Pratica medica, comunicazione e qualità di vitaTenendo conto delle condizioni reali delle situazioni (economiche, culturali, umane, ecc), si può certamente identificare una visione ideale-realistica della cura, in cui la comunicazione gioca un ruolo immenso. Si può altresì affermare che in fondo, al cuore dell’etica biomedica, c’è un’etica della comunicazione che rende a ciascuno un po’ della sua identità, della sua umanità, una dignità che è qualità della vita personale. Che cosa vi può essere di più alto e più concreto?

La mia tesi generale è questa: oggi la comunicazione non è più un elemento facoltativo della relazione medica, ma una sua condizione intrinseca, necessaria, etica e legale, e anche un elemento importante per la qualità di vita di tutti i suoi attori.


1. Una filosofia della cura

Per capire come la comunicazione migliori la qualità della pratica medica, bisogna considerare il contesto globale della cura e sostenere con Paul Ricoeur che la cura medica poggia sempre su tre tipi di partner: la preoccupazione di sé, la preoccupazione per l’altro e la preoccupazione per gli altri. Senza entrare nei dettagli, possiamo dire che l’attenzione a sé comprende il rispetto dei propri valori personali, del senso della propria vita – così il rispetto che ha il medico per la sua vita di medico… Per quanto riguarda la preoccupazione per l’altro, il paziente è naturalmente il soggetto-oggetto della cura e il medico deve avere un’autentica sollecitudine per lui, senza dimenticare però che ci sono sempre gli altri che si aspettano la giustizia, l’assegnazione a ciascuno di ciò che ha bisogno: nel modello di Levinas, è qui il posto del terzo che equilibra l’attenzione dovuta all’altro. Chi sono questi altri? Sono i parenti del paziente, la sua famiglia, ma anche gli altri ammalati nel servizio, nella comunità. La comunicazione deve avvenire fra tutti loro.


2. La qualità della vita

Con una definizione di tipo negativo la qualità della vita professionale è l’assenza del burn-out, della fatica patologica. Positivamente, è un benessere, un sentimento di fare ciò che si deve, con una vera capacità di essere e di sapere, dunque di fare bene. Per il paziente, la qualità della vita è parzialmente il risultato della tecnica medica ben applicata – sia terapeutica, sia sintomatica o palliativa. Oltre questa dimensione tecnica, è fondamentale il sentimento di capire almeno un po’ ciò che succede, la possibilità di parlarne o di non parlare, ma in un silenzio empatico non indifferente.
Possiamo pensare che la qualità della vita dell’uno dipende dalla qualità di vita dell’altro: tutti i partner implicati sono intimamente coinvolti in un destino, forse effimero, ma realmente comune.


3. Come definire i parametri di questa qualità?

Non si può opporre semplicemente qualità e quantità. Per cogliere la qualità, dobbiamo riconoscere gli elementi quantitativi (la durata oggettiva di un’operazione, per esempio, o di un soggiorno in ospedale) e allo stesso modo gli aspetti qualitativi (la capacità di empatia, per esempio, la sensazione di ricevere risposte alle proprie domande). Si deve considerare la qualità come un livello di soddisfazione dei beneficiari e dei professionisti, che si esprime in un giudizio di valore. Certo, viviamo in una cultura della valutazione in tutti i campi e possiamo utilizzare diversi strumenti di analisi. Dobbiamo anche riconoscere che la soddisfazione degli attori medici non è chiara: c’è tanta inquietudine dei poteri sussidiari e una vera perplessità dei professionisti.
Basterà un solo esempio. Diversi studi hanno analizzato la relazione tra organizzazione, soddisfazione professionale e relazione degli infermieri con l’organizzazione. Quando si domanda perché gli infermieri abbandonano il lavoro, si vede che intervengono diversi parametri. È lo stile manageriale che è importante: bisogna chiarificare i ruoli, valorizzare le iniziative…, ma ci sono naturalmente anche gli elementi materiali: salario, sistema di promozioni... Poi, gli elementi fondamentali dell’autonomia vissuta, della responsabilità individuale, della possibilità di lavorare insieme…
Si può così definire un tipo di impegno del personale nell’organizzazione, più o meno affettivo, più o meno fedele.


4. Pratica medica odierna e comunicazione

Che cos’è una buona pratica medica oggi? Oltre il saper-fare tecnico-scientifico, è necessario un saper-essere umano, una nuova competenza comunicativa. C’è una nuova pressione nel campo della pratica medica, accanto agli obblighi dei mezzi e del risultato: è l’obbligo della comunicazione. Più che mai, la legge dei diritti del paziente conferma un diritto all’informazione appropriata, e questo corrisponde al contesto culturale delle cure di oggi.
La democratizzazione ha un ruolo positivo importante nel nostro campo: implica la gestione condivisa dei problemi, il rispetto della pluralità dei punti di vista, dei percorsi individuali e richiede una deliberazione collegiale prima di ogni scelta medica importante; riconosce l’autonomia che vuole decidere con cognizione di causa, il che implica una buona informazione e il rispetto dei progetti individuali (e dunque una certa relativizzazione delle norme generali). Vi è infine anche una dimensione giuridica che non posso sviluppare qui.
Con vari autori, possiamo distinguere tre modelli della relazione medica: la relazione tradizionale, detta paternalistica; il tipo informativo, moderno e giuridicamente corretto, ma sembra non sviluppare la deliberazione comune; un terzo modello, detto deliberativo, suppone l’informazione adeguata e la negoziazione. Osserviamo come si configura la responsabilità in questi tipi di relazione: solo nella relazione deliberativa, dove c’è vera comunicazione, la responsabilità è condivisa e specificata. Se avessimo tempo, potremmo rileggere i principi generali dell’etica biomedica – sono ben conosciuti – e dovremmo analizzare la vulnerabilità sistematica del paziente in questa situazione che condiziona il modo di informazione e di decisione. Certamente si deve identificare cosa vuole veramente il paziente e cosa può fare il medico; si deve negoziare il rapporto fini/mezzi, per evitare l’accanimento diagnostico o terapeutico, ma anche al contrario, l’abbandono. In questo clima di fiducia, si può identificare giustamente e più precisamente la situazione del paziente e dei familiari, e capire così ciò che si deve dire o non dire: la verità buona da dirsi, ricordando che il paziente ha, dal punto di vista legale, il diritto di non sapere… Le convinzioni personali trovano il loro posto e il loro linguaggio: in particolare l’incertezza assunta e non dissimulata. La qualità vissuta dall’utente trova il suo contenuto: efficacia e continuità della cura, sicurezza massimale, disponibilità, equità, comunicazione… La qualità vissuta dal professionista trova il suo contenuto specifico: autonomia, riconoscimento dei ruoli, feedback, comunicazione…


5. Conclusione

Tenendo conto delle condizioni reali delle situazioni (economiche, culturali, umane, ecc), si può certamente identificare una visione ideale-realistica della cura, in cui la comunicazione gioca un ruolo immenso. Si può altresì affermare che in fondo, al cuore dell’etica biomedica, c’è un’etica della comunicazione che rende a ciascuno un po’ della sua identità, della sua umanità, una dignità che è qualità della vita personale. Che cosa vi può essere di più alto e più concreto?

di MICHEL DUPUIS

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