A volte le situazioni possono cambiarci la vita ll’improvviso. Eppure, allenandoci a guardare in faccia il dolore e ad affrontarlo,
possiamo trasformare la nostra vita fino a renderla un’opera d’arte, com’è successo a José Pintor, attore, di S. Paolo in Brasile.
José Pintor: Sono geografo di formazione, ho lavorato come professore di Geografia quasi tutta la vita. Quando ero piccolo, forse a 8 o 9 anni, mi hanno portato ad Alto do Moura, una località dove si fa arte figurativa con l’argilla, con la terra cotta. Sono arrivato e c’era uno
scultore, seduto. Sono entrato da una porta dietro di lui e stava facendo la testa di un bambolotto. Mi è sembrato bellissimo. Lavorava soltanto con le mani e con un piccolo pezzo di legno rifiniva il lavoro. Ad un certo punto, quando mi sembrava che la scultura fosse perfetta, lui, dopo averla esaminata, l'ha lanciata verso la parete, e si è disfatta. E ha ricominciato a lavorare l’argilla, ora più malleabile, per rifare il lavoro.
L’arte per me è stata sempre la possibilità di esprimermi. Ad un certo punto, ho sentito il bisogno di dedicarmi di più all’arte, ho lasciato totalmente la geografia e mi sono dedicato esclusivamente all’arte. In un periodo in cui ero nel pieno del lavoro, con spettacoli, viaggi e progetti, ho avuto una malattia seria. Un giorno mi sono svegliato con difficoltà a muovere le mani e i piedi, e sentivo molto prurito. Mi hanno portato all’ospedale e arrivando là, hanno diagnosticato che avevo la Sindrome di Guillain Barré. Questa sindrome paralizza tutto il corpo, uno non è più capace di muovere neanche un dito, nemmeno gli occhi.
In quel periodo, ho immaginato che avrei dovuto abbandonare completamente il teatro. È stato un momento di disperazione, pensare che l’unica cosa che riuscivo a fare praticamente… mi veniva tolta. Mi sono domandato: “Eterno Padre, Dio, cos’è che vuoi da me?”. Quando mi sono svegliato, ad eccezione di due momenti, non ho mai perduto
conoscenza, ma non riuscivo a dimostrare che capivo e che ero cosciente. Se io avessi potuto gridare, avrei gridato: “sono vivo, io esisto!”. Finché una dottoressa mi ha fatto una domanda:
“sei cosciente? sai chi sono io? Se sei cosciente chiudi gli occhi”, era l’unico movimento che riuscivo a fare. Ho chiuso gli occhi. Ha esultato dicendo: “allora sei cosciente!” Da quel
momento, ho iniziato a comunicare.
Soltanto nell’ultimo periodo nel reparto di terapia Intensiva sono stato capace di fare i primi movimenti. Hanno messo in una tavoletta le lettere dell’alfabeto e le parole: Sì e No. La prima parola che ho scritto è stato “zanzara”, perché nel reparto della terapia intensiva c'erano delle zanzare. E queste zanzare mi pungevano qui, agli occhi, e quando ho scritto questo, il medico ha domandato: “zanzare? dentro il reparto della terapia intensiva?” Questo quando riuscivo a fare qualche movimento. E io ho mostrato la parolina “si”. Ha ripetuto: “ma
qui dentro?” Ed io: “Sì”.
Alla terapia intensiva ho imparato molte cose: la vita è fatta di rapporti, come in un tessuto, una rete, dove alle volte si sta sotto, altre volte sopra, ma dove ciascuno ha una funzione. Se io morissi adesso, che cosa rimarrà? Io credo che l’esperienza nella terapia intensiva è stata come quella storia del bombolotto d’argilla: ho l’impressione che l’Eterno
Padre mi ha buttato, mi ha reso malleabile, mi ha deformato, per potermi ricostruire.