Abbiamo cercato di porci a servizio di questa missione, con tutti i limiti che ciascuno di noi aveva, ma con forte unità d’intenti. Possiamo dire: con fraterna alleanza. E questo venne ben compreso e portò migliori risultati nella formazione del personale e per i pazienti. Un lavoro di gruppo ci ha unito per molto tempo, sui fatti e sulle teorie verificate.
È stato molto bello vedere il personale di assistenza prima demotivato, crescere giorno per giorno in tecnica e umanità, traendo slancio da noi… E noi da loro. Fiducia reciproca ben fondata, sorgente di un buon operare.
È stato un dono per me, per la mia professione e per la mia vita spirituale. Spero di esserlo stato un poco io per loro. Ed è stato parimenti un dono e ha dato commozione poter realizzare quell’empatia che ha migliorato la qualità di vita di tante persone ospiti, con gravi problemi cognitivi, ma dotate sempre di sensibilità, a volte acuite.
«To care» nel senso più globale del termine. Bioetica nei fatti. Il limite come porta verso l’infinito. Ricordo bene quelle persone, nella loro vita quotidiana, e per loro ho continuato a pregare. Certo, mi sono chiesto che significato avesse l’essere giunto in quell’Istituto. Che significato avesse l’incontro con tante persone gravemente disturbate nella loro mente e nel loro fisico. Spesso sin dalla nascita. Persone spesso difficili. Persone che a volte vengono rifiutate o mal-trattate.
Mi è stata data la possibilità di prestare aiuto a molte vite, di operatori e di malati. Occasione di solidarietà, certo, ma non è stato solo questo: è stato un importante passo per un Progetto di Salvezza.
Vi sono stati strumenti professionali. Ho avuto modo di riconfermare la necessità di non ricorrere solo ai farmaci, ma soprattutto di conoscere le singole persone e usare una comunicazione, non solo verbale, adatta a ciascuna persona.
In questo modo infatti si possono prevenire o quanto meno mitigare anche comportamenti aggressivi, talora purtroppo repressi con altrettanta aggressività.
Uno dei momenti più belli e commoventi fu quando un giovane adulto disabile con problemi cognitivi sin dalla nascita, e che aveva comportamenti auto- ed etero aggressivi, dopo un graduale miglioramento, un mattino ci venne incontro sulla porta e abbracciò uno di noi, dicendo: «Gesù aiuta». Era il periodo seguente la Pasqua.
E da quel momento non ebbe più gravi manifestazioni di patologia comportamentale, rimase quasi sempre tranquillo e affettuoso, come appresi alcuni anni dopo. Soffriva e si inquietava solo se attorno vedeva disarmonia.
Non fu effetto dei farmaci, che pure venivano impiegati anche prima: fu il frutto di una metodologia di lavoro insieme, di un lavoro armonico e consapevole di quella irripetibile persona da parte di un’équipe di medici, infermieri, educatori e sacerdote, e di una migliore conoscenza del mondo delle sue emozioni. Quindi, di un più adeguato relazionarsi a lui, senza ripetere errori che prima erano stati catastrofici. Lavoro non facile e per qualche tempo rischioso. Quel giovane adulto, malgrado i problemi cognitivi sin dalla nascita, aveva emotivamente compreso che le persone attorno gli volevano bene. «To care» in cui domina l’amore per la persona “diversa”, con “limiti”, ma raggiungibile quando si adoperano mente e cuore. L’amore che non può essere disgiunto dalla tecnica e la rende più efficace e un vero dono. Amore la cui assenza è avvertita e porta a insuccessi anche quando pensiamo di essere tecnicamente al vertice.