Come medico, mi sono chiesto quale fosse il “cuore” di questa mia scelta e, avendo avuto una scuola personale di esempi tutti dediti al servizio, mi sono reso conto del “dono” che posso essere per gli altri.Il dono è quello di fare qualcosa di vero, di sentirsi utile, di essere mezzo per lenire la sofferenza, di dare sollievo a chi vive la “condizione” del dolore fisico, psicologico, in definitiva di mettere a disposizione degli altri i migliori anni e...
le migliori risorse della mia vita, il “meglio di me”.
Questo itinerario interiore, però, non l’ho compiuto in una piena e completa consapevolezza iniziale, ma quasi con una dedizione istintuale e nell’idea che il medico “doveva fare così”. Avevo anche la segreta ambizione di tutti i giovani sognatori di diventare “grande” in qualche cosa e quindi ho cominciato a lavorare per poter fare ricerca scientifica. Ma, cominciata la specializzazione in Ginecologia, mi resi conto che, per il mio tempo, la risposta a diventare “grande” in qualche cosa mi spingeva più verso le persone che verso un laboratorio, più verso la clinica che verso la ricerca di base.
In quegli anni il valore della vita umana, ai suoi albori, veniva legalmente e scientificamente attaccata (la legge sull’aborto è del maggio 1978 e la prima nata da fecondazione extracorporea è del luglio dello stesso anno). Capii molto bene che il nucleo del problema, non solo scientifico ma anche giuridico, etico e sociopolitico, era l’embrione e tutto ciò che intorno a lui ruotava: la coppia, la famiglia, l’affettività, la sessualità umana. Era lui il segno di contraddizione, era il valore della vita e quella più debole il campo di battaglia, era la verità sulla persona umana, la posta in gioco!
Per me, specializzando di Ostetricia e Ginecologia, la ricerca di base poteva aspettare: altre urgenze mi spingevano a spendere la vita; sentivo che impegnandomi in quel campo (la difesa della vita nascente) avrei speso bene la vita per Qualcuno. Infatti quattro anni prima avevo incontrato Gesù Cristo attraverso la realtà umana e spirituale di un sacerdote, don Giuseppe De Santis, che viveva vicino a Narni, in Umbria.
Aveva frequentato Padre Pio per circa vent’anni e ne era diventato un figlio “speciale” per doni e santità di vita. Lo conobbi per una serie di combinazioni! (Padre Pio diceva: «Chi combina le combinazioni?»). Lui cambiò la mia esistenza nel senso che mi fece capire, attraverso la filosofia delle piccole cose, il significato più profondo dell’“essere dono per gli altri”, visto che lui lo era stato me. Con piccoli atti d’amore mi aveva vivificato la vita e io volevo e dovevo fare come lui. Pochi mesi prima di conoscerlo, dopo alcuni anni che non andavo più a messa, in una chiesa vicino Piazza Bologna, i Martiri Canadesi, ascoltando la canzone Dio si è fatto come noi per farci come Lui scoppiai in un pianto irrefrenabile: era pazzesco che Dio “si facesse” come noi, ma ancora più pazzesco ne era il motivo: «per farci come Lui». Dio si era fatto come noi, si era fatto embrione: questa realtà mi ha spaccato il cuore perché, come sempre nell’Amore, chi ama di più, prende l’iniziativa. Lui si era fatto dono e nella gratuità più assoluta (che interesse aveva Dio se non solo il suo immenso Amore?). Ecco quindi i dati esperienziali che fondarono l’idea di essere dono per gli altri. Ma “il dono per me”? Come si sarebbe ottenuto?
Alla scuola di don Giuseppe ho imparato che servire è veramente regnare e sotto la sua guida fui spinto a lavorare per le ragazze madri, a fare volontariato, a fare qualcosa che come medico mi caratterizzasse in una certa gratuità. I numerosi viaggi a Lourdes dove si paga per servire il malato ne furono l’emblema.
Le ragazze madri della casa di Primavalle di Madre Teresa mi furono “maestre”. Mese dopo mese vedere che chi non aveva nulla (marito, casa, averi, condizioni sociali) accoglieva il bimbo, mentre chi aveva tutto non accoglieva il bimbo, cioè la grazia di Dio, fu uno shock.
Ho pensato: “Chi ha il cuore non occupato è più pronto ad amare”. Bisognava fare spazio nel cuore, spesso occupato e preoccupato per tante cose inutili. E piano piano le pazienti stesse sono diventate dono per me. Ho capito il potere della «sapienza», il potere del «sàpere», quel sapore, cioè, che l’intelligenza e la volontà acquistano quando la mia esperienza clinica e scientifica viene “donata” per tranquillizzare nelle diagnosi (la verità, sì, ma nella carità); per curare quando è in pericolo la vita delle mamme e dei loro feti, per condividere la sofferenza (molto spesso) e la gioia (meno spesso) delle coppie sterili, impegnandosi a trovare risposte eticamente degne al santo desiderio di avere un figlio; nel lenire il dolore devastante di aver abortito volontariamente il proprio figlio o nel proporre terapie cliniche e psicologiche che aiutino ad elaborare il lutto dell’aborto spontaneo ricorrente; nell’aiutare l’universo femminile dell’adolescenza alla scoperta del valore della corporeità, della sessualità e dell’affettività in un mondo che banalizza e materializza l’anima del dono della vita; facendo scoprire alla donna che va in menopausa che il dono della “fecondità” spirituale non finirà mai.
Non sempre questo approccio è pieno di risultati quantificabili, ma per chi si preoccupa di fare il consuntivo della propria vita in termini di risultati c’è una risposta di don Giuseppe che a me pare illuminante: «Saremo giudicati sull’impegno nel fare le cose e non sui risultati; saremo giudicati sull’amore!».
«Il medico ha bisogno di imparare l’arte del relazionarsi?». Credo che non ci siano regole valide per tutti sull’arte del relazionarsi, ma che ognuno può impararle dal libro della propria vita. È vero, profondamente vero, che la povertà più grande del nostro tempo è quella delle relazioni ma il medico deve imparare “l’arte del relazionarsi” guardandosi dentro, non solo con gli occhi della mente e del corpo, ma soprattutto con gli occhi del cuore.
Oggi più che mai il medico deve educare gli occhi del cuore perché essi possano vedere cose che gli occhi del corpo non vedono. Un cuore educato, allenato “a darsi” acuisce l’intuizione clinica del sintomo e fa guardare a tutta la persona, alla sua storia personale e al contesto in cui vive, e non solo ad una parte del suo corpo, cosicché la persona malata, sofferente, avverte le “vibrazioni” umane del medico che si interessa di lei. Il rapporto di transfert fiduciale nasce e aumenta se c’è un vero interesse per quella persona da parte del medico. Il malato lo “sente” dai modi con cui è trattato e dal tempo che gli si dà. Così inizia una precoce “predisposizione terapeutica” del paziente che si traduce anche in nuove energie, speranze, buon umore e che lo fa uscire dall’“hangar” della solitudine in cui spesso viene parcheggiato o si autoparcheggia dinanzi al problema medico “perché non c’è tempo per ascoltarlo e si devono fare tante altre cose!”.
Nella moderna medicina, lavorando in équipe multidisciplinare, l’approccio è spesso sbilanciato: molta tecnologia, molte riunioni e discussioni, molta onestà nella ricerca scientifica, ma poca relazionalità verso il paziente, i suoi parenti, il suo contesto esistenziale. Apparentemente tutto ciò sembra poco rilevante, ma quante volte il percorso diagnostico, con la complessità delle metodologie e delle tecnologie ci toglie la “relazione clinica con il paziente?”.
Questo modo di fare, questa povertà di metodologia relazionale è un grave danno alla professionalità e spiego perché: il medico è la figura che scientificamente, giuridicamente, socialmente e umanamente dovrebbe saper gestire il dolore, la sofferenza fisica e psicologica dei suoi pazienti. Mi sembra però di assistere sempre più alla “fuga” del medico dinanzi alla gestione del dolore e della sofferenza.
Abbiamo esempi recentissimi e meno recenti di tentativi di fuga o comunque di approcci sbagliati alla gestione del dolore e della sofferenza. Valgono per tutti i gravi problemi all’inizio (aborto) e alla fine (eutanasia) della vita. Qual è l’atteggiamento culturale prevalente e più diffuso? Dinanzi ad un’eventuale sofferenza che un bambino con malformazioni può creare si propone l’eliminazione del sofferente, così come dinanzi a condizioni di sofferenza in fase terminale di un uomo adulto si opta per la stessa scelta. È veramente tragico e inumano pensare di eliminare la sofferenza eliminando il sofferente, ma questo accade sempre più frequentemente! Qual è allora la mutazione del cuore che si è verificata?
Se non si contempla il mistero del dolore e della sofferenza umana entrandovi attraverso Chi si è fatto dolore e sofferenza, cioè Gesù Cristo, è difficile gestire il proprio e l’altrui dolore.
Capisco che offrire una chiave di lettura e di azione siffatta, per il medico che non crede, è di difficile attuazione, ma nel confronto rispettoso delle idee la propongo come fatto esperienziale intimo, amicale e personale, nella ricerca dei “perché” ultimi e del “senso” vero della nostra esistenza.
Offrire l’incontro con Gesù Cristo è offrire di passare attraverso una porta che appare stretta e difficile, ma che poi si rivela così profondamente umana e appagante da non doversene pentire mai. Anche noi prima di nascere, nel canale del parto, eravamo pieni di angoscia, ma quanta gioia quando il nostro primo respiro si è fuso con il mondo! Un’autentica relazione alla luce della fraternità si può realizzare offrendo ai colleghi “il meglio di me” o quello che è stato “il meglio di me” e per la mia vita.
Ho potuta sperimentare l’efficacia reale di questa proposta, e continuamente la sperimento, quando invito colleghi con percorsi interiori, i più disparati e differenti, ai meeting esperienziali di un’associazione di famiglie (La Quercia Millenaria) che accompagna i propri figli, in presenza di gravi malformazioni, sino alla morte naturale, senza optare per l’aborto volontario.
Sono uomini e donne di diversa estrazione culturale e sociale che rispondono con amore straordinario all’usuale eutanasia prenatale. Sentendo raccontare le loro storie di amore e di dolore, molti miei colleghi capiscono, molto più di tante parole, il significato e la grandezza di un dono desiderato e accolto, nonostante tutto. Molti riscoprono il dono che sono per gli altri e ciò perché la sofferenza “abbracciata” di queste famiglie è stata dono per loro.
Passare “attraverso” questa sofferenza chiarisce a molti medici che anche loro possono farlo per sé e per le persone che si rivolgeranno a loro, e diminuisce la paura del dolore e dell’affrontare il dolore.
“Toccare” queste esperienze mi fa ricordare quello che mi ha detto, personalmente, Madre Teresa il 25 maggio 1996: «Voi medici siete dei privilegiati perché, quando toccate con le parole, il cuore, e con le mani, il corpo, delle persone che soffrono, voi toccate, in quelle persone, Gesù Cristo sofferente». La migliore arte di relazionarsi è questa: affrontare la sofferenza e il dolore con la consapevolezza che possiamo solo lenirlo, non sradicarlo dalla realtà umana: e questo è tanto, soprattutto quando, incapaci di curare, condividiamo!
di GIUSEPPE NOIA
La relazione: l'essenza dell'arte medica
i medici si raccontano