Il rapporto medico-paziente e il lavoro in equipe
Mentre la moderna medicina, sempre più basata su metodi scientifici rigorosi (medicina delle evidenze) sta registrando risultati molto positivi in tutte le sue specializzazioni, più che mai si avverte un’insoddisfazione diffusa e crescente da parte di coloro che sono destinati a beneficiare di tali risultati: i pazienti e i loro familiari.
I vari episodi di malasanità, puntualmente oggetto di ampia diffusione da parte dei media, sono almeno in parte espressione di questi sentimenti.
La superspecializzazione e soprattutto la crescita tumultuosa delle applicazioni tecnologiche se, da un lato, interessano quasi morbosamente i pazienti e i loro familiari sempre più “informati” ed esigenti, dall’altro facilitano questa sensazione di abbandono ad opera degli operatori sanitari.
Di tutto questo siamo ben consapevoli e credo non sia un caso se negli ultimi anni si moltiplicano lavori scientifici volti a valutare la qualità di vita dei nostri pazienti.
Si vive più a lungo, ma come?
A complicare questo difficile rapporto medico-paziente sono intervenute infine misure atte a limitare la spesa sanitaria sempre crescente, per garantire nel futuro a tutti le migliori cure possibili.
Nel nostro Paese il modello di assistenza nordamericano è, più o meno consapevolmente, l’obiettivo da raggiungere, e le cause che rendono sempre più difficile il rapporto medico-paziente non sembrano facilmente controllabili anche perché, prese singolarmente (specializzazione, progresso tecnologico, ottimizzazione degli investimenti), appaiono assolutamente lecite.
Occorre allora ripensare chi sono i protagonisti di questa particolare relazione di aiuto, e come è possibile agire per fare sì che tale rapporto conservi in ciascun protagonista sentimenti di soddisfazione, e che sia in definitiva improntato alla gioia che, per noi credenti, deriva dalla presenza costante di Gesù-Medico accanto a noi.
Gli Operatori Sanitari sono «medici, infermieri, cappellani ospedalieri, religiosi, religiose, amministrativi, volontari della sofferenza, impegnati in vario modo nella profilassi, terapia e riabilitazione della salute umana»: così essi sono stati definiti dalla Carta degli operatori sanitari nell’ottobre 1994.
La relazione di aiuto che intercorre fra il medico e il paziente anche se, in alcune situazioni assistenziali, può apparire un rapporto duale fra due persone tristemente sole, è, o dovrebbe essere, un incontro “provvidenziale” fra due gruppi: quello composto da operatori sanitari (medico, infermiere, tecnico…) e quello composto dal malato e da coloro che si prendono o dovrebbero prendersi cura di lui (familiari, amici...). Con entrambi i gruppi interagisce il volontario che ha il compito specifico di contribuire all’umanizzazione di tale rapporto interagendo in vero spirito di amore.
Si tratta di una relazione interpersonale di natura molto particolare. «Un incontro tra una fiducia e una coscienza. La fiducia di un uomo segnato dalla sofferenza e dalla malattia e perciò bisognevole, il quale si affida alla coscienza di un altro uomo che può farsi carico del suo bisogno e che gli va incontro per assisterlo, curarlo, guarirlo», è scritto nella Carta degli operatori sanitari. Giovanni Paolo II, ai partecipanti ad un congresso di chirurgia nel febbraio 1987, raccomandava: «Nell’esercizio della vostra professione voi avete sempre a che fare con la persona umana, che consegna nelle vostre mani il suo corpo, fidando nella vostra competenza oltre che nella vostra sollecitudine e premura. È la misteriosa e grande realtà della vita di un essere umano, con la sua sofferenza e la sua speranza, quella che voi trattate».
A quell’epoca Giovanni Paolo II era già stato ricoverato più volte al Policlinico “A. Gemelli” di Roma. Ma già nella sua prima visita a quell’ospedale, a poche ore dalla sua elezione a sommo Pontefice, visitando un suo amico gravemente malato, definì la debolezza dei malati una potente fonte di energia a cui affidava il suo pontificato. «Stamattina parlando agli Eminentissimi Padri Cardinali ho detto che mi appoggio soprattutto a tutti quelli che soffrono e che uniscono con la sofferenza, con la passione, con i dolori la preghiera. Carissimi fratelli e sorelle, io vorrei affidarmi alle vostre preghiere. Voi siete, umanamente parlando, deboli, ammalati, ma siete anche molto potenti. Così come è potente Gesù Cristo crocifisso. Cercate di utilizzare quella potenza per il bene della chiesa, dei vostri vicini, della vostra famiglia e di tutta l’umanità… e anche per il mio Ministero di Papa. Cristo si trova fra Voi, nei cuori degli ammalati e nei cuori dei samaritani, quelli che servono gli ammalati».
Con queste parole egli ha in qualche modo rivoluzionato il concetto corrente di relazione di aiuto rivolta dal medico al paziente: essa infatti è bidirezionale fra coloro che si prendono cura e coloro che apparentemente sono solo destinatari di quelle cure.
Questa straordinaria esperienza, alla base della nostra frequente conferma nella scelta della professione pur in mezzo a tante difficoltà, non può essere affrontata in solitudine. Occorre creare in qualche modo una piccola comunità, anche se in molti casi incompleta. E questo non è facile.
Occorre iniziare facendo leva su sentimenti semplicemente umani come la condivisione di gioie e dolori, grandi e piccoli, fra tutti i protagonisti dell’assistenza. Successivamente la condivisione delle conoscenze fondamentali e delle strategie da adottare nella conduzione del reparto può risultare un utile strumento per accrescere lo spirito di collaborazione, così come piccole gratificazioni volte ad accrescere sentimenti di autostima. Alcuni momenti comunitari di distensione condivisi con le famiglie, possono giovare alla crescita della consapevolezza di essere “comunità operante”.
È indispensabile infine che, già all’interno dei due gruppi, di chi cura e di chi è curato, esistano sentimenti di stima e di affetto, altrimenti la relazione sarà imperfetta e destinata a gravi difficoltà.
Vista la tendenza ad applicare anche nel nostro Paese modelli di assistenza che privilegiano competenza, appropriatezza ed economicità delle cure sui sentimenti di condivisione del disagio altrui, è urgente trasferire tale consapevolezza al mondo dei “provvisoriamente sani”, cominciando dalla scuola, fin dai suoi gradi più bassi.
Questo ci ha spinto ad aderire ad iniziative come la Giornata Nazionale del sollievo, proposta dalla Fondazione Gigi Ghiotti. Al Policlinico “A. Gemelli” la celebriamo con successo crescente ormai da alcuni anni, e la formula da noi adottata prevede che, accanto a personaggi famosi appartenenti al mondo del cinema, del teatro, della televisione, del giornalismo, dello sport, i nostri studenti e i nostri operatori sanitari, indossando il camice, donino in questa giornata una loro esibizione ai malati ricoverati. La manifestazione si svolge nella grande hall e il messaggio che ne deriva è molto chiaro per tutti. Di seguito ci piace riportare il testo della “Lettera al Malato” che il Direttore generale della fondazione Gigi Ghirotti, Nicasia Teresi, ha composto in occasione della 1° giornata:
Caro paziente, eroe sconosciuto dai mille volti che si sovrappongono nella memoria, vorrei sentire la tua voce in questa Giornata dedicata a te.
Caro amico, grazie per la pazienza che mi hai insegnato quando ascoltavi le ruote di quel carrello spinto lungo un corridoio infinito, quando si fermava nelle stanze vicine, contando quanto avrebbe impiegato a raggiungere la tua stanza con la soluzione a quel dolore.
A volte hai aspettato con silenziosa dignità il tuo turno, altre volte hai urlato il tuo bisogno impellente suonando insistentemente quel gracchiante campanello che disturbava l’udito, ma non scuoteva le coscienze.
«Non si agiti, stia calmo, un po’ di pazienza, di educazione…». Parole facili, scontate, a volte taglienti… è un “sano” che parla.
Quante notti insonni che trascorri in cui la luce dell’alba sembra non arrivare mai, lunghe notti in cui ricordi, angosce, paure si intrecciano in ragnatele inestricabili!
Grazie per il grato sorriso che mi hai regalato, in una calda giornata estiva, per un po’ di acqua fresca.
Grazie per avermi onorato dalla tua amicizia e confidenza raccontandomi frammenti della tua vita.
Ho pianto con te, abbiamo riso insieme su storie buffe a volte inventate solo per evadere quell’angoscia; ho stretto la tua mano, tu hai stretto la mia.
Grazie per avere arrestato le mie stressate e insensate corse del quotidiano e avermi insegnato a fermarmi per assaporare la gioia di ogni attimo del tempo che scorre.
Nonostante il tempo trascorso insieme, io sono “sana” e scopro di non poter capire fino in fondo i tuoi bisogni, le tue angosce, il tuo dolore. La tua intimità e il tuo corpo violato da tante mani sconosciute.
In palazzi, in stanze colme di sapienza si parla di te, del tuo dolore, dei tuoi bisogni. Si decide, si giudica e a volte… ci si “commuove”. Si scrive la tua storia a volte solo per potere o per interessi personali.
Caro amico, forse non posso comprenderti fino in fondo, ma se vuoi ecco la mia mano, stringila, ti aiuterò a salire il palco, chiederò ai dotti di tacere. Oggi vogliamo ascoltare solo la tua voce. Tu hai diritto di essere ascoltato. Perché solo tu sai e puoi dirci di che cosa hai bisogno.
di Numa Cellini e Luca Tagliaferri