Come le scienze orientate in senso chimico e molecolare hanno costituito il paradigma medico del XX secolo, così è stato proposto per il secolo XXI un paradigma medico centrato sulla relazione, che assuma in sé la prospettiva del paziente 1 Molto più che in passato, l’attenzione dei ricercatori è rivolta oggi alla relazione tra medico e paziente, considerata da alcuni il centro della Medicina stessa 2. Essa è oggetto di studio in tutte le sue fasi, dal colloquio anamnestico alla definizione della diagnosi, alla programmazione della terapia, al controllo nel tempo dell’evoluzione dell’evento morboso e dei suoi esiti. Lungo tutto questo percorso, si riconosce un ruolo rilevante all’empatia che il medico saprà trasmettere.
1. L’empatia
Che occorra tener conto dell’empatia nell’affrontare l’interazione con il paziente è un concetto ormai non più appannaggio di pochi cultori 3. Essa è stata definita come «la capacità di comprendere che cosa sta sperimentando un’altra persona dall’interno del suo sistema di riferimento: in altre parole, la capacità di mettersi nei panni dell’altro» 4. Questa immedesimazione con il paziente non dovrebbe giungere ad un coinvolgimento emotivo troppo intenso, che potrebbe disturbare l’obiettività necessaria all’esercizio dell’attività del medico e risultare per lui usurante. L’empatia, perciò, richiederebbe ad un tempo condivisione e un certo grado di distacco 5: sarebbe un «distacco pregno di partecipazione» 6.
Comprendere ciò che l’altro sente, porsi nella sua stessa prospettiva, però, non basta: occorre che il paziente avverta che il medico ha compiuto questo passo. La «capacità di comunicare questa comprensione» costituisce un elemento essenziale dell’empatia 7.
È stata suggerita una strategia in quattro tempi per costruire relazioni empatiche con i pazienti 8:
1) Stabilire il rapporto: esso dipende dal rispetto e dall’interesse reciproci, manifestati da entrambi gli interlocutori.
2) Far tacere dentro di sé commenti, critiche, domande e ragionamenti diagnostici mentre il paziente parla. Solo dopo sarà opportuno procedere a chiarire i punti oscuri del racconto e a verificare le ipotesi cliniche.
3) Mirare ad attingere i processi inconsci del paziente: ciò aiuterà a comprendere che cosa si cela dietro alle sue parole ed ai suoi silenzi ed a porre correttamente le domande volte a chiarire la diagnosi.
4) Comunicare al paziente che lo abbiamo capito e lo accettiamo incondizionatamente. È qui che il processo empatico raggiunge il suo culmine e può cominciare a stabilirsi un rapporto profondo.
Vorrei sottolineare, in particolare, il silenzio interiore necessario per fare spazio a ciò che il paziente intende comunicare di sé e della sua esperienza di malattia. Esso esige la fatica di “svuotarsi” temporaneamente, in certo senso, del nostro sapere medico, che potrebbe costituire un ingombro verso una comunicazione piena. Non si può penetrare nell’animo di un’altra persona, o – per meglio dire – far sì che l’altro, con il suo mondo esperienziale, abbia accesso alla nostra sfera cognitiva e – entro certi limiti – affettiva, se la nostra mente è occupata da nozioni, ipotesi e schemi. L’ascolto empatico richiede di essere liberi da ciò che abbiamo dentro, interiormente “poveri”: solo così si costruisce efficacemente un rapporto. È questa una regola di vita generale 9, pienamente applicabile anche alla nostra professione.
Le ricadute positive della condotta empatica sono molteplici: essa rende i pazienti più propensi a comunicare sintomi e problemi, facilitando la raccolta delle informazioni e, di conseguenza, pone le premesse per una diagnosi più accurata e una terapia migliore; aiuta il paziente a recuperare la propria autonomia e a partecipare alla terapia, aumentandone l’efficacia; apre la strada a interazioni che influenzano direttamente il recupero del paziente 10 e si rivelano terapeutiche anche per il medico, perché capaci di rispondere all’esigenza basilare, presente in tutti noi in quanto uomini, di rapporti e di esperienze che diano significato alla vita 11. Inoltre, esse rendono più accettabile l’incertezza clinica, caratteristica dell’esercizio della Medicina, e le situazioni in cui la risposta biomedica è insufficiente 12.
2. Costruire la storia clinica
Il rapporto tra paziente e medico si stabilisce, in genere, intorno all’evento-malattia, che è ovviamente inquadrato secondo prospettive diverse da parte dell’uno e dell’altro. Certamente il modo di comunicare dei pazienti non è sempre ottimale: in uno studio eseguito su persone anziane è stato dimostrato che se esse sono istruite a comunicare meglio, il numero di informazioni per unità di tempo aumenta significativamente 13, e ciò potrebbe migliorare anche gli esiti clinici. Tuttavia, avviene spesso che nel raccogliere l’anamnesi sia il medico a trascurare la prospettiva del paziente e ad adottare un approccio prevalentemente “euristico”, mirato ad identificare in ciò che ascolta segni e sintomi che gli consentano di inquadrare il caso secondo criteri classificativi prestabiliti 14. Un tale paradigma comunicativo, se è appropriato per la trasmissione di informazioni scientifiche, non lo è per il colloquio anamnestico, nel quale occorre fare spazio al paziente e mettere insieme i brani di storia, spesso interrotti e qualche volta contraddittori, che egli racconta. Questo approccio “narrativo” 15 consente di cogliere elementi altrimenti inespressi 16, spesso cruciali per la diagnosi, apprezzabili solo tenendo conto della prospettiva dalla quale il paziente vive la propria condizione. In uno studio realizzato in ambulatori di Medicina Generale, infatti, è stato osservato che il 54% dei problemi e il 45% delle preoccupazioni dei pazienti non erano rivelati durante la visita, né i medici sollecitavano la loro emersione 17.
Quando si narra la propria storia, si è influenzati dall’ascoltatore: l’attenzione e la risposta di quest’ultimo, espressa attraverso la mimica e i gesti, modificano la modalità e il contenuto della narrazione. Non si può raccontare due volte una storia esattamente allo stesso modo. Contemporaneamente, chi ascolta interpreta il racconto secondo il suo patrimonio di esperienza e reagisce di conseguenza 18: il ponte tra narratore e ascoltatore è percorso più volte da un traffico bidirezionale di messaggi. Il medico che ascolta il paziente, viaggiando avanti e indietro attraverso questo ponte, raccoglie la storia del malessere concreto del paziente, la informa delle proprie nozioni scientifiche, la reinterpreta alla luce di esse e infine la restituisce al paziente come ipotesi diagnostica, espressa in forma di storia clinica 19. Si parla, perciò, di costruire la storia clinica, piuttosto che raccoglierla, poiché essa risulta opera di entrambi gli attori, i quali vi contribuiscono ciascuno con le sue specificità, esperienziali da un lato e tecniche dall’altro 14.
Ecco definiti, allora, i tre obiettivi del colloquio: non solo raccogliere le informazioni necessarie, ma anche costruire il rapporto attraverso un ascolto empatico 4 e fornire al paziente le nozioni utili a gestire il suo problema 20.
Questa operazione, naturalmente, richiede del tempo, che spesso, nelle nostre ordinarie condizioni di lavoro, scarseggia, o noi stessi non siamo disposti a concedere. Intervistando 617 pazienti affette da carcinoma della mammella, è stato recentemente evidenziato che la durata media della visita nella quale veniva comunicata la diagnosi era di soli 15 minuti; alla domanda su quale aspetto dell’assistenza suggerissero di migliorare, il 51% delle pazienti ha risposto che i medici dovrebbero dedicare più tempo a fornire spiegazioni 21. In altri studi è stato osservato, esaminando registrazioni di colloqui clinici, che il paziente viene interrotto dopo appena 18 22 o 23 secondi in media 16. Tuttavia, se viene lasciato parlare, egli richiede soltanto 29 secondi di tempo 16,23. Se è probabile che questo dato risenta di fattori culturali e sarebbe risultato forse diverso in altri ambienti, rimane vero che è notevole il vantaggio di incoraggiare il paziente ad esprimere il contesto psicosociale nel quale i suoi sintomi sono inseriti 24. È stato dimostrato che, dopo visite più lunghe, è più probabile che il paziente risponda affermativamente alla domanda se sia ora in grado di affrontare la vita e la sua malattia, comprenderla, mantenersi in salute, e se sia fiducioso riguardo al proprio stato 25.
3. Esiti terapeutici del rapporto medico-paziente
Un rapporto correttamente ed efficacemente impostato nel colloquio anamnestico è la premessa migliore per giungere all’alleanza terapeutica, cioè al coinvolgimento del paziente (ed eventualmente della sua famiglia) nel raggiungimento di obiettivi condivisi. Cercare di stabilire un rapporto qualitativamente valido in vista di tale alleanza comporta dei costi professionali: occorre impegnarsi più a fondo con ciascun paziente, studiare per acquisire le abilità necessarie, dedicare a ciò tempo ed energie. Ci si può chiedere se ne valga la pena, se tutto ciò produca un vantaggio in termini di risultati terapeutici.
Come per tutta la letteratura riguardante il rapporto medico-paziente, anche gli effetti pratici dell’alleanza terapeutica sono stati molto studiati in ambito psichiatrico 26,27. Tuttavia, il coinvolgimento del paziente nella terapia è sempre più considerato importante anche in ambito internistico, come ad esempio nel controllo dei fattori di rischio cardiovascolare. Prestigiose linee-guida dedicano attenzione all’argomento. Il settimo rapporto del Joint National Committee statunitense sulla prevenzione, la diagnosi e il trattamento dell’ipertensione arteriosa (JNC7) ne sottolinea il ruolo nella sezione dedicata al miglioramento dell’aderenza alla terapia. Gli autori partono dalla considerazione che anche la terapia più efficace, prescritta dal miglior medico, può produrre i suoi effetti solo se il paziente è motivato a seguire le prescrizioni in termini di assunzione di farmaci e di adeguamento delle abitudini di vita. La motivazione migliora se il paziente nutre fiducia nel proprio medico e fa un’esperienza positiva del rapporto con lui: l’empatia «costruisce la fiducia ed è un potente elemento di motivazione». Gli autori forniscono alcuni suggerimenti pratici in questo senso, come quello di valutare la comprensione e l’accettazione della diagnosi e di discutere con il paziente le sue preoccupazioni 28.
Nello Studio ICON ci siamo proposti di valutare l’efficacia di un approccio basato sul rapporto empatico nella riduzione del rischio cardiovascolare del paziente anziano. Sia l’età avanzata, sia il basso livello socioculturale sono fattori notoriamente associati ad una scarsa adesione alla terapia. I 503 pazienti studiati, afferenti a due ambulatori di Medicina Interna del Sevizio sanitario nazionale situati in rioni popolari della città di Napoli, avevano un’età maggiore di 60 anni e un basso livello d’istruzione e di qualificazione lavorativa. Essi presentavano un profilo di elevato rischio cardiovascolare, con una notevole prevalenza di obesità, ipertensione arteriosa, dislipidemia e diabete mellito, di cui erano scarsamente consapevoli. Sono state adottate le misure suggerite dal JNC7 per fornire ai pazienti un rinforzo empatico. In particolare: è stato dimostrato interesse per le loro necessità e preoccupazioni; i progressi compiuti in termini di modifiche delle abitudini di vita e i miglioramenti clinici ottenuti sono stati sottolineati in maniera gratificante; in caso di scarsa risposta terapeutica, gli appuntamenti sono stati ravvicinati; è stato verificato che le indicazioni date venissero comprese adeguatamente; le problematiche incontrate nell’aderire alle misure farmacologiche e non farmacologiche sono state ripetutamente esaminate; le indicazioni riguardanti la dieta e le abitudini di vita sono state rinforzate ad ogni visita, suggerendo rimedi per superare le difficoltà. Soprattutto, si è cercato di praticare l’ascolto empatico, secondo i principi enunciati sopra. Ciò ha condotto alla diagnosi di numerose condizioni di rischio cardiovascolare misconosciute e al miglioramento significativo del profilo di rischio. Nel corso del periodo di osservazione, infatti, il numero dei pazienti in sovrappeso il cui peso corporeo si trovava al di sotto della soglia dell’obesità è aumentato del 22%; quello dei dislipidemici con colesterolemia ricondotta entro i parametri di riferimento è migliorato del 151%; quello degli ipertesi con pressione arteriosa ben controllata è aumentato del 185%. Tutte queste variazioni sono risultate statisticamente significative 29.
Un altro campo nel quale il ruolo dell’interazione tra medico e paziente è stato recentemente esplorato è quello delle malattie infettive gravi. In diversi studi è stata valutata l’influenza della relazione medico-paziente sull’aderenza alla terapia antiretrovirale di persone infette con il virus HIV. In uno di essi, è stato valutato quanto il sentirsi “considerati come persone” dal proprio medico aiutasse questi pazienti a seguire la terapia. Dei 1.743 pazienti intervistati, coloro che si sentivano considerati come persone avevano una maggiore probabilità di ricevere la terapia antiretrovirale, di aderirvi e di avere livelli serici non misurabili di RNA virale. Tali differenze conservavano la significatività statistica anche controllando la correlazione per diverse covariate, come l’età, il sesso, l’origine etnica, la durata del periodo di osservazione, il consumo di alcol e di droghe 30.
L’aderenza alla terapia può essere influenzata anche da elementi culturali. Molti dei pazienti tubercolotici visitati presso l’Ospedale di Taung, in Sudafrica, interrompevano precocemente le cure intraprese, principalmente a causa di credenze superstiziose circa la natura della malattia e per l’opinione che non fosse utile proseguire il trattamento dopo l’iniziale miglioramento dei sintomi. È stata introdotta, allora, una cartella clinica recante, accanto ai dati clinico-anamnestici, notizie sulla situazione emozionale dell’ammalato e sul contesto socio-familiare. La terapia era concordata con i pazienti e per ciascuno di loro veniva individuata una figura di riferimento, scelta tra familiari e conoscenti, che lo sostenesse nel corso della cura. Venti mesi dopo l’inizio di questo nuovo approccio terapeutico, la quota di coloro che interrompevano la terapia precocemente era diminuita dall’11,6% al 2,9%. Le linee-guida nazionali del Sudafrica per la cura della tubercolosi dell’anno 2000 hanno adottato alcune delle misure elaborate nell’Ospedale di Taung 31.
Come si può comprendere da questi brevi accenni, gli elementi della comunicazione presi in esame e gli esiti clinici valutati nei diversi studi sono molto vari. Per tale motivo, non è stato finora possibile elaborare una metanalisi formale quantitativa dei lavori pubblicati. Tuttavia, una revisione sistematica della letteratura 17 ha evidenziato che la maggior parte degli studi dimostra una correlazione significativa tra comunicazione efficiente e miglioramento degli esiti clinici. Dei 21 articoli (11 dei quali riguardanti confronti clinici randomizzati) che soddisfacevano i criteri prestabiliti per l’inclusione nell’analisi, 16 riportavano risultati positivi. Sia la qualità della comunicazione, sia la discussione del piano di gestione della malattia risultavano influire sulla salute del paziente in termini di stato emozionale, risoluzione dei sintomi, funzionalità, controllo del dolore, misure fisiologiche come pressione arteriosa e glicemia.
In un’altra revisione sistematica 32 sono stati presi in esame 25 studi, tutti confronti clinici randomizzati. Circa la metà mostrava variazioni statisticamente significative, in senso positivo, degli esiti clinici considerati. Laddove i medici adottavano uno stile caldo e amichevole di relazione con i pazienti, rassicurandoli circa le loro prospettive di salute, si ottenevano i risultati migliori.
Certamente queste revisioni della letteratura sono passibili di errore, perché non tengono conto degli studi non pubblicati, i quali con maggiore probabilità di altri hanno esito negativo. Tuttavia, sembra potersi ragionevolmente concludere che, sebbene manchi un’evidenza estesa e inoppugnabile dell’efficacia clinica del rapporto medico-paziente, i dati in questo senso sono abbastanza coerenti.
4. Conclusioni
L’aforisma secondo il quale «non esiste la malattia, ma il malato» esprime una realtà evidente, poiché ciascuno fa un’esperienza unica dello “star male”. Analogamente, un animale o una pianta non sono mai identici ad un altro individuo della stessa specie; tuttavia nessuno di noi, per il fatto di non trovare una rosa uguale all’altra, negherebbe la validità della tassonomia botanica. Per assicurargli gli indubbi, enormi benefici della Medicina moderna, è nostro dovere di medici estrarre dalla narrazione del paziente ciò che lo accomuna agli altri, inquadrandolo come “caso clinico”; tuttavia, se facciamo solo questo, lo disumanizziamo, non lo trattiamo come persona e, invece di aiutarlo, possiamo in realtà aumentare la sua sofferenza 33. Nostro compito è apprezzare l’unicità e l’irripetibilità della persona che ci sta di fronte 34, senza spostare il fuoco dell’indagine clinica dagli aspetti ripetibili e biologici della malattia.
Unicità e riproducibilità: due poli apparentemente opposti, ma integrabili da un rapporto correttamente impostato tra curante e paziente. Sono i due poli tra i quali si muove la Medicina: disciplina singolare, a cavallo tra le Scienze umane e quelle positive 15, perché più di ogni altra ha a che fare contemporaneamente con il mondo fisico e con quelli psicologico, sociale e spirituale. Chi la esercita deve necessariamente usare il rigore logico del metodo matematico-statistico e la duttilità, la capacità d’introspezione e d’immedesimazione che solo le scienze umane ed una profonda interiorità aiutano a sviluppare.
A contatto col paziente, noi medici svolgiamo un’operazione ermeneutica 35, integrando la nostra personale esperienza clinica e la nostra sensibilità umana con la più solida evidenza scientifica disponibile 36. La Medicina si rivela, così, contemporaneamente una Scienza e un’Arte 37. Qui, forse, risiede il fascino di una professione che sempre più si va confermando essere pienamente se stessa solo se orientata all’uomo.
di TEODORO MAROTTA
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Ringrazio Andrea Virdis per la collaborazione alla ricerca bibliografica.
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