Ero di turno quella notte.Verso le 23, passando accanto alla stanza di Sergio, paziente terminale per neoplasia polmonare, ero tentato di filar via dritto, “tanto non posso far nulla!”, mi dicevo. Ma fu più forte di me ed entrai: solo ma tranquillo, mi guardò e gli chiesi: «Allora, come va?», ruotò il palmo delle mani, allargò un po’ le braccia e sorrise... di cuore, quasi come per ringraziarmi per quel piccolo gesto inatteso.
Rimasi un po’ con lui, e andandomene gli feci una carezza sulle gambe e gli dissi: «A presto!». Mi guardò e mi disse: «No! Il più tardi possibile, dottore». Quella notte Sergio ci salutò e mi fece capire che alla scuola del malato c’è sempre da imparare: anche quando ci pare di non aver nulla da donare, il nostro niente può diventare grande abbastanza per accogliere la consegna d’amore di una vita al tramonto.
Evelin era il suo nome.
Un nome che testimonia il sogno di molte famiglie dell’America del sud, di un domani migliore, diverso, dove la parola «necessario» possa, magari, abbinarsi a possedere qualcosa di superfluo che consenta di guardare al domani con occhi tranquilli, la pace nel cuore e una vita che assomigli allo stile dell’America bene, made in USA.
Evelin, colombiana, dodici anni, leucemia terminale in un letto d’ospedale, testimone impotente dell’arenarsi della scienza e dell’infrangersi di un sogno. Antonio, collega e amico, pediatra emato-oncologo, mi chiamò per una consulenza pneumologica, data l’insufficienza respiratoria che Evelin aveva sviluppato.
Entrando nella stanza notai subito una quiete composta, dove il dolore della madre di Evelin veniva annullato dall’amore per la figlia: sul suo viso un sorriso pacato che nasceva dalla lotta tra speranza e disperazione, e dove intuivo, nei versi del poeta, quell’amor di madre che intendere non può chi non è madre. Da un punto di vista medico non vi era molto di più da fare di quanto già veniva fatto per la patologia polmonare. Capii che Antonio aveva spostato il gioco su un altro campo: era evidente il rapporto di amicizia che si era instaurato tra Evelin, sua madre e Antonio: dove il dolore si materializza è facile inserirsi in questo gioco se si usano gli occhi del cuore, così mi misi a far parte anch’io della squadra. Dando molta importanza a piccoli gesti cercavamo di non far mai perdere a Evelin la speranza nel domani... domani anch’io sarei ritornato a vederla.
Arrivò presto domani, ancora prima per la mamma di Evelin che, stanca di vedere soffrire la figlia, domandò ad Antonio quanto fosse corretto continuare a trasfonderla dal momento che era solo un prolungare le sofferenze per la figlia. Si scusò, pure, per la domanda e ci spiegò che non era stanca, ma aveva il cuore a pezzi per il peggioramento continuo di Evelin, e aveva ragione: serviva molto più ossigeno per un’adeguata ossigenazione e la frequenza cardiaca era raddoppiata.
Dopo un breve consulto tra Antonio, il padre e la madre di Evelin, si decise di interrompere le trasfusioni. La mia presenza a questa piccola riunione era stata solo per supportare e suffragare la strategia di Antonio e condividere quella decisione alla quale un medico non vorrebbe mai arrivare.
Prima di andar via, per sdrammatizzare un po’ il clima, mi misi a scherzare con Evelin, pienamente lucida, e le dissi che doveva pagare una tassa per le mie consulenze: «Mi devi insegnare una bella parola in spagnolo, la più bella che ora ti viene in mente». Ci pensò un attimo, mi guardò e mi disse: «Adios!». Rimasi di pietra e dovetti rubare il cuore a sua madre per far finta di nulla, ma lei – quasi avesse avvertito questo mio disagio – mi disse: «ma tu come ti chiami?», sorrise alla mia risposta e le carezzai la testa. L’indomani mattina Evelin mise le ali per partire da questa terra. Non so dove sia arrivata, ma so che la sento nel cuore e mi insegna che là dove non arriva il cuore della scienza, là, proprio là... arriva la scienza del cuore.
di GIUSEPPE MARCIANÒ
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