Due studenti laureandi in medicina raccontano la scoperta della forza e dell’importanza delle cure palliative.
È stata una sorpresa: una giornata di formazione per medici sulle cure palliative, come accompagnamento alla morte di pazienti terminali, aperta anche a studenti di medicina. Ci siamo iscritti, un po’ per curiosità, un po’ per interesse per un argomento per noi sconosciuto. Sorprendente la modalità: non una lezione frontale, ma la proposta di raccontare episodi della propria esperienza. E così noi due studenti ci siamo trovati con un gruppo di medici, alcuni con molti anni di attività, a condividere storie…
Dopo un iniziale imbarazzo, dovuto alla disparità tra le nostre piccole esperienze maturate durante i primi tirocini ospedalieri e le loro, abbiamo raccontato di una volta in cui abbiamo approfondito il rapporto con una coppia di anziani pazienti. Ci hanno comunicato le loro emozioni più intime, la preoccupazione per il figlio disabile, gli anni che sembravano scorrere velocemente e che li vedevano sempre più fragili davanti alle sfide quotidiane. Erano contenti di confidarsi con qualcuno, dopo che la signora era stata visitata con un frettoloso interrogatorio, privo di reale ascolto.
Man mano che ci raccontavamo queste ed altre storie, nel gruppo di medici e studenti si è creato un forte clima di empatia: tutti eravamo interessati a portare all’interno della nostra professione qualcosa in più della stretta osservanza all’etica professionale. Tutti cercavamo quel “surplus di umanità” di cui tanto si parla, ma che è così raro trovare tra i professionisti sanitari.
Tra le varie esperienze raccontate, alcune ci hanno colpito in modo particolare. Per esempio una signora anziana, che abitava da sola, la sera chiamava sempre il centralino dei soccorsi lamentando problemi di salute. Il giovane medico in servizio dall’altra parte della cornetta, raccontava come in questo ripetersi di chiamate aveva col tempo capito che la signora non necessitava realmente di cure sanitarie, ma semplicemente si sentiva sola e attraverso quelle telefonate cercava un contatto con gli altri.
Un altro episodio che ci ha fatto riflettere è stato quello riguardante una donna che aveva seguito con dedizione il marito malato di tumore lungo tutto il percorso di cura. Nelle ultime settimane di malattia, quando ormai era chiaro che non c’era più niente da fare, rivolgendosi all’oncologa incaricata di introdurli alle cure palliative, la signora le aveva confidato di sentirsi «preparata, ma non pronta». Un fatto indicativo di quanto sia fondamentale prendersi cura dei pazienti e delle loro famiglie, anche nelle fasi della malattia in cui la medicina depone le sue armi tradizionali.
Dalle esperienze raccontate, risultava evidente il fatto che l’università di Medicina permette di acquisire una gran quantità di informazioni, nozioni tecniche e competenze, ma è povera di occasioni in cui riflettere, interiorizzare, confrontarsi su temi delicati come la sfera umana del paziente.
La medicina oggi permette di risolvere un gran numero di problemi che fino a pochi decenni fa parevano insormontabili, ma di fronte alle situazioni per le quali non c’è rimedio, quale è la risposta giusta? In questa giornata di formazione sulle cure palliative, abbiamo imparato che bisogna essere presenti accanto ai pazienti sapendoli ascoltare (è “tempo di cura” a tutti gli effetti), facendo attenzione al dolore e alle sue modalità di manifestazione, condividendo con i familiari le preoccupazioni. Elementi, pilastri delle cure palliative, che noi studenti abbiamo scoperto in questo incontro.
Chissà se il mondo dell’Università saprà cogliere questa sfida, dando più spazio a questa dimensione durante il percorso di studi, affinché generazioni di medici non continuino a presentarsi disarmati di fronte a scenari in cui, più ancora che le conoscenze tecniche, sono importanti presenza e ascolto.
Per approfondire le modalità formative sulle cure palliative vedi anche questo articolo.