La situazione a partire dai dati per capire cosa sta accadendo, prendere le dovute precauzioni e compiere scelte di responsabilità a livello personale e politico.
A livello planetario la pandemia da Coronavirus sta raggiungendo il suo apice e, come in una cronaca medievale, il mondo globalizzato del XXI secolo non sembra sfuggire alle antiche regole delle epidemie: nobili e villani, pezzenti e gran signori, nessuno può dirsi immune al suo influsso.
Le cronache (mediatiche) di questi giorni ci insegnano ancora una verità antica: il morbo varca confini e muraglie, filtra dalle cancellate dei luoghi più esclusivi, ignora le gerarchie sociali; nel farlo mette a nudo le contraddizioni e le fragilità della nostra società e questo impatto riguarda tutti noi.
In molti dei Paesi che hanno superato il periodo del primo picco epidemico, i casi di Sars-CoV2 sono di nuovo in aumento e l’Italia non fa eccezione.
C’è una seconda ondata in Italia? Sarà come la prima?
Anzitutto, la prima fase di una epidemia parte da zero, mentre la ripresa inizia da una base, corrispondente al minimo di casi raggiunto dopo il picco (12.230 casi, di cui 795 ricoverati, il 30 luglio).
In effetti, fin dai primi giorni di agosto, il numero dei pazienti attualmente positivi ha ricominciato a salire, e la questione ha preso una piega più allarmante negli ultimi giorni, riportando i valori dei positivi quotidiani a livelli preoccupanti.
Cosa è cambiato rispetto alla volta scorsa?
Tuttavia, lo scenario è diverso. Anzitutto il servizio sanitario ha messo in campo un grandissimo sforzo organizzativo, che ha migliorato la gestione dei casi e la possibilità di proteggere cittadini e operatori sanitari: inoltre sono state disposte misure che permettono di ridurre la circolazione del contagio nella popolazione e individuare i contagi.
Questi aspetti pesano, molto più di quanto si creda, nei numeri di oggi: proprio in questo momento delicato è quantomai necessario attenersi ai fatti e non alle opinioni preconcette.
La salita della curva dei casi sembra forse meno ripida della prima fase anche se il fenomeno può evolvere molto rapidamente in modo ben diverso, come purtroppo abbiamo imparato a marzo.
Di certo c’è che attualmente l’epidemia si sviluppa attorno a focolai noti e che riusciamo a conoscere un numero molto maggiore di asintomatici. In pratica, si può dire che non guardiamo più la punta di un iceberg, ma osserviamo il fenomeno per intero (o quasi). C’è ancora una buona speranza di controllare i focolai e se riusciamo a mantenere questo equilibrio, l’aumento dei casi sarà graduale e avremo una diffusione della malattia controllabile.
Ci sono meno casi gravi e meno ricoveri, in proporzione, rispetto alla prima fase. Dato positivo, spiegato sia dalla modifica dell’età media sia dalla migliore organizzazione dei servizi, nonché dal fatto che nelle prime settimane si vedevano solo i casi gravi e ospedalizzati, con tantissimi asintomatici che sfuggivano.
La riduzione dell’età dei contagiati fra prima e dopo il lockdown, è comune a diversi Paesi: da noi i casi degli ultimi 30 giorni, al 26 agosto, hanno una mediana di 31 anni, mentre per tutti i casi tale valore è 59 anni.
In conseguenza di entrambi questi fenomeni si è ridotta nel tempo la percentuale di positivi che hanno bisogno di ospedalizzazione (dal 55-60% del mese di marzo 2020 all’attuale media del 5,5%) e di posti letto di rianimazione (dal 10% al meno dell’1%) e quindi l’impatto sul servizio sanitario: bisogna però considerare che se i casi aumentano in maniera incontrollata i ricoveri diventerebbero troppi per qualunque organizzazione.
Cala il rapporto fra tamponi e casi (servono sempre meno tamponi per trovare un caso). Non sorprende: se i tamponi vengono fatti per controllare i contatti di un focolaio, la possibilità di trovare dei positivi è molto alta. In questo momento il rapporto tamponi/casi è più che altro un indicatore della nostra capacità di tracciare.
Per sapere quanto è diffuso il virus nella popolazione, bisogna invece scegliere un campione casuale, con determinate regole statistiche, e vedere quanti positivi ci sono. In Italia, questo è stato fatto con diverse indagini, la più importante delle quali è quella del Ministero della Salute che ha mostrato come il virus, fino ad ora, sia entrato in contatto con il 2,5% dell’intera popolazione da zero anni in su.
Sull’espressione clinica (gravità) della malattia per chi si contagia, c’è un dibattito sorprendentemente acceso. La malattia da Coronavirus non è cambiata: come sempre, l’effetto della positività al coronavirus è molto dipendente dalla fascia d’età: giovani e bambini tendono ad essere asintomatici o al più sviluppano sintomi lievi (con eccezioni). Se si guardano i dati della gravità clinica per fascia d’età si vede che quelli riferiti agli ultimi 30 giorni (primo grafico) sono uguali a quelli cumulativi dall’inizio della malattia (secondo grafico).
Fonte dei dati (al 26 agosto): https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/sars-cov-2-dashboard
Il fatto che tanti malati siano giovani (quindi meno gravi) e che conosciamo meglio quanti sono gli asintomatici alimenta il dibattito se un contagiato si debba definire malato: questione posta male, perché in medicina il soggetto positivo asintomatico ha un nome specifico, ed è portatore sano.
È bene sapere che chiunque può essere un portatore sano per moltissimi germi, anche patogeni e responsabili di malattie gravi, come la salmonellosi, la meningite, l’intossicazione stafilococcica o la mononucleosi: il nostro corpo convive con miriadi di germi dalla notte dei tempi e il sistema immunitario conduce una incessante battaglia per tenerli sotto controllo. Non sempre riesce ad eliminarli del tutto.
L’utilizzo di mezzi di protezione personale per impedire la circolazione di germi da portatori sani verso ambienti a rischio o persone fragili è un gesto quotidiano, assai diffuso ben prima di questa pandemia. Ne sono esempi il sanitario che opera in sala operatoria, il cuoco che prepara il tiramisù, il genitore di un bambino che sta guarendo da una malattia ematologica, il tecnico di laboratorio che produce un microchip.
Le misure di igiene e profilassi servono a questo: trascinati dal dibattito mediatico, non dovremmo vederle come una restrizione temporanea dovuta al virus, ma come un pezzo della nostra etica sociale e del comportamento civile.