Ovverosia: che spazio occupa l’arte nella mia vita? Qual è il valore della produzione artistica italiana come contributo alla ricchezza e alla cultura del nostro Paese?

Ultimamente abbiamo assistito a rapide e importanti trasformazioni nella nostra quotidianità. Ma la routine dell’Italia è rimasta invariata. C’è quel “vivi e lascia vivere” che raramente riesce a innescare meccanismi di rivendicazione efficaci, collettivi e strutturati. Con la flessibilità permessa dalla nostra cultura, siamo più propensi a fare qualche “strappo” alla regola.

“Strappi alla regola” di cui il mondo dei lavori dell’arte e dello spettacolo vive continuamente: dai casi di importanti ensemble che lavorano sottopagati, fino al sotterraneo mondo degli artisti che, per scelta o forza di cose, lavorano spesso “in nero”, costretti a contendersi una fetta del mercato dell’industria dell’intrattenimento che, per giunta, è spesso occupato da amatori.

Avete poi notato come la parola “artista” sia anche usata come inconsapevole insulto?

«Ah, ma quello è un artista!», per dire che non si è bene inquadrati nelle logiche produttive della società; per vicinanza solidale a qualcuno da compatire; per giustificare scelte non convenzionali; per definire chi giunge a una soluzione più con l’intuito che con una formazione culturale. “Artista” per non dire “disordinato”, “egoista”, “ignorante” o, nei casi limite, “fallito”.

Nel pensiero comune, quando si parla di arte e artisti è presente un alone di indefinizione che fa annegare ogni tipo di ragionamento strutturato in quello che qualcuno ha ben definito “pensiero debole”. D’altronde, soprattutto nell’ottica postmoderna, come si possono oggettivamente tratteggiare i confini tra ciò che è arte e ciò che non lo è? Come possiamo distinguere chi è artista da chi non lo è?

Durante il periodo di quarantena appena trascorso – riflettendo anche sul mio personale status lavorativo – ho giocato ad appuntarmi alcune parole. Un work in progress che si è poi trasformato in un insieme di riflessioni intorno a un problema che affonda le sue radici nella storia sociale della scolarizzazione del nostro Paese e che sembra non aver ancora accettato il valore della peculiare produzione artistica italiana (contemporanea ma anche storica) come contributo fondamentale alla ricchezza (anche economica) della nostra vita e cultura.

Sono 7 punti da condividere con chi accetterà la sfida di parlare di tutto e anche un po’ di nulla, su un tema così specifico quanto complesso:

Professionalità.
Professionalizzare la propria attività artistica, da un punto di vista legale e economico, in alcuni casi può essere un discrimine tra chi può vivere del proprio mestiere e chi, semplicemente, agli occhi di tutti lo fa per passione o, peggio, per “divertimento”. Forse è da qui che vengono gli stridori che fanno accostare il divertimento a qualcosa che professionale non potrà mai essere. E forse è per questo che ancora dividiamo gli artisti “seri” dagli intrattenitori. Molto probabilmente all’artista non si richiede solo di poter rilasciare fattura, ma di possedere un po’ di quello spirito yuppie e imprenditoriale che riesce a rassicurare un po’ il fruitore, l’organizzatore o il manager. Magari basta indossare una bella giacca.

Originalità.
L’artista affida alle sue creazioni un mondo interiore che non può che essere espressione viva di una parte di sé stesso. Originalità non è essere distaccati da una tradizione o dover promuovere visioni solipsistiche dell’universo. Il vero parametro per misurare l’originalità è la definizione del proprio contrario; ovvero l’omologare l’azione artistica ricalcando modelli da riproporre il più fedelmente possibile. Non sembra un caso che negli ultimi anni il mercato del piccolo intrattenimento musicale sia stato dominato del fenomeno delle cover e tribute band. Come è possibile esser percepiti artisti ricalcando modelli che, molto spesso, fanno fatica ed esser percepiti come poco più che semplice intrattenimento?

Isolamento.
L’artista vive molto spesso in luoghi e contesti molto affollati (di idee, persone, stimoli), ma sperimenta inevitabilmente una sensazione di isolamento a più livelli. È quella sensazione che fa banalizzare decenni di studio e di ricerche quando ti domandano «come sei riuscito a fare questo?», e tu rispondi «così, lo sentivo dentro. Mi è venuto».

È ciò che si sperimenta quando non ci sono interlocutori, sedi e occasioni in cui si potrebbe esprimere liberamente il proprio pensiero e con persone che abbiano la disposizione d’animo giusta per ascoltarti. È ciò che ti fa apprezzare e maledire la tua manifesta unicità che il mondo ti sottolinea sempre, tacciandola anche come dannosa e corrosiva. L’isolamento è una condizione necessaria, ma dovrebbe anche essere transitoria. Perché l’arte senza l’incontro (e lo scontro) non significa nulla e non può produrre effetti significativi (autocompiacimento a parte).

Presenza.
Sono state numerose le dirette via social di artisti che hanno deciso di condividere liberamente performance, trasportandole su un nuovo mezzo di comunicazione: sono certamente contenuti che hanno riempito magnificamente quel tempo sospeso, e spesso algido, della quarantena.

L’insegnamento più grande che però abbiamo tratto da questa esperienza è che l’arte può riempire la nostra vita, ma non può essere solo un’ospite occasionale o un riempitivo di lusso per i nostri vuoti e silenzi. La presenza, il “qui ed ora” di Walter Benjamin, è il vero valore aggiunto per molte forme d’arte performativa. Uno schermo è spesso una proiezione sfocata di una vita e del nostro sentire.

Complessità.
Un fenomeno artistico è qualcosa di complesso. Qualcosa che puoi guardare da più punti di vista. Qualcosa a cui puoi rivolgere molte domande e lui ti risponderà sempre, in base all’intensità della tua domanda. Ci sono domande più superficiali e domande più profondeintime o collettive.

Un’opera d’arte mantiene la sua validità nel tempo finché parlerà a qualcuno: è la nostra occasione per interloquire, per capirci, e per capire il mondo attraverso associazioni sintetiche e emozioni. Sì, perché l’arte spesso non dà risposte, ma riesce a sollevare grandi domande nella relazione. Sicuramente l’appiattimento promosso da molta industria culturale è ciò che ci ha fatto confinare la musica, l’arte grafica, il cinema nei momenti meno significativi e intensi della nostra vita. Quelli in cui non vogliamo pensare. Quelli in cui farci delle domande potrebbe risultare anche pericoloso.

Etica.
Potrà apparire reazionario, ma sento che una certa etica sia sempre da ricercare nell’arte. Perché gli artisti, anche inconsapevolmente, perseguono sempre qualcosa che sfugge ai meccanismi strettamente economici e lavorativi. Fosse anche solo un’idea che discrimina ciò ciò che serve da ciò che è superfluo.

L’arte ha lo strano potere di mettere a contatto le donne e gli uomini del mondo con qualcosa che va al di là della stretta quotidianità e, allo stesso tempo, è anche dentro essa. Mi piace vedere l’arte come un processo di sensibilizzazione, in grado di farci riscoprire più vicini a qualcosa che non possiamo né vedere né toccare, ma solo intuire. Cos’è questo qualcosa? Forse l’amicizia, l’affetto, la memoria… rivalutare l’aspetto etico dell’arte potrebbe essere l’inizio di una vera e propria rivoluzione sociale.

Divertimento.
La definizione di “artista” vive sulla sottile linea tra giudizio del pubblico, giudizio della società e autodefinizione. Se da un lato gli artisti sentono banalizzata la loro attività se considerata semplicemente intrattenimento, dall’altra, il pubblico, non percepisce una netta e effettiva separazione tra industria dell’arte e del divertimento. Forse perché una è (giustamente?) inglobata nell’altra.

C’è un retaggio, simpatico e inquietante, anche descritto in Le vacanze intelligenti di Alberto Sordi: ciò che è culturale spesso annoia. In ballo mi sembra esserci il significato stesso della parola “divertimento”. Il divertimento ha invece lo scopo di essere compenetrato alla vita e all’arte e – anche attraverso la trascendenza e quella leggerezza di calviniana memoria – può farci accedere a godimenti estetici a cui il cervello, da solo, non potrà mai arrivare.

Al termine di questo diario non so bene cosa sia rimasto. Forse sarò riuscito a stendere solo un articolo “disordinato”, un po’ “egoista”, poco sistematizzato, magari destinato a fallire. Molto probabilmente potrà sollevare un po’ di curiosità o, nel migliore dei casi, far nascere qualche domanda.

Vorrei tanto che una domanda fosse: «Che spazio occupa l’arte nella mia vita?».

Sì, perché l’arte sarà uno dei settori che nei prossimi mesi farà più fatica a ripartire e ci sarà da trovarle un posto – non dico di rilievo, ma semplicemente una collocazione – nella nostra vita.

Ludovico Peroni

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