L’arte di relazionarsi, proprio perché è più un’arte che un metodo, può perfezionarsi e affinarsi, ma non può essere insegnata.
L’insegnamento deve essere quello che ognuno può trovare in sé, la sua migliore capacità di relazionarsi e i migliori principi per farlo sono quelli cristiani:
la Carità come virtù dominante (1 Cor 13: «Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!») e il rispetto, cardine dell’amore, verso il prossimo, da applicarsi in ogni forma di contatto con il malato.
Nella gestione dei casi di patologia della gravidanza capita di dover decidere della nascita programmata con taglio cesareo di feti per i quali si teme la morte intrauterina in periodi altissima prematurità. Tra 24 e 26 settimane il feto è molto piccolo, ha qualche probabilità di sopravvivere alla nascita (10-40%), ma la sopravvivenza può essere gravata da handicap.
In un caso del genere, dopo aver fatto nascere, per stretta necessità, un neonato di circa 450 grammi che fu trasferito in un altro ospedale, fui accusato il giorno dopo dal papà di essere un pazzo e uno senza morale per aver fatto nascere un bambino senza speranza di vita.
Aveva ricavato questo convincimento da un colloquio con il neonatologo di quell’ospedale, nonostante che prima della nascita avessi informato compiutamente i genitori della situazione.
Rimasi ovviamente colpito dalla veemenza di quelle accuse. Rimasi ancora più colpito, due mesi dopo, quando l’ing. X mi cercò, mi annunciò che il bambino era sopravvissuto cinque giorni, ma si scusò per la sua reazione e piangendo mi disse che quei cinque giorni avevano cambiato la sua vita e il suo rispetto per la vita: aveva capito che quel piccolissimo uomo, suo figlio, doveva essere amato, rispettato, curato.
di Alessandro Caruso