La medicina è un’arte anche in tempi di tecnologia, che è certo utilissima, ma va usata correttamente e messa a disposizione di tutti coloro che ne abbiano necessità. La tecnologia non può sostituire il rapporto medico-paziente, la visita medica e l’esperienza clinica forte. Il rischio è di contribuire ad un riduzionismo che ignora la persona come unità inscindibile di mente, corpo e spirito. Infatti, una valida antropologia curativa considera lo sconcerto umorale dell’organismo e il danno d’organo, ma anche la crisi spirituale e la sofferenza globale della persona.Ho maturato profondamente che il mio essere medico, il mio incontro con la persona malata, è nell’ambito non solo della salute psicofisica da recuperare, ma di un progetto di Salvezza che riguarda entrambi: medico e persona che chiede aiuto. Due persone che si incontrano in un momento particolare della vita…
Salute come armonia con se stessi, con gli altri, con Dio. È un obiettivo da realizzare. Le conseguenze operative non sono mai semplici. La nostra armonia ci consente di essere per la persona malata “ponti verso il trascendente”.
La professione medica in quanto tale è un dono reciproco di presenza e di speranza. E oggi è sempre più un lavoro di diverse persone che operano insieme. In modo particolare nella cura delle persone anziane ove diverse esperienze interagiscono e devono essere coordinate e basate su un unico progetto che consideri la singola irripetibile persona. Un errore di un operatore può vanificare il lavoro di tutti. La persona va “conosciuta dalla testa ai piedi e anche oltre”. Cioè, nella dimensione spirituale.
Superare competitività e lavorare in fraterna armonia, anche nelle divergenze, è essenziale per il miglior vantaggio della persona soggetto di cura e perché questa persona non divenga invece oggetto, trasferito da un’esperienza all’altra, spesso non comunicanti. Situazione ben diversa da un interagente lavoro di équipe. La persona malata non trova più riferimenti e può subentrare angoscia e sfiducia. La malattia può peggiorare malgrado la scienza.
È necessario considerare le radici della medicina nella spiritualità, altrimenti tutto è più difficile. E bisogna recuperare la salute degli stessi operatori sanitari, attraverso un continuo lavoro di riflessione e di purificazione personale: una particolare modalità dei gruppi Balint, che cercavano appunto un supporto reciproco degli operatori sanitari nell’affrontare la sofferenza e la morte. Un aiuto che può venire dalla preghiera, come dimostrano molti medici che pregano per i colleghi di lavoro e per i loro pazienti.
L’impegno per un armonico e saggio lavoro di gruppo deve essere più forte in tempi in cui sembra avere ragione T. Elliot, quando afferma che gli uomini «hanno abbandonato Dio non per nuovi dei, ma per usura, lussuria e potere».
Le stesse testimonianze sono ancora più importanti e contribuiscono a fare rimanere forte la Speranza.
Un mio ricordo particolare va all’esperienza in una Residenza per persone con disturbi psichiatrici e spesso anche non autosufficienti. Persone soprattutto anziane, ma non solo.
Ho incontrato con altri operatori sanitari, ciascuno con la propria esperienza professionale, il personale e i pazienti ospiti di questa Residenza sanitaria che, nata per iniziativa molto meritoria, nel tempo aveva perso di coerenza e di efficacia. Ho incontrato, quindi, un’intera struttura da riattivare e rianimare, come formazione, organizzazione del lavoro e metodologie di cura, e come vita delle persone ospitate.
Questo abbiamo cercato di fare, con umiltà e chiarezza di intenti, non senza difficoltà. E siamo stati compresi nello spirito con cui eravamo lì. Per solidarietà personale e istituzionale. Non per vantaggio materiale.
Ho vissuto incontri teorici e su concrete condizioni di malattia, con operatori che erano entusiasti di poter lavorare meglio, e incontri con singole persone malate, con cui spesso era molto difficile comunicare...
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