Bisogno di formazione

Nella struttura per anziani non autosufficienti dove lavoro emergeva la difficoltà di noi operatori di farci carico dell’assistenza degli anziani nella fase terminale, difficoltà che si traduceva spesso con ricoveri ospedalieri impropri negli ultimi giorni di vita.
Pertanto abbiamo sentito la necessità di istituire un percorso formativo che si è concretizzato negli anni 2003-2004 grazie al progetto obiettivo “Accompagnamento alla morte”.



Il progetto si è sviluppato in due momenti:
1. La rilevazione e l’analisi dei bisogni del malato, della famiglia e degli operatori sanitari
2. La definizione e l’attuazione degli interventi specifici a ogni bisogno rilevato.
Abbiamo evidenziato quattro bisogni fondamentali del malato e della famiglia:
* Non soffrire
* Non essere abbandonato
* Essere ascoltato
* Essere informato
Mentre per quanto riguarda i bisogni degli operatori sanitari ne sono emersi due  di principali :
* Acquisire conoscenze e abilità professionali
* Acquisire capacità di gestire emotivamente l’evento
Concretamente si è tenuto per tutti gli operatori sanitari, sia un ciclo di incontri dove si sono affrontati problemi di etica di fine vita con discussione di casi clinici, sia un percorso psicologico con colloqui individuali e incontri di gruppo.
Si è modificata anche l’organizzazione del lavoro: quando veniva attivato il progetto,  aumentava la frequenza e la durata delle visite al letto del malato da parte di tutta l’equipe.
Nell’esperienza fin qui maturata abbiamo notato quanto l’efficacia del sapere professionale sia potenziata dall’alleanza tra operatore-malato-famiglia, quasi a suggellare un “patto di non abbandono” con il paziente che vive l’evento morte non più in un luogo di cura, ma come in famiglia”.
D’altra parte durante la realizzazione del progetto sono emersi alcuni chiari indicatori di efficacia.
Si è registrata una diminuita richiesta di ricoveri ospedalieri da parte di malato, famiglia e operatori sanitari.
La serenità con cui il paziente e la famiglia vivono questa fase della vita si manifesta con segni di affetto e di ringraziamento da parte del malato ( qualche parola, magari solo un grazie perché di più non può dire; una stretta di mano, o un sorriso…); e attestazioni di stima da parte dei familiari rivolte direttamente all’equipe  e alla direzione, o con ringraziamenti su stampa locale.
Ricordo in proposito, la frase di un signore, figlio di un’ospite deceduta nella nostra struttura: “Quando dovrò morire vorrei essere assistito come lo è stata mia madre qui da voi”.
Ora il progetto obiettivo è concluso, ma ci sembra di poter dire che questa “cultura dell’Accompagnamento” è ormai diventata prassi, un normale modus operandi per tutti noi operatori sanitari della RSA.




Cure primarie e accompagnamento del malato terminale

Nella mia attività di medico di famiglia mi sono trovato spesso ad accompagnare “fino alla fine” pazienti che desideravano morire nel proprio letto e devo dire che, nonostante il grosso surplus di lavoro e le immaginabili difficoltà che questa scelta comporta, è sempre stata una  straordinaria possibilità di arricchimento professionale ed umano che ha segnato in maniera indelebile la mia vita.
Ma anche per la famiglia può essere un’ esperienza  fondamentale, che dà  serenità per aver fatto tutto il possibile per il proprio caro… come mi ha scritto la figlia di un paziente che ha scelto di morire a casa propria.
 Leggo qualche stralcio…
“Ricordo che in quel periodo a casa mia non si viveva molto bene per via della tensione nervosa e della consapevolezza che la vita di mio papà era al termine.
I medici ci avevano lasciati con la fatidica frase “non c’è più niente da fare”… Non era tanto la frase in sé stessa, alla quale eravamo ormai abituati, e della quale anche mio papà aveva preso coscienza, ma quello che si celava dietro: l’abbandono!
Con l’ultima dimissione dall’ospedale ci siamo trovati ad affrontare una situazione drammatica per far fronte ad una burocrazia pesante che invece di agevolare sembrava accelerare il triste epilogo.
Abbiamo dovuto rimboccarci le maniche e cominciare ad intraprendere una strada fatta di code agli sportelli, carte da esibire (e ne manca sempre una…)  e lunghe attese per attivare l’assistenza domiciliare; ma abbiamo tenuto duro, consigliati anche dal nostro medico di famiglia (che ci ha dato la sua disponibilità ad assisterlo a casa)… e così il papà ha concluso i suoi giorni attorniato dai suoi cari piuttosto che da un gruppo di estranei.
Penso che questa sia stata la chiave giusta per portare tranquillità a mio papà che negli ultimi mesi, dentro e fuori dagli ospedali, aveva generato un rifiuto verso la sanità e i suoi rappresentanti.
Dopo venti giorni, per difficoltà respiratorie, mio papà muore.
E’ un’esperienza che lascia, alla fine, la tranquillità di averci provato, di aver fatto il possibile per una persona cara; se me lo chiedono io dico che lo rifarei, tenendo conto che ho tre figli di cui due all’epoca avevano un anno”.





Vita professionale e familiare

Alcuni anni fa i miei suoceri si sono ammalati gravemente uno dopo l’altro; prima Palmira: emorragia cerebrale, poi Giovanni Parkinson-Demenza.
Dopo un po’ di tempo entrambi erano non autosufficienti e allettati.
Con mia moglie ci siamo chiesti cosa era meglio fare… la soluzione più logica era quella di inserirli in una residenza per anziani… ma sono emerse tante perplessità…
Per mia moglie c’era l’amore di figlia, ma io?
Io  medico-geriatra che facevo spesso convegni e corsi di formazione sull’”accompagnamento” mi sentivo non coerente: la vera cultura nasce da un atto unitario tra pensiero e vita, ragionamento e prassi quotidiana; tanto più noi operatori sanitari dovremmo sempre riuscire a trasmettere “noi stessi” (i nostri valori, quello in cui crediamo…) insieme alla prestazione o all’informazione.
Così alla fine abbiamo deciso di assisterli a casa con l’aiuto di una badante.
E’ stata una scelta impegnativa (e non è detto che debba essere questa la regola per altre famiglie…) e soprattutto che è durata per molti anni e si è intrecciata intimamente con la nostra storia familiare (perché nel frattempo sono nati i nostri tre figli…).
Ora i suoceri non ci sono più, ma se ripenso a quel periodo rimane una profonda consapevolezza:  la loro fragilità e necessità assistenziale ha stimolato noi “sani” (e non solo noi adulti ma anche i nostri bambini-era commovente vedere il rapporto tra loro fatto di sguardi, di tenerezze, di piccoli gesti -come quando asciugavano con il fazzoletto la saliva sulle loro labbra- ), a dare il giusto peso agli inevitabili affanni di ogni giorno  e a riscoprire  di più il valore della solidarietà e della fraternità tra le persone (e tra generazioni).



Alberto Marsilio
RSA Stra, ASL 13, Mirano-Dolo, Venezia 

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