anche nell’ottica dell’Uganda, dello Zimbawe, dei Paesi di altra cultura e livello di sviluppo. In OMS, nel ventesimo secolo, le strategie per la salute si sono concentrate soprattutto sulle malattie infettive, come mostra l’emergenza Covid, puntando da un lato sullo sviluppo degli strumenti necessari (vaccini, farmaci, dispositivi medici) e dall’altro su come renderli disponibili in ogni area del pianeta: sistemi di controllo della sicurezza dei farmaci, rottura dei monopoli per evitare che qualche multinazionale approfitti di una malattia per arrogarsi brevetti su un vaccino o su un farmaco.
È nota ad esempio la “lista dei farmaci essenziali”, che devono essere a disposizione di tutto il mondo, e che nessuna azienda può brevettare perché ne va della salute di tutti (si pensi al paracetamolo, da noi noto sotto il nome di tachipirina). Quindi l’OMS ha costruito questo sistema che ha mostrato più volte la propria efficacia anche se noi magari non ce ne accorgiamo. Adesso ce ne accorgiamo perché c’è il Covid ma al tempo della Sars ce ne rendevamo meno conto perché qualcuno sotto l’egida dell’OMS è riuscito a confinarla da qualche parte nel mondo. Lasciando eroi sul campo come l’italiano Carlo Urbani, il medico che insieme ad altri medici ha individuato e sconfitto la Sars.
Quali sono gli obiettivi e le prospettive dell’Oms del futuro?
Parlando di prospettive, oltre alle sempre presenti sfide come il Covid, nel ventunesimo secolo le priorità secondo Oms cominciano a essere altre. La durata della vita delle persone si allunga, le persone invecchiano di più – in Europa già lo vediamo, in Giappone e pure in America, ma aspettiamo il boom demografico dell’India e della Cina in cui avremo centinaia di milioni di persone anziane in più. E con l’aumentare dell’età aumenta il rischio di disabilità, di perdita di autonomia; nessun sistema sanitario potrà permettersi l’assistenza a tantissime persone in più in situazione di fragilità con i metodi tradizionali (case di riposo, ecc.), né sul piano etico né economico.
Dobbiamo fare in modo che queste persone invecchino mantenendo la massima autonomia possibile, possano conservare le proprie capacità sia relazionali che produttive il più a lungo possibile. E gli ausili tecnologici, strumenti fondamentali a questo scopo, diventano per l’OMS il “quarto pilastro” della strategia della salute, accanto ai vaccini, ai farmaci e ai dispositivi medici. Per gente come me che da quarant’anni anni lavora un po’ da pionieri in questo campo ancora poco considerato e mal regolamentato dal sistema sanitario nazionale, questa nuova visione dell’OMS è stata come un invito a nozze. Gli ausili, ancor spesso considerati qui in Italia una “cenerentola della riabilitazione” (la quale a sua volta è ancor spesso considerata una “cenerentola della medicina”) sono diventati nientemeno che il quarto pilastro della strategia mondiale della salute.
Cosa comporta questo quarto pilastro dell’Oms e cosa comporta a livello operativo?
Si tratta di un processo che ha cominciato una decina di anni fa a muoversi all’interno dell’OMS, ma è riuscito ad approdare ai livelli alti nel 2018, anno in cui l’assemblea dell’OMS ha deliberato la direttiva “Improving access to assistive technology” (migliorare l’accessibilità agli ausili) che fissa nove obblighi per i Paesi membri e cinque obblighi per l’OMS.
Attualmente una percentuale molto bassa di persone in giro per il mondo ha accesso a queste tecnologie fondamentali per una vita autonoma e dignitosa; questa percentuale è destinata a raddoppiarsi nel corso dei prossimi vent’anni per effetto dell’aumento della disabilità dovuta alla popolazione anziana. Quindi dobbiamo fare in modo che tutti possano avere accesso attraverso una serie di strategie, alcune industriali – promuovere la ricerca tecnologica, fare in modo che sempre più ausili tecnologici siano disponibili sul mercato, sicuri, economici, di facile manutenzione, esteticamente belli. Dall’altro, dare indicazioni per le politiche nazionali per facilitare la fornitura.
Un’altra linea è la formazione del personale, ovvero che ci siano le professionalità necessarie a gestire l’aderenza degli ausili alle esigenze individuali. Infine vi è piano dei diritti fondamentali, ovvero l’attuazione della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità. Contrariamente a come eravamo abituati nel nostro approccio “sanitario”, le Nazioni Unite vedono negli ausili non un intervento “compensativo” o “compassionevole” per chi è in condizione di disabilità, bensì – “sorry” – un diritto umano!
FONTE: CITTÀ NUOVA