Mi piacerebbe scrivere che ho sognato fin da bambino di fare il medico. In realtà sono diventato medico per caso.Ricordo ancora il giorno in cui mi recai a salutare la signora Angelina Freda Padrone, preside del liceo di Larino, dopo aver superato gli esami di maturità, e la signora mi chiese quale fosse la mia scelta per il futuro. Non avevo una scelta. Legge, ingegneria, medicina forse…
La preside in un primo momento ipotizzò un concorso per accedere alla Scuola Normale di Pisa, poi aprì l’ultimo cassetto della scrivania estraendone una lettera «ricevuta il giorno prima» dall’Università Cattolica del S. Cuore di Roma, Facoltà di Medicina e Chirurgia, in cui si illustravano le potenzialità della Facoltà recentemente istituita e la possibilità per gli studenti di alloggiare nel Collegio Joanneum nel campus della facoltà stessa. La vista delle palme e del prato, davanti alla chiesa centrale, presenti nella foto sul depliant, mi colpirono subito e decisi che quello era il luogo dove volevo studiare!
Altrettanto casuale fu la scelta della specializzazione.
Alla fine degli anni sessanta mio padre, che si era molto appassionato al dibattito sulla fecondazione assistita pubblicato su «Civiltà Cattolica», mi suggerì la specializzazione in Ostetricia e Ginecologia. Accettai il consiglio.
Ripensando alla mia vita da bambino, mi tornano in mente i pomeriggi in cui la patriarcale famiglia dei miei nonni si riuniva per recitare il Rosario, e una vecchia zia di mio padre che viveva in famiglia mi raccontava della vita di santi e beati quali Giovanni Bosco, Domenico Savio, Maria Goretti, Gemma Galgani, e mio nonno delle opere e dei rischi dei padri comboniani missionari in Africa.
Sono grato a loro per le mie radici.
La mia vita di medico che al primo posto ha sempre messo l’onestà nel rapporto con il malato, e l’obiettivo di lavorare al massimo delle proprie possibilità, è scorsa per anni nella più assoluta normalità.
Ad un certo punto sono diventato primario e mi sono reso conto di quanto il mio ruolo fosse importante per le pazienti: quello che dicevo e il modo in cui lo dicevo potevano radicalmente modificare le aspettative nonché le ansie e le paure delle pazienti stesse. Ho anche riflettuto sul fatto che il malato è una persona resa fragile dalla malattia e che lo diventa ancora di più fuori del suo ambiente domestico, in un ospedale che non conosce, circondato da persone che non gli sono familiari, e con un ritmo di vita che sconvolge le sue abitudini.
E così ho scoperto quanto fosse bello stringere la mano di una paziente per rassicurarla o appoggiarle una mano sulla spalla per farle sentire di non essere sola e parlarle in modo da non farle mai perdere la speranza sull’esistenza di una soluzione ai suoi problemi.
Mi sono anche reso conto di quanto fosse a volte distratto il rapporto del medico con il paziente e con i suoi familiari che lo conoscono meglio del medico stesso. Ho constatato che spesso il medico dà per scontato che il paziente abbia capito quello che il medico gli ha detto e mi sono ricordato che nessuno dei miei professori si era mai soffermato sull’argomento “come parlare con il malato”. Ho cercato quindi di fornire ai miei collaboratori gli elementi indispensabili con l’esempio e con strumenti di uso quotidiano quali il “consenso informato” che fosse il più possibile semplice e comprensibile. Ho cercato di far capire a tutti come il momento del “consenso informato” all’atto medico, non fosse solo un modo per evitare complicazioni di tipo medico legale, ma anche un insostituibile momento di conoscenza del paziente da parte del medico.
Un altro momento di riflessione è stata l’esperienza rappresentata dal progetto “Imparare dall’errore: la sicurezza nella pratica medica e assistenziale” condotta dalla mia Unità Operativa in collaborazione con il Tribunale dei Diritti del Malato. Si è trattato di un’esperienza durata più di un anno durante il quale si sono raccolti tutti gli errori commessi o i “quasi errore” al fine di non sbagliare più o sbagliare di meno.
Questa esperienza ha richiesto innanzi tutto una grande umiltà nel riconoscere che si può sbagliare anche quando l’impegno nel lavoro è massimo; un grande coraggio nel superare la naturale ritrosia e le paure legate alla necessità di confessare pubblicamente l’errore e un grande atto d’amore nei confronti dei malati per l’obiettivo finale che era quello di non commettere più gli stessi errori. L’esperienza quotidiana e il contenzioso sempre più diffuso tra paziente e medico potrebbero ingenerare pessimismo nel medico sulla possibilità che si possa tornare indietro. Ma cosa avevano i vecchi medici di famiglia che noi medici di oggi non abbiamo più?
Era forse quella umanità nei rapporti che il mondo di oggi pare aver dimenticato?
Il malato, se ascoltato attentamente, può essere un prezioso alleato del medico nell’aiutarlo a capire le sue problematiche e curarlo meglio!
Ho capito quanto sia prezioso stare ad ascoltare il malato e i suoi parenti che meglio di me lo conoscono e sanno, quindi, rilevare i cambiamenti anche minimi del suo aspetto o delle sue abitudini o delle sue condizioni mentali o di umore.
La comunicazione tra medico e paziente costituisce uno dei sistemi più efficaci di controllo dell’errore. Si sbaglia meno se si ascolta tanto il paziente!
Ma alla base di tutto c’è l’amore per il proprio lavoro e soprattutto per il malato!
di PIERLUIGI PAPARELLA
La relazione:l'essenza dell'arte medica
i medici si raccontano