Di fratellanza. Il nostro mondo, così teso in modo cieco e sfrenato al profitto e allo sfruttamento degli uomini da parte di altri uomini, ha diffusamente e progressivamente eroso l’affermazione di Chiara Lubich, ovvero il concetto e il sentimento del dono, dell’amore, soprattutto per quanto riguarda i bambini, che sono gli individui ai quali ho fino ad oggi dedicato tutta la mia vita professionale, e non solo.
Seppure l’indifferenza, ovvero la negazione del donarsi, non riguardi necessariamente tutti gli uomini, essa ha sempre coinvolto e coinvolge una larga parte di essi, tanto che, nel corso dei secoli, numerose testimonianze di personaggi illustri hanno spesso fatto indirettamente riferimento all’erosione del concetto di amore, che è contenuto nella frase che sollecita questa mia personale riflessione.
Albert Einstein pensava che «non ci saranno grandi scoperte e grandi progressi fino a quando ci sarà un bambino infelice sulla terra» alludendo ai bambini degni destinatari dei doni più grandi.
Madre Teresa di Calcutta, alludendo anche al modo di donarsi, diceva che «la gioia è una rete con cui puoi catturare tutti».
Lev N. Tolstoj, con la sua affermazione che «non c’è che un modo per essere felici: vivere per gli altri», toccava l’apice del senso del donarsi.
E prima di tutti, Gesù stesso aveva indicato che «chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio accoglie me», creando una mirabile sintesi tra l’amore insito nel donarsi e nell’accogliere gli altri, come dono, e il dono dell’innocenza e della purezza che da tale atto può pervenire a noi stessi.
Se domandassimo indiscriminatamente oggi chi si rende conto di essere dono a chi gli sta vicino e viceversa, faremmo fatica ad avere risposte sensate e la nostra domanda potrebbe addirittura risultare stravagante e incomprensibile per molti.
Analogamente, se domandassimo che cosa rappresenta oggi la fratellanza: se un valore culturale, etico, diffuso, solido, vitale...
Gli esempi della vita di tutti i giorni sembrano parlare nel senso di negazione diffusa di tutto ciò, in quanto la perdita dei valori, umani soprattutto, ha reso la nostra indifferenza talmente grande che spesso non ci rendiamo più conto di avere vicino degli esseri umani, dei fratelli.
Siamo indifferenti a noi stessi e verso gli altri, assuefatti dall’impotenza di mutare i rapporti, le nostre interrelazioni umane, ma anche il nostro rapporto con il creato, con la natura, le piante, gli animali. Siamo così inconsapevoli del senso del dono ricevuto con la vita e di essere parte del creato, che tutto è oggettivato, materializzato e lo si guarda solo perché può e deve essere usato, consumato, sfruttato per l’appunto: tutto è materia, destinata a usurarsi, finire e scomparire senza lasciare alcuna traccia di sé.
Al contrario, quanti di noi hanno la possibilità di vivere esperienze umane o professionali in mezzo agli altri, specie in mezzo a coloro che sono veramente poveri e privi di tutto, è facile che si rendano conto di avere tutto, di possedere oltre il bisogno, ma di essere privi dell’essenziale. Orbene, questo è il segnale della nostra povertà, perché è la mancanza del senso del donarsi che ci rende poveri dell’essenziale, anche se apparentemente ricchi anche del futile.
Questa visione pessimistica, ma realistica, può essere rotta dal fatto che, per nostra fortuna, il senso del dono di sé o degli altri, da offrire o da ricevere, può prorompere in ogni momento e in ogni animo ogniqualvolta ci diamo la possibilità di ascoltare il mondo, gli altri, di aprirci al mondo, quando ci mescoliamo ai nostri simili, quando guardiamo agli altri uomini come fratelli: è la rivelazione. Allora, esiste una qualche magia in tutto questo, che a volte vogliamo misconoscere per paura, che ci neghiamo per egoismo e indifferenza, oppure dentro di noi arde comunque, anche se assopito, il fuoco del dono, che non si spegnerà mai? È qualche cosa di divino, che fa pensare alle parole «a sua immagine e somiglianza», ma anche, laicamente, che «nati non foste a viver come bruti, ma per seguire virtute e canoscenza». Ecco allora ricorrere le mie domande iniziali: siamo condannati a vivere come “bruti”, come esseri insensibili e indifferenti, ovvero a seguire la virtù e la conoscenza?
Il senso del dono, credo, è molto impregnato di virtù e di conoscenza, di sapere, di sapere fare, ma anche di sapere essere, e dunque di comunicare, di interpretare, di condividere, di offrirsi, di fraternizzare. Sapere, sapere fare, sapere essere sono tappe impegnative di una vita, il programma ponderoso di una professione che costantemente si rinnova e si arricchisce per poterci dare, donare alla cura dei malati. È questo che ha portato alcuni di noi a scegliere di lavorare per la cura dei bambini, dei bambini più gravemente ammalati, quelli colpiti dal tumore.
La conseguente interrelazione con questo spaccato di sofferenza non è stata determinante solo per la mia formazione professionale, ma è stata prima di tutto determinante per la mia fede. Come poter comprendere il senso, un senso, del disegno divino vedendo malattie così gravi e sofferenze così atroci in piccoli esseri innocenti, fino alla possibilità di perdere la vita? Come potere dare conforto al pianto dei genitori che parimenti si interrogavano su questo incomprensibile assurdo, più negazione dell’inconsistenza e dell’inesistenza divina che prova del suo contrario? Quali misteri celavano questi eventi ai miei occhi e agli occhi dei genitori di questi bambini? La risposta veniva dalla Croce, mistero nel mistero, dal Figlio del Creatore messo sulla croce per la salvezza degli uomini. Allora, la prova del proprio figlio sulla croce della malattia serve anch’essa per dare senso alla nostra esistenza e per la nostra salvezza, per donarci nel lottare per ottenere la guarigione, per alleviare la sofferenza, per ridare la gioia, per dare e ricevere un sorriso, per dare e ricevere una carezza, per esserci e stare accanto anche nel momento in cui la vita fugge. Dunque, una vita professionale, la mia, che mi ha concesso enormi privilegi sul piano umano, professionale, esistenziale: quale professione migliore avrei mai potuto scegliere per consolidare in me il concetto di essere creati come dono e per vivere come dono coloro che mi sono stati accanto e hanno riempito ogni giorno la mia vita di medico, contribuendo a restituire questo dono prezioso e unico, i propri figli ai loro genitori, una volta curati?
Questa interrelazione professionale ha dato anche certezza, sicurezza, trasparenza, coraggio e onestà intellettuale al mio lavoro, per gli innumerevoli esempi che mi è stato dato modo di percepire e osservare di non essere mai solo nel prendere le decisioni, specie le più difficili: Gesù, la Madonna, Dio mi sono sempre stati accanto, accanto a me e ai bambini che ho avuto in cura, cose che ho testimoniato anche ai genitori, affinché la forza della fede potesse raggiungerli, illuminarli, incoraggiarli e aiutarli. Tutti noi, dopotutto, siamo solo strumenti della divina provvidenza, capaci di fare cenni, riferimenti, dire tante parole, indicare esami, prescrivere o sospendere terapie, controllare che tutto sia fatto bene, in modo rigoroso, corretto, di donarci, per l’appunto, affinché si compia ciò che è scritto. Donare se stessi e la propria professionalità è anche un modo per sfuggire a superbia, arroganza, immodestia e al senso di paranoica onnipotenza alla quale i successi professionali ti possono portare.
Albert Einstein diceva che «non sono i frutti della ricerca scientifica che elevano un uomo e arricchiscono la sua natura, ma la necessità di capire e il lavoro intellettuale». Ebbene, la mia vita, il mio lavoro, il donarmi ai bambini ammalati e il ricevere tutti loro come dono hanno mosso costantemente la mia mente e la mia necessità di capire la scienza e la fede. Forse questo è il privilegio del nostro lavoro di pediatri oncologi: di potere avere tutto e di intravedere anche come poter attingere all’essenziale. Di tutto ciò non si può non essere grati a tutti quelli che ho incontrato e che hanno fatto parte della mia vita, cercando di gioirne il più possibile, fino a quando ciò sarà concesso.
L’efficacia dell’arte di relazionarsi sembra essere talora un’abilità posseduta fino dalla nascita, che ciascuno possa possedere in misura variabile, apparentemente impossibile da apprendere e di cui è difficile rendersene conto. Come fare per riconoscere chi sa relazionarsi, come misurarla, come rendersi conto di possederla o meno? E inoltre, è qualcosa che deve riguardare il singolo individuo (relazione interpersonale) o è qualcosa che si arricchisce e si potenzia quando riguarda più persone (équipe multidisciplinare)? La mia sensazione è che arte di relazionarsi e senso del dono di sé siano valori umani intrinseci simili, molto vicini tra loro, verosimilmente frutti vicendevoli uno dell’altra, dove apprendere “l’arte del relazionarsi” è credere nei frutti del dono di sé e viceversa, dove l’una non può esistere senza l’altro e viceversa. Il dono è una buona ragione, quantomeno un valido strumento, per creare e favorire una buona relazione, una buona relazione è lo scambio del donarsi, la reciprocità e la percezione del dono. La strategia da seguire, allora, può diventare molto semplice e naturale: è la fraternità, è la luce che ne deriva sul piano individuale, è il voler essere tutti insieme tesi, coesi a realizzare obiettivi comuni sul piano dell’equipe sanitaria che si pone dinnanzi al malato e a chi soffre.
L’arte di relazionarsi, nella mia esperienza, è anche e molto ciò che i malati percepiscono o sono in grado di percepire del nostro agire e stare accanto, perché non c’è dono che possa avere senso e effetto se non siamo in grado di farlo percepire come tale per quanto riguarda il nostro agire sia individuale sia come équipe sanitaria. È un po’ come dire che il donarsi è di per sé un atto fraterno, che chiunque può pensare di compiere, ma che, in quanto inconsapevole, può restare inutile e negarsi: esso si realizza, la relazione si crea, acquista senso e valore e genera effetti solo se viene percepito il dono come tale da chi ci sta attorno e ne è il destinatario. Noi non sappiamo chi sia il destinatario di tale dono, se uno lo sia di più o di meno ovvero se lo siano tutti indiscriminatamente, perché il nostro dono potrà produrre i suoi effetti, una relazione di qualità e non occasionale, solo se verrà recepito come tale, come dono, da parte di chi lo percepisce come tale. Allora l’arte della relazione non significa solo creare simpatia, occasionalità: sapersi relazionare è frutto di ciò che viene dal profondo, è riconoscere il nostro fratello, è accoglienza, aiuto, fratellanza, è senso del dono, per l’appunto, e attesa, aspettativa che ciò sia percepito come tale e di quanto ci potrà essere donato di ritorno dagli altri. Non importa se e quanto ci tornerà in cambio, non ci doniamo perché ne venga qualche cosa, né è detto che conosceremo mai gli effetti della nostra buona relazione di tutti i giorni, di come vivano i nostri malati la nostra presenza, i nostri atti, le nostre parole.
Anni fa, nel corso di un convegno sulla comunicazione, strumento importante dell’arte di relazionarsi, ebbi modo di affermare che non c’è vera comunicazione nel mestiere del pediatra oncologo e dell’équipe curante se, innanzi tutto, non ci fosse amore verso i bambini ammalati, tutti, indiscriminatamente. A me sembrava di avere espresso una posizione simile a quella del samaritano, nulla di trascendentale, ma di profonda verità. Fui enormemente colpito dall’affermazione di un alto prelato presente al dibattito, il quale mi contestò il fatto che non si può pretendere di amare tutti i bambini, qualcuno si, ma non tutti. Io risposi che non intendevo riferirmi alla simpatia, che può risultare maggiore o minore, che si può avere verso questo bambino e meno verso un altro, ma che intendevo amore per amore e non altro, ribadendo la mia affermazione. Resto dell’idea che amore è qualcosa che si può donare incondizionatamente, senza chiedere nulla in cambio, e che esso possa rappresentare una buona ragione per relazionarsi positivamente e proficuamente, per donarsi.
In quale occasione ho avuto modo di sperimentare tutto ciò e di conseguenza di pensare a quanto sopra da me riportato sul tema-guida alla presente riflessione?
L’amico, il malato, il soggetto del mio inconsapevole amore e il suo indiscutibile testimone si chiamava Giuseppe. Dico subito che la sua parola, la sua memoria, purtroppo, perché Giuseppe non è più, sono di enorme significato, perché Giuseppe è stato quello che si può definire un “professionista della malattia, del cancro”: si ammalò a 10 anni, da bambino, e ne morì a 28. Un’infanzia, un’adolescenza, una giovinezza e un inizio di età adulta, una vita dunque passata con il cancro e le sue innumerevoli terapie: la chemioterapia, la radioterapia e poi ancora chemioterapia, il trapianto di cellule staminali, ancora chemioterapia, la chirurgia e ancora chemioterapia, poi la fine. È stato il testimone di quello che non avremmo esitazione a definire un interminabile calvario, se egli stesso non ci avesse voluto dire e testimoniare che così non fu affatto: nonostante tutto, la sua fu ugualmente e ancora di più vita, anche se fatta di speranze grandi, poi deluse e poi riemerse e poi ancora frustrate fino a una fine divenuta suo malgrado inesorabile.
Giuseppe ci illumina su tutto ciò in un piccolo libro, una specie di autobiografia costruita a voce con la psicologa che lo assistette nell’ultimo periodo della sua vita, facendolo poi diventare un libro, realizzando così il grande desiderio di Giuseppe, il racconto della sua vita. Ma che cosa significava scrivere questo libro per Giuseppe, che cosa aveva esigenza di dirci, perché raccontare le sue esperienze e i suoi pensieri, perché volerci lasciare una traccia così tangibile dietro di sé e allo stesso tempo di potenziale aiuto a chi fosse destinato a vivere in condizioni simili alle sue? Il titolo del libro, Nella vita chi è felice è pazzo, è molto emblematico ed evocativo dello spirito, dell’arguzia e dell’inesorabile lucidità di Giuseppe. Un titolo così bizzarro, solo apparentemente, costituisce il suo paradosso, per dire e dirci che per vivere e perseguire la felicità non è necessario essere diversi, essere considerati pazzi, anche se costretti a vivere con il peso enorme della malattia che ti affligge, che va e che viene e che finisce per non lasciarti più tregua. Nulla ha impedito a Giuseppe di diventare un potente e inesorabile osservatorio di vita, della sua vita, che, essendo una vita confinata all’ospedale, salvo qualche intervallo trascorso a casa, lo ha reso un inesorabile e meticoloso osservatore dell’ospedale e di chi si dedica alla cura dei malati. Orbene, Giuseppe voleva, e ci è riuscito, lasciare una traccia del suo percorso di vita e non del suo calvario, nonostante tutto: la cosa importante per lui non era più la necessità di sovvertire un percorso di vita segnato dal destino, di uscirne, stravolgerlo e mutarlo, piuttosto era quella di interrogarsi su come riuscire a lasciare il suo segno, il segno del suo transito, lungo o breve che fosse. Il libro è divenuto lo strumento per portarci il suo messaggio universale, che intrinsecamente è che per parlare agli altri bisogna sapere guardare a se stessi, dentro se stessi. Perché?
Perché il malato, chiunque soffra e cerchi il tuo aiuto, ti guarda con fiducia e con aspettative positive che non possono essere deluse: essi attendono il nostro dono, la nostra fratellanza, il che fa sì che non sia sufficiente la competenza tecnica, che pure non è eludibile, fa sì che non si possa algidamente comunicare il bollettino della scienza e della tecnica, che pure l’équipe sanitaria deve possedere e padroneggiare. Bisogna saper comunicare, creare e sostenere la relazione, perché i malati ci guardano, osservano ogni gesto, ascoltano ogni parola, perché di noi non parla solo la voce, ma l’aspetto, l’atteggiamento, ogni gesto, che il malato minuziosamente coglie, elabora, riesamina, ricorda e fissa alla memoria per sempre. E non è sufficiente parlare, ma bisogna saper ascoltare, perché solo così ci si può sentire vicini, solo così si è in grado di far sentire quanto si è amati e considerati, non solo perché ci si è incontrati, non solo perché si è sanitari e in un ospedale, ma perché davanti e accanto a noi c’è un nostro fratello, un amico, qualcuno che è oggetto del nostro amore, della nostra attenzione, della nostra preoccupazione.
Giuseppe mutua dalla sua lunga esperienza, con fermezza e chiarezza, il giudizio che certi dottori e infermieri sono nati per fare questo mestiere e ne porta alcuni esempi, quelli che più l’hanno colpito e che non dimenticherà mai: questo è il suo segno, la sua traccia, per dire a tutti quanti leggeranno il suo libro che bisogna avere fiducia e speranza che quelli bravi che ti amano, che fanno dono di sé ci sono eccome e sono come dei fratelli. Poi, dopo tanti anni di “militanza” da ammalato e dopo tanti sanitari incontrati, cerca di autoconvincersi che bravi dottori e infermieri a tutto tondo si può anche diventare, donde il suo stimolo attraverso il libro affinché ciò possa avvenire, affinché almeno chi opera in campo sanitario se ne renda conto e ci provi, almeno. Giuseppe è stato un malato eccezionale, un arguto sensibile osservatore e un incredibile testimone del senso di fratellanza e del dono di sé, da dare e da ricevere, attraverso il dono che ci ha fatto della storia della sua vita. A noi tutti e a quanti vorranno trovare coraggio, forza e conforto ha fatto dono del suo libro, del suo segno: a me ha fatto un dono ancora più eccezionale, quello di avermi portato con sé in cielo, senza che io potessi mai immaginarlo, per qualche cosa che ha svelato dopo oltre 15 anni nel suo libro e che mai avrei potuto ricordare. Grazie Giuseppe per la “pazzia” che è divenuta una realtà. Una preghiera: trova modo di stare vicino a me e ai fratelli che avrò incontrato dopo di te, almeno finché potrò essere loro di aiuto.
di PAOLO PAOLUCCI
La relazione: l'essenza dell'arte medica
i medici si raccontano