In vicinanza del momento in cui è necessario dire: «Ora tocca voi proseguire», vorrei consegnare i fondamenti dell’esperienza, della tradizione e della cultura sia dell’AVO (Associazione Volontari Ospedalieri) che della AFCV (Associazione Fondatori di una nuova Cultura per il Volontariato).È naturale che questo momento sia giunto per diverse ragioni: l’anagrafe che aggrava di giorno in giorno il divario fra ciò che dovrebbe essere fatto e ciò che in concreto si fa,
ma anche perché diversi sono oggi i talenti necessari.
Intuizione e ispirazione sono necessari all’inizio, ma quando le associazioni diventano adulte e assai diffuse, e sono ben definite vocazioni e specificità, c’è bisogno di doti diverse come capacità organizzative, espansione di orizzonti, per incontrare nuove necessità, saper coniugare la tradizione con l’evoluzione dei tempi.
Fummo i primi e sono benvenute le numerose iniziative che sono nate in questi ultimi trent’anni con analoghe aspirazioni.
In verità è lo Spirito che ha operato e ha utilizzato gli strumenti che di volta in volta sceglieva. A me è toccato di intuire che nella medicina moderna, di grande livello tecnologico e quindi anche nella Divisione medica che guidavo, non si curava il sintomo più frequente denunciato dalle persone malate: la solitudine nella contingenza della malattia.
In una nostra ricerca la frequenza del senso di solitudine era denunciata nel 33% della casistica esaminata. La solitudine era poi l’inizio della dipendenza, della sensazione di ingiustizia per il proprio momento e infine della depressione.
Che cosa mancava? Mancava un amico del malato, nel significato evangelico della parola, cioè di colui che è disposto a dare il proprio tempo e quindi la propria vita per l’amico/a.
Un primo nucleo rispose all’invito, il resto è stato un fiorire spontaneo in un terreno estremamente fertile. Fu un susseguirsi di aiuti, di partecipazioni, di adesioni. La risonanza fu incredibile: basti ricordare che le prime nuove sedi dell’iniziativa in pratica disegnavano i confini del nostro Paese. Senza uno di questi eventi la nostra iniziativa non sarebbe come oggi la vediamo: unione di talenti, tutti di pari valore.
Il centro della vocazione del nostro volontariato è l’apertura all’amore come dono di sé in risposta a tre domande che ognuno dovrebbe porsi per realizzarsi come persona. Ognuno avrà la sua “risposta” a queste domande, quindi io posso solo enunciare le mie risposte.
Chi sono? Una creatura di un Dio Padre e quindi l’altra/o è sorella e fratello. Nei limiti di creatura potrò fallire ma la realtà e la meta rimangono queste.
Perché ci sono? Fra gli esseri viventi ho la caratteristica peculiare del linguaggio e quindi della memoria e della progettualità, della possibilità di comunicazione e dell’autodeterminazione dell’attimo presente. Per questo siamo posti al centro del creato, responsabilizzati a collaborare con il Creatore nell’evoluzione progressiva verso il bene.
Cosa voglio? Costruire in armonia con l’altro il Bene Comune e credere, avere fede che dal bene comune dipende anche il mio vero bene personale. Così il bene comune darà anche la pace del cuore perché non vi sarà ragione di difendere privilegi.
La regola generale si può riassumere così.
Amare per primi: ciò che è necessario deve essere dato per dovere, ma amare per primi vuol dire muoversi verso un altro che ancora non conosci perché hai scelto la via dell’amore.
Amare tutti e sempre: ovvero non fare differenze di simpatia, di attrattiva, di razza. Non emarginare nessuno.
Saper fare il vuoto di sé: ovvero non avere preconcetti, non voler insegnare, non ritenersi depositari del giusto e della verità, non strumentalizzare l’altro per le nostre ansie e problemi. Così il problema dell’altro potrà essere accolto come nostro.
Si potrebbe criticare tutto ciò come atteggiamento masochistico o almeno utopistico. Rispondo no: è apertura alla speranza che l’amore donato ritorni e nasca così un “valore aggiunto” che da soli non possiamo realizzare: la reciprocità, altrimenti detta fraternità. Sempre agognata perché presente nel fondo di ogni cuore, ma spesso soffocata da egoismo e individualismo.
Spesso la sua ricerca ha coinciso con il martirio come è avvenuto anche per il Figlio di Dio.
La reciprocità presuppone due poli di uguale valore e importanza per essere realizzata. Qui si apprezza il dono della diversità perché la somma di uguali è solo una somma. L’unione nell’amore dei diversi consente di unire i talenti presenti in ognuno, talenti che sono diversi.
In biologia intravediamo nella diversità la base per l’evoluzione al meglio.
Ma è evidente anche che ciò accade per il rapporto interumano realizzando la possibilità di procedere nel cammino per la ricostruzione dell’armonia in cui fummo creati e che andò persa. Questo processo è valido per l’unità d’amore fra i due sessi (massima differenza), ma anche in ogni altro caso: quindi anche fra sano e malato.
Se questo è vero si può riconoscere uno scopo anche per la contingenza della malattia. Nella reciprocità il malato per “sua” volontà diviene attivo nella costruzione della reciprocità e non più solo terminale passivo del pur necessario processo diagnostico e terapeutico.
È opportuno dare ad ogni termine un significato preciso.
Il dolore è un sintomo che avverte di qualche cosa che non va nella persona. Il dolore è pertanto il grande difensore dell’integrità dell’organismo. Deve essere lenito con tutte le forze e il massimo impegno, ma non prima di averne diagnosticato la causa. Ogni buon medico lo sa e il dolore e la sua cura sono una sua specificità.
La sofferenza è un termine comprensivo di orizzonti più vasti. Possiamo affermare che essa compenetra tutta la vita umana. Il bambino nasce piangendo (ed è così che si salva) e la persona muore sola. Lo studio, l’allenamento, il lavoro, la produzione artistica hanno aspetti di sofferenza. La stessa riproduzione è sofferenza e ogni madre lo sa. La sofferenza è alla base di ogni conquista umana, ma quest’ultima la giustifica e la può rendere addirittura gradita. La sofferenza è meno accettabile se appare inutile (la malattia) o cattiva (quando colpisce un innocente). Nella sofferenza la reciprocità trova però terreno fertile perché nella sofferenza vi è quasi sempre verità, trasparenza, anelito al bene, solidarietà e sussidiarietà (cioè soccorrere e servire la persona). La reciprocità può essere allora giustificazione della sofferenza.
La reciprocità ha un valore concreto e dimostrabile o è solo fine a se stessa? Il cristiano sa che il premio definitivo è al di là di questo mondo. Tuttavia se ne possono riconoscere i valori anche nella nostra quotidianità. Un valore attuale: molte ricerche hanno dimostrato che se regna reciprocità il malato guarisce prima ed esprime meno esigenze fisiche e psichiche. Un valore sociale: la reciprocità è fonte di letizia. Questa non è facilmente descrivibile, ma è valida la proposta «vieni, prova e constaterai». La persona è sempre alla ricerca della letizia, se la trova ne diviene apostolo. Così si prospetta il miglioramento della società. Un valore spirituale: per questo basta scorrere le esperienze di volontari e malati per poterlo constatare. Un valore universale: una società migliore si sentirà più vicina anche alle esigenze di un mondo lontano.
Qualunque sia l’atto d’amore grande o piccolo è nella reciprocità di pari valore per la realizzazione dell’agape.
Si pone il problema di difendere il carisma della reciprocità da possibili strumentalizzazioni, quali vedere il volontariato nella sola prospettiva di un utile economico e di un offuscamento della tradizione. Molto si parla dell’azione immediata presso il malato, della gratuità, della libertà. Il volontariato ha però un’altra funzione non certo di minor valore, che è quella profetica.
Profeta non è solo colui che porta a conoscenza del prossimo la volontà di Dio di cui è stato fatto depositario, ma è profeta ogni uomo che si dedica alla costruzione del Bene Comune. Infatti il bene comune è nella volontà di Dio, quindi ogni volontario è profeta.
Come concretizzare la funzione profetica? Esercitando una critica propositiva: osservare, sperimentare, ricontrollare, proporre il rimedio per ciò che non combacia con l’agio del malato. Tutto ciò senza rinunciare all’agape. Progettare con carattere originale, innovativo, con finalità al bene comune della salute. Richiedere una funzione consultiva come previsto dalla legge, per ogni decisione che riguardi il bene comune e la giusta distribuzione dei mezzi disponibili. Questo non è sufficiente: bisogna esigere l’ascolto e cercare le vie per rendere di pubblica conoscenza il parere espresso dal volontariato (qualche reality in meno e qualche disponibilità culturale in più). Avere come finalità verità e trasparenza ogni volta che si decide in termini di bene comune.
Per essere profeti occorre essere disponibili al sacrificio: quindi formazione e preparazione in termini di etica, bioetica, diritto sanitario e criteri distributivi.
Occorre inoltre affidarsi al discernimento che prevede tempi successivi. Primo: pensare, meditare e, perché no?, pregare. Secondo: comunicare il proprio pensiero con disponibilità a perderlo per potere ricevere il pensiero dell’altro e raggiungere così un pensiero comune. Terzo: l’agire diverrà conseguenza di un pensiero e di una cultura frutti dell’unità.
La ragione di esistere dell’associazione è l’agape fra volontari. L’agape che si vuole poi esportare verso il malato dopo aver applicato il discernimento.
L’apertura all’amore, l’agape nell’associazione e nel rapporto con il malato, saranno le fonti della sapienza che guiderà ad una partecipazione illuminata. Così potremo realizzare una vera terapia specifica per il malato, ma anche per il sano, che guarirà dalla malattia peggiore dell’umanità: egoismo, indifferenza, individualismo. In nome della reciprocità il curante diventerà a sua volta curante del curante.
di ERMINIO LONGHINI
La relazione: l'essenza dell'arte medica
i medici si raccontano