specializzazioneLa metodologia della conoscenza in medicina, al giorno d’oggi, si avvale della sempre più spinta e ardita analisi dei fenomeni patologici, e in particolare della sempre più efficiente loro analisi biologica. Si assiste perciò ad un approccio di tipo riduttivo, si suddivide sempre di più l’analisi biologica per meglio descriverla.

I risultati di tale approccio sono indubbiamente stati fecondi. Si pensi soprattutto all’ultimazione del Progetto Genoma Umano che consente di descrivere e anche interpretare dal punto di vista dei geni l’aspetto, per così dire, organistico. Ma ad una più profonda riflessione si avvertono anche alcuni svantaggi di tale approccio.

L’individuo è, dal punto di vista di quelli che praticano la medicina seguendo tale metodologia, ridotto ad assemblaggio genetico, ridotto a complesso, sì vivente, ma affidato a processi conoscitivi che richiedono un approccio tecnologico, pur sempre riduttivistico.

L’individuo, cioè colui che per sua natura non è divisibile, è stato smembrato con conseguenti ripercussioni psichiche nonché fisiche: il paziente, purtroppo, sperava in una comprensione globale del suo essere da parte del suo medico. La specializzazione ha perciò comportato anche come conseguenza che potrebbe non esistere, a tutt’oggi, per ogni paziente, il suo medico.

Ma chi potrebbe comunicare al paziente che è persona, perciò indivisa e indivisibile, la verità sul suo corpo o sulla sua psicosomaticità, se non una persona, il medico, che non soggiaccia al condizionamento del riduttivismo tecnologico, ma che veda oltre la spartizione della analisi tecnica?

Vedere oltre: mi sembra che questo possa costituire una proposta di svolta per aiutare a risolvere il problema.

Oggi in molti ambiti filosofici e scientifici, e anche medici, si vede sempre di più la necessità del cosiddetto approccio pluridisciplinare. Si tratta di una convergenza metodologica che, per superare l’impasse del riduttivismo tecnico-scientifico, pensa che sia possibile mettere insieme la maggior parte dei risultati tecnici conosciuti per conoscere esaurientemente tutta la realtà da conoscere, su un malato, ad esempio. Tale approccio ha sicuramente dei vantaggi; consente di conoscere “di più” circa un problema o tutti i problemi emersi.

Conosce di più, ma è realmente un approccio che è in grado di cogliere la verità sul malato e la sua condizione di persona che soffre di un limite (la malattia)? A ben osservare si avverte che, forse, pur se lodevole, non basta mettere quanti più specialisti possibili intorno ad un tavolo per operare un assemblaggio anatomico, fisiologico, biologico che riguardano il malato soggetto delle nostre cure. Le varie discipline si trovano su uno stesso piano, possono descrivere solo un piano, una superficie, ma il soggetto in esame, oggetto della nostra attenzione, possiede una valenza metadimensionale.

La strada allora deve proseguire oltre la pluridisciplinarietà e andare oltre.

Oltre si trova “l’oceano sconfinato” dei valori umani e spirituali. L’essere, soggetto della nostra attenzione, è una «individua substantia rationalis naturae», come diceva Boezio, irripetibile perché così è stata desiderata e voluta dai suoi genitori e dal suo Creatore. È, in fin dei conti, una persona, con i suoi sentimenti, le sue aspirazioni, le sue sofferenze che nessuna tecnologia potrà mai cogliere pienamente.

L’avvicinamento al malato cioè comunicare con lui, non può non avvenire, a mio avviso, se non in questo orizzonte perché solo sotto questa luce si realizzano i valori, la verità per il malato, la verità per il medico e tutto ciò che non può essere commensurato.

La comunicazione nella relazione medico-paziente è sicuramente l’aspetto più importante, necessario, anche se non sufficiente per la risoluzione dei suoi problemi. Essa consente intanto di cogliere le problematiche fondamentali e i tratti essenziali della sua personalità.

L’approccio che desidererei proporre è perciò un approccio che potrebbe essere definito metadisciplinare. Nella particella meta- si trovano inscritti tutti gli elementi, il più delle volte non quantizzabili né suscettibili di analisi statistica, che sono i costitutivi essenziali della persona sofferente. Inoltre, la metadisciplinarietà consente di aprirsi, non certo in modo fantasioso ma in piena armonia con la ragione, ai valori soprarazionali, cioè alla trascendenza.

Mi sembra che l’approccio così sommariamente proposto, cioè la metadiscipliarietà, in fin dei conti coincida con uno sguardo metafisico sulla persona e non possa essere liquidato tout court, pena la ricaduta nella settorializzazione degli approcci, perciò in una pseudoconoscenza. Tale proposta potrebbe applicarsi già nella formazione del medico ai livelli istituzionali e alla formazione continua del medico per un aiuto nel suo rapporto con il paziente.

È la qualità della sua comunicazione che verrebbe a giovarsene, inoltre in questo legame che soggiace alla luce della verità, è la qualità dell’aiuto che verrebbe a beneficiarsi. Il paziente sentirebbe che il suo essere non viene aggredito – tale è l’impressione che accusano i pazienti quando vengono sottoposti inesorabilmente e ripetutamente anche in una stessa giornata (per le esigenze del DRG) ad una serie di esami non invasivi o invasivi da differenti tecnici e medici, ai quali non raramente acconsente pur senza una sufficiente informazione –, ma accompagnato e custodito nell’ora della fragilità e del bisogno.

Tale invito metodologico, che si fonda su basi razionali, può essere proposto su vasta scala perciò anche a non credenti.

Certamente è nell’ambito della fede biblica che trova il suo ultimo fondamento ed, eventualmente la sua buona conferma. Il Creatore, che è insieme caritas e logos, è sicuramente idoneo a custodire anche la ragione umana.

di PATRIZIO POLISCA

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