Ho molti pazienti anziani e spesso mi capita che qualche anziano ammalato mi chieda titubante se sono disponibile ad accettarlo come paziente, magari perché non accettato da altri medici. È vero che ogni volta mi viene la tentazione di non prendermi carico di situazioni che so in partenza significare frequenti visite domiciliari, accertamenti e ricette in più, ma ogni volta mi rendo conto che sono proprio loro, quelli che più mi costano perché irrimediabilmente ammalati, che mi danno la dimensione più vera del mio essere medico, che ha la sua radice nella possibilità di condividere ogni giorno l’esperienza più vera e profonda dell’uomo: il dolore.
Cosi ho deciso di dedicarmi con cura particolare a loro.
Qualche tempo fa mi è stato appunto chiesto di prendermi in carico una paziente gravemente ammalata, divorata ormai da un tumore in fase avanzata; mi è costato in un primo momento accettare questa situazione, in particolare perché ero a conoscenza della irrinunciabile volontà di questa paziente di morire a casa. La morte è un’esperienza davanti alla quale istintivamente mi viene da ritirarmi, anche per un senso d’impotenza e fallimento che mi da come medico, ma dietro quel caso clinico disperato c’era il dramma di un essere umano.
Cosi mi sono messo ad andarla a trovare alla sera molto spesso e mi pareva che bastasse la mia presenza per darle sollievo. Era spesso sola perché i parenti erano come spaventati dal suo stato; ho iniziato a cercare il rapporto con i parenti, a spiegare loro come meglio accudirla, affidando loro piccoli compiti quotidiani per coinvolgerli in un dialogo con un dramma che è fisico, si, ma anche di solitudine. Una sera mi rivelò che la sua più grande pena era l’incomprensione che si era creata con un figlio e la nora; capii che, anche se non era un atto specificamente medico, era necessario che io parlassi con queste persone. Lo feci e l’iniziativa si dimostrò l’occasione per smuovere le cose in senso positivo. “ora posso morir contenta” mi disse a pace fatta.
Una sera i dolori erano cosi forti e incontrollabili che le chiesi se volesse sottoporsi, per alleviarli, a particolari terapie, possibili solo in ospedale: lei mi disse che si fidava di me e acconsenti. Presi accordo con l’ospedale la ricoverai, ma cercai di andarla a trovare tutti giorni: non volevo pensasse che l’avevo scaricata. Ridotta sempre più a pelle e ossa, ormai debolissima, trovava comunque la forza per accogliermi e farmi festa, una festa che penetrava profondamente in me e che ancora torna quando la ricorda.