La fratellanza è storicamente una caratteristica relazionale che scaturisce dai vincoli del sangue della famiglia. Un uso traslato del termine è molto antico, anche se la documentazione in proposito è molto scarsa. Platone chiama il fratello il connazionale, hemeis dé kài hoi heméteroi, mias metròs pàntes adelphòi phyntes (noi e i nostri, tutti fratelli, perché frutto di una sola madre); Senofonte chiama “fratello” l’amico. Nel primo caso la fratellanza è fondata sugli ampliati vincoli di sangue degli appartenenti ad una nazione, nel secondo caso su quello che, con Goethe, potremmo chiamare “affinità elettiva”.
In ambedue i casi la fratellanza traccia anche una linea di confine, in Platone la comunanza data con il comune carattere nazionale genera la fratellanza, ma caratterizza contemporaneamente lo straniero, il barbaros, come non fratello, così come la fratellanza senofontiana tra amici unisce sì gli amici, ma li separa anche dai non amici. L’unione, anche fraterna, genera sempre una certa chiusura degli uniti nei confronti degli altri.
Ma il termine “fratello” potrà poi anche designare ogni uomo, l’essere che somiglia, il prossimo. Come avviene questa visione allargata della fraternità?
La tensione nuova che, rispetto, al mondo greco, permea l’éthos della fraternità è conseguente alla subordinazione sotto la paternità del Dio universale. Questa unità di tutti gli uomini è scoperta in due tappe: anzitutto in base alla prima creazione, nella quale Dio formò l’”Adamo”, cioè l’uomo in generale, la radice di tutti i futuri singoli uomini, come sua immagine; poi, ancora una volta, in una seconda tappa partendo da Noè, con cui dopo la catastrofe della prima umanità comincia una nuova umanità. La tavola dei popoli di Genesi 10 cerca di ribadire in modo particolareggiato l’idea che tutta l’umanità storica deve la sua esistenza all’alleanza gratuita e salvante di Dio con Noè e che può continuare ad esistere solo grazie alla sollecitudine di Dio garantita da tale alleanza[4].
Questa riflessione sui presupposti teologici della fraternità poi deve considerare che la fraternità umana è ribadita da quella filialità che consiste nel dono di grazia attraverso il quale l’uomo è chiamato a partecipare alla dignità del Figlio di Dio incarnato, crocifisso e risorto, che si rivela come l’Unigenito e Primogenito di molti fratelli. Poiché, ora, coloro che partecipano di un’unica natura umana hanno una specie di legame ontologico tra di loro, ne segue che, nell’assunzione della natura umana da parte del Verbo si stabilisce un rapporto di Cristo con tutti gli uomini e un loro accesso, in Cristo, alla comunione con il Padre (cfr. 1Gv 5,1; Ef 3,14)[5].
La conseguenza più immediata della filialità in senso verticale è la condizione di fraternità in senso orizzontale. San Giovanni indica come risposta del cristiano all’amore di Dio non primariamente l’amore per Dio ma l’amore per il fratello. E come è reale la filialità nei confronti di Dio così è altrettanto reale la fraternità nei confronti del prossimo[6].
“Uno solo è il vostro fratello e voi siete tutti fratelli” (Mt 23,8). Queste parole del Signore definiscono il reciproco rapporto dei cristiani come un rapporto tra fratelli e contrappongono quindi una nuova fratellanza dello spirito alla fratellanza naturale, che scaturisce dai vincoli di sangue. L’éthos dei cristiani fra di loro è o dovrebbe pertanto essere un éthos della fraternità.
Teologicamente parlando, quindi, la fraternità invoca un riferimento diretto a Gesù di Nazareth, quel Figlio di Dio “unico generato” (Gv 1,13.18), che “non si vergogna di chiamarci fratelli” (Eb 2,11-13; cfr. Mt 28,10; Gv 20,17), rivendicandosi quindi come un capitolo perfettamente fondante interno alla cristologia.
Che la questione della fraternità sia decisiva per gli scritti neotestamentari lo dice anche il semplice fatto che il termine “fratello” ricorre in tutti libri del Nuovo Testamento; nessuno escluso, nemmeno quel biglietto di saluto che è la lettera di san Paolo a Filemone. Anzi, proprio il legame fraterno è proprio l’argomento a cui ricorre l’Apostolo per far breccia nel cuore del proprio interlocutore. Di ciò la Chiesa è stata sempre ben consapevole, alludendo di frequente alla fraternità come ragione della propria diversificata azione, anche perché sa che il giudizio definitivo verterà sul modo con cui sono stati trattati i “fratelli più piccoli” di Gesù (Mt 25,31-46). Per questo, insieme al riconoscimento della fondamentale portata della fraternità ( i primi quattro chiamati da Gesù sono due coppie di fratelli, Mt 4,18-22), il Nuovo Testamento ne evidenzia pure il carattere faticoso e drammatico[7].
Ancora, la puntualizzazione decisamente riferita alla prima comunità cristiana di tale concetto è opera di Paolo. Al posto della dottrina di Adamo della Genesi, Paolo pone in 1Cor 15 e Rm 5 la sua dottrina dei due Adamo. Nella risurrezione Cristo diventa attraverso la morte del primo Adamo, un nuovo e secondo Adamo, il capostipite di un’altra e migliore umanità. Perciò, grazie a Cristo nasce, con la nuova umanità, anche una nuova fratellanza cristiana.
Il cristiano, quindi, non ha fratelli solo all’interno della sua comunità o fra i suoi amici, ma fra tutti coloro per i quali Gesù ha dato la vita. Nessuno escluso, dunque, tra gli uomini. Altrimenti agli occhi di Gesù, non sarebbe suo discepolo.
Il messaggio che viene dalla parabola del Buon Samaritano è che la prospettiva di Gesù implica il rovesciamento dei concetti prettamente religiosi. Gesù vuol far capire che, così come è proibito nel decalogo, farsi una immagine di Dio per non rischiare di confonderlo con un idolo, così è vietato farsi un’immagine del proprio prossimo, poiché questi è qualsiasi uomo. Anzi, sei tu che devi “diventare” prossimo di ogni uomo, dice allo scriba e, soprattutto, a chi vuol essere suo discepolo.
Bisogna, infatti, che i suoi discepoli si sentano figli dello stesso Padre celeste “che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di speciale? Non fanno lo stesso anche i pagani? Siate voi, dunque, perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”[8].
E l’evangelista Luca integra poi “perfetti” con “misericordiosi”: “Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro”[9]. La misericordia ci introduce così all’argomento assistenziale.
L’attenzione e la cura dei malati affondano anche le loro radici nello stesso comando missionario del Gesù di Matteo: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni” (Mt 10,8).
E così che i Padri della Chiesa affermarono che l’arte medica è uno dei doni di Dio per soccorrere le persone nella malattia. L’uso caritatevole della medicina viene chiaramente considerato un mezzo per estendere l’amore di Cristo, applicando il suo imperativo categorico di amare il prossimo come se stessi.
E’ questo il grande cambiamento operato dal cristianesimo nell’ambito della medicina. Ippocrate, circa cinquecento anni prima di Cristo aveva fissato i canoni della medicina, sistematizzando le malattie, indagando il rapporto uomo-natura, ma il suo era un sapere elitario, in un certo senso il cristianesimo apporta un supplemento d’anima al suo giuramento. Così come apporta un supplemento d’anima al mondo assistenziale anche questo già presente prima dell’avvento del cristianesimo, ma anche questo con caratteristiche elitarie.
Se il pensiero medico antico si era proposto la formulazione d’un codice deontologico rimasto valido sino ai nostri giorni, e se la triade medico-malattia-paziente, nel senso di uno stretto collegamento fra le tre entità, fa la sua apparizione già nel V secolo a.C., come si è detto, non è meno vero che nel corso dei secoli il malato fu in quanto individuo la entità più trascurata, anche se non in senso assoluto. In epoca romana le uniche strutture sanitarie fisse e stabili a Roma erano i valetudinaria. Gli scavi archeologici ci mostrano edifici quadrati, circondati da un colonnato o da un muro perimetrale, in cui erano allineati piccoli cubicula; essi erano dotati di tutte le strutture necessarie agli interventi terapeutici. Gli ospedali militari discendono direttamente da quei valetudinaria in cui venivano ricoverati gli schiavi delle grandi tenute latifondistiche perché recuperassero forze e salute. Dunque schiavi e soldati sono le uniche categorie di persone a usufruire di un servizio di assistenza sanitaria: gli uni e gli altri sono beni preziosi, su cui il padrone e lo Stato hanno investito risorse nell’addestramento e nella specializzazione. L’idea di ospedale rimane pertanto totalmente estranea al mondo antico; un comune cittadino o uno straniero può contare solo sulle cure dei familiari o, se ha risorse sufficienti, sperare in un ricovero nella casa del medico stesso.
Le cose cambiano con l’avvento dello Stato cristiano (313, editto di Milano): inizia l’attività assistenziale delle opere caritative della Chiesa, da una parte, e dall’altra un atteggiamento nuovo dei cristiani nei riguardi dell’ammalato.
Basilio il Grande (329-79 d.C.) affermerà che la medicina è un dono che viene da Dio: “Ogni arte è un dono di Dio per rimediare alle deficienze umane… quella medica ci è stata data per soccorrere il malato, almeno in qualche misura”[10].
Nel cristianesimo primitivo si consolida però anche un elemento molto interessante, cioè l’attribuzione a Cristo della “categoria” del medico. La figura di Gesù medico sarà approfondita dai Padri greci, incominciando da Ignazio di Antiochia, che pone il Signore sullo stesso piano di Dio-medico; Clemente di Alessandria lo considera medico dell’umana natura, delle anime e dei corpi, in quanto Verbo del Padre, sua Sapienza e buon Pedagogo; Cirillo di Gerusalemme afferma che il Messia dovette essere medico delle anime e dei corpi, sicché ridiede la vista, ma anche la luce della fede, risanò il paralitico, ma gli raccomanda di non peccare più, perché non gli accadesse nulla di peggio; anche Origene si sofferma con una certa frequenza sulla figura di Gesù Medico. Tra i Padri latini la figura del Gesù-medico è sviluppata da Agostino, il quale ne sottolinea alcuni attributi, quali l’Onnipotens medicus, il Medicus magnus, il Medicus humilis, il Medicus et salvator noster[11].
Tutto questo però non comporta uno sviluppo scientifico medico, quanto piuttosto l’inizio di una historia caritatis.
Per capire la rivoluzione operata dal cristianesimo in ambito sanitario occorre considerare san Benedetto, ed in particolare il capitolo 36 della sua Regola: “L’assistenza agli infermi va posta prima e sopra ogni cosa”. Questo riconoscimento del “prima e sopra ogni cosa” è qualcosa di totalmente nuovo, perché ricomprende tutti gli infermi, stabilendo una priorità nel significato dell’assistenza agli infermi sconosciuta nei secoli precedenti.
E’ così che i primissimi ospedali furono le infermerie dei monasteri, nelle quali si accoglievano gli ammalati, sia appartenenti alla comunità, sia provenienti dall’esterno.
Con la caduta dell’impero romano, fino alla vigorosa ripresa demografica del IX secolo, sono la Chiesa ed il vescovo ad occuparsi dei pauperes (ammalati e fasce sociali deboli) in locali spesso annessi alla chiesa.
Così la Chiesa primitiva impone ai vescovi di farsi carico dei bisognosi, e il concilio di Nicea fissa le prime prescrizioni. Ma è con il V secolo che si precisano alcuni punti: il vescovo non è solo tenuto ad assistere i pauperes, ma a costituire un fondo per l‘assistenza. San Gregorio Magno e successivi concili preciseranno ancora di più le modalità di tale assistenza. Il vescovo infatti – si dice espressamente – si dovrà preoccupare che vi siano letti disponibili e relativi accessori per accogliere gli ammalati e gli stranieri, e dovrà far prestare loro le cure e i medicamenti necessari[12].
Lo stesso anche in Oriente, ove si nota la cura costante della formazione medica e del sistema ospedaliero da parte delle due grandi forze motrici della realtà bizantina: lo Stato e la Chiesa. Il posto di rilievo occupato da quest’ultima nello sviluppo della pratica medica è da collegare alla svolta ideologica impressa dal cristianesimo. Il luogo in cui il medico bizantino svolge al meglio la sua attività e la sua deontologia è l’ospedale voluto dalla Chiesa e in seguito dallo Stato cristiano. Si è d’accordo per fissarne l’inizio convenzionale nel 370, quando san Basilio fonda vicino a Cesarea quella passata nella storia sotto il nome di Basiliade, una vera città che poteva accogliere anche malati cronici e altre persone in stato di disperazione[13].
Da qui fino ad oggi, il ministero della testimonianza cristiana ha proceduto di pari passo con quello della sollecitudine per gli infermi, storicizzando così anche una esigenza di evangelizzazione nelle istituzioni assistenziali.
[6] Tremblay R., “Ma io vi dico…” L’agire eccellente, specifico della morale cristiana, EDB, Bologna 2005
[7] Pagazzi G.C., C’è posto per tutti. Legami fraterni, paura, fede, Vita e Pensiero, Milano 2008, pp. 98-99
[10] St. Basil, The long rules, Sister Monica Wagner (trans), Catholic University of America Press, Washington, Dc 1962, pp.330-331