La mia esperienza fa riferimento in particolare agli anni in cui, nell’Ospedale “C. Forlanini” di Roma, sono stato dirigente del Servizio accettazione-astanteria-pronto soccorso pneumologico, dal 1977 al maggio 1984 e Primario della VI Divisione pneumologica (1984-1989), quindi della XIII Divisione pneumologica dal settembre 1989 sino al pensionamento, avvenuto nel 1996. E va inserita in un contesto preciso: la trasformazione della “sanità” in seguito all’applicazione della Legge Mariotti che istitutiva il Servizio Sanitario Nazionale.
Tale trasformazione non risultò indolore né mancarono motivi di scontro nella rivisitazione e deliberazione delle Nuove Piante Organiche (con Presidente e Consiglieri eletti politicamente).
Questo nuovo “clima” esaltava l’arroganza del dipendente protetto politicamente. E paradossalmente l’interesse al malato veniva, in parte, disatteso.
Quale vincitore di concorso interno mi era stato assegnato il Servizio accettazione-astanteria-pronto soccorso pneumologico, che era allo sbando. I miei due predecessori si erano, in breve tempo, succeduti e dimessi per le notevoli difficoltà riscontrate nella gestione. Il personale medico e paramedico risultava carente numericamente e non sufficientemente preparato e motivato e, per altro, operante in una struttura per buona parte non a norma di legge.
Ogni mattina prendendo servizio coglievo un totale distacco di tutto il personale dalla struttura e dal malato. Vicendevolmente coprivano le proprie inadempienze e assenze dal servizio. Spesso mi ritrovavo a fare la visita mattutina del reparto da solo ed ero nell’impossibilità di distribuire il personale nelle varie sezioni del Servizio.
Questa carenza globale si verificava a fronte di un notevole afflusso di malati (oltre che pneumologici anche di medicina generale) bisognevoli di prestazioni immediate.
Un ambiente, dunque, di grande sofferenza dei malati.
E anche mia, personale, che avevo lasciato, in qualità di Aiuto, un reparto diretto da un valente primario pneumologo (il prof. F. Ingrao) e un’équipe medica eccellente. Ogni mattina, già nel lungo tragitto da casa all’ospedale, avvertivo la solitudine e le amarezze che mi aspettavano, di ogni genere, inclusa quella provocata dalle avversità che riscontravo nella Direzione sanitaria non collaborativa, ma anzi ostativa. Una volta arrivato, però, entravo in reparto con il sorriso sulle labbra: questo era il mio campo di battaglia, dove iniziai a lavorare duro per dare soluzioni ai diversi e molteplici problemi. Senza aspettarmi risultati immediati.
La prima strategia fu l’impegno personale quotidiano, il dare il buon esempio nella fedeltà al mio compito. Contemporaneamente, lavorai a formare tutto il personale: i medici, gli infermieri, gli ausiliari.
In altre parole, mirai a sensibilizzare il singolo operatore sanitario a far bene il proprio dovere in vista di un unico scopo: il bene del malato e il risanamento dell’intera struttura, in cui il malato era inserito. Cercavo di trasmettere l’onestà, la serietà, la conoscenza del mestiere, la competenza medica, e di far accettare la severità che, soprattutto all’inizio, occorreva. Tutto questo non con atteggiamento punitivo ma collaborativo, in un clima improntato al rispetto reciproco, alla cordialità, alla comunicazione, al mettersi nei panni dell’altro per cercare di capirne le ragioni.
Di quel primo periodo ricordo una riunione convocata dal Presidente dell’Ente e dal Direttore Generale sanitario per un ennesimo attacco alla mia nuova impostazione. Dissi fermo: «al personale insegnerò a conoscere e ad amare il malato e una volta che avranno recepito l’amore verso il malato vedrete che le cose cambieranno». Un linguaggio davvero inconsueto e ardito di fronte a tali “personalità” (perché si trattava di autorità capaci di disporre di tutto e di tutti).
Questo lavoro di base si organizzava, poi, giorno per giorno, attorno ai problemi concreti usando strumenti sempre diversi legati al contesto, alle tecnologie a disposizione (o non ancora a disposizione):
Il decoro e la pulizia del malato e degli ambienti.
Mi impegnavo affinché i pazienti avessero lenzuola in buone condizioni, cibo caldo, bagni a norma, pareti tinteggiate, spazi e panchine per l’attesa (da 2 a 8 ore) dei malati assegnati nei reparti di degenza, campanelli nelle camere che ne erano carenti e per i malati allettati in corridoio in soprannumero.
La puntualità nell’iniziare il proprio turno di lavoro.
Arrivavo in reparto alle 8.00 (partendo da casa alle 7.00) e in questo modo ero anche in grado di riprendere e correggere chi aveva un comportamento ritardatario o assenteista dal servizio.
Il controllo per amore del malato: sicurezza e legalità.
Ogni volta che prendevo in consegna un reparto, quale nuovo responsabile, la prima cosa che facevo era lo “studio” accurato della struttura: le camere di degenza, i corridoi, le cucine, la mensa, i servizi. Nonché delle apparecchiature mediche.
«Controllare non è compito precipuo del primario», si potrebbe obiettare, ma se non c’è chi lo assolve, quando la posta in gioco è la salute del malato, il primario è chiamato ad agire con responsabilità e buon senso per accelerare il processo di presa di coscienza del personale.
Attivai respiratori automatici accantonati e il defibrillatore cui era stato sottratto, da anni, un pezzo.
Non mi bastava riconoscere “i bagni sono sporchi”, risvegliavo l’attenzione della caposala, quando non vedevo risultati intervenivo di persona con gli addetti alle pulizie, dopo andavo a verificare che i bagni fossero stati puliti e se così non era, dedicavo tempo per mostrare agli addetti dove non era pulito. E se ciò non bastava comunicavo al direttore e se ciò non bastava denunciavo per iscritto, affinché si provvedesse. Se necessario, arrivavo fin anche a restituire alla Direzione un operatore sanitario incapace e a chiederne la sostituzione.
Evidenziai un’infiltrazione progressiva sui soffitti. E poiché, nonostante le mie numerose segnalazioni, non venivano presi gli adeguati provvedimenti con un disagio crescente dei malati, e immaginabile aumento di costi, arrivai fino per iscritto a dire: “a chi giova?”.
Si parlava di derattizzazione, ma non si riusciva a ottenere risultati e le lamentele dei malati si facevano sempre più forti. Volli rendermi conto di persona e in cucina trovai una botola aperta che in tempi passati era servita a scaricare i rifiuti nel sotterraneo in appositi grandi raccoglitori. Scesi nel sotterraneo: trovai materiale marcito, muffa e compresi che le due derattizzazioni erano state vanificate da questo canale a imbuto che risaliva fino alla botola. Dopo averne atteso invano la chiusura, feci provvedere io stesso e il problema fu risolto.
Evidenziai che la grande scala antincendio, in comune con altre 4 Divisioni sottostanti di degenza, risultava inagibile, apparentemente solo perché trasformatasi nel tempo in deposito di suppellettili vecchie. A un mio ulteriore sopralluogo diretto, risultò anche avere l’impianto elettrico fuori uso, gli ultimi gradini divelti e la porta di uscita murata perché si era creato alla fine della scala un locale abusivo. Riuscii a coinvolgere i responsabili delle altre 4 Divisioni evidenziando la pericolosità e le conseguenze penali che sarebbero potute derivare da quella situazione. Collegialmente fummo costretti a fare una denuncia ufficiale.
Riportai le ore di lavoro straordinario del personale tutto strettamente conforme all’onestà e alla norma (solo le ore da me richieste per le necessità del reparto venivano riconosciute).
Mi accorsi della grande quantità di medicinali inutili che venivano prescritti. In una riunione ci accordammo sui medicinali che andavano prescritti e che dovevano essere da me controfirmati. E restituii alla Farmacia centrale medicinali scaduti per circa 1.500.000 di vecchie lire (era il 1977).
E tutto ciò senza trascurare i malati e l’attività scientifica e congressuale.
Quanto volentieri avrei voluto qualcuno a cui delegare questa funzione di controllo!
La concentrazione.
Che doveva essere volta sulle situazioni presenti in corsia e non su altri programmi.
La superficialità era bandita: dal rilevamento della temperatura ad un’anamnesi accurata, dalla prescrizione dei medicinali alla loro attenta somministrazione, all’efficiente rapporto con i diversi laboratori e reparti, anche la semplice azione di prendere la temperatura era importante. Chi nello svolgimento di queste adempimenti sbagliava doveva riconoscerlo per poter “ricominciare” “insieme”. Un infermiere ammise per iscritto di aver riportato la temperatura di una malata già assente e di aver inventato, su un totale di 18, 12 controlli di temperatura. Gli offrii una prova di fiducia per farne un infermiere cosciente nella sua attività, e così avvenne.
L’informazione da parte del medico al degente e ai parenti.
Riportai alla normalità e valorizzai l’atto della dimissione. Dedicavo ogni giorno delle ore stabilite per ricevere pazienti e parenti desiderosi di una comunicazione diretta della diagnosi, con l’illustrazione dei comportamenti da tenere dopo le dimissioni.
Le riunioni di formazione e informazione.
Dedicavo del tempo a riunioni quotidiane con i medici per la definizione della malattia di più rara osservazione e/o di dubbia interpretazione, sottolineando l’importanza dell’anamnesi, della conoscenza della semeiotica radiologica del torace e dell’utilizzo appropriato degli esami di laboratorio.
Si convocavano riunioni con cadenza mensile con medici e paramedici di aggiornamento professionale per far conoscere sempre meglio le “cure” in essere e gli effetti collaterali dei trattamenti e per saper “trattare con umanità” il paziente, secondo i valori della gentilezza, dell’ascolto e dell’attenzione ai desideri e domande che essi esprimevano.
Nelle riunioni di coordinamento cercavo di armonizzare l’operato del singolo con l’operato di tutti i componenti dell’équipe, secondo precise tempistiche e responsabilità.
Organizzavo riunioni per raggiungere le diverse finalità.
Riorganizzazione interna.
A fronte di un sovraffollamento dei ricoveri ospedalieri, lottai per portare una cultura diversa anche attraverso l’introduzione di: un “registro accettazione” documentante il movimento del servizio per l’intero anno, utile anche per la relazione annuale che per legge il Dirigente doveva compilare; una sezione di “filtro” per non ricoverare malati non bisognevoli; una sezione di “osservazione” del malato bisognevole di approfondimento diagnostico.
Queste funzioni furono poi riconosciute e istituzionalizzate con adeguata delibera nel 1980.
Operavo in epoca in cui non erano ancora in essere la dimissione protetta, il day hospital, la preospedalizzazione, il ricovero differito. Che sostenni, in seguito, in sede di Commissione per la formulazione della Nuova Pianta Organica di tutto l’Ente ospedaliero.
L’“efficacia” della “strategia”, con il coinvolgimento di tutti i componenti della struttura, è testimoniata da lettere autografe che custodisco gelosamente inviatemi dai malati stessi o dai loro familiari, di cui cito alcune:
Oggi è difficile trovare fra tanta umanità frettolosa ed egocentrica persone come Lei, (…) averLa incontrata è stato per me di grande sollievo in questo doloroso periodo (gennaio 1977).
La mia fervida riconoscenza (…) per l’affettuosa solerzia nell’assistenza affianco di mio padre, purtroppo condannato da una malattia senza rimedi, ma aiutato nel difficile trapasso dalla sua sensibilità di clinico e dalla sua generosità (gennaio 1985).
Lei, unitamente alle Sue colleghe, è una persona molto umana con gli ammalati e svolge la sua professione con grande passione e dedizione ed in questa maniera la vostra opera è molto efficace. (…) desidero ringraziarla per la sua squisita bontà e per la visita accurata che ha voluto farmi. (…) Il momento di lasciare il reparto mi permette, da parte mia e della mia famiglia, di dimostrarLe la mia gratitudine e il mio ringraziamento per come si è prodigato con le sue amorevoli cure a ridarmi la possibilità di continuare la mia vita quando questa, al momento del ricovero, sembrava perduta (settembre 1990).
Incontrare persone come Lei riconcilia con questo mondo frenetico e passivo (luglio 1991).
Sebbene avvolto nel dolore per il vuoto incolmabile lasciato dal mio papà (…) ringrazio Lei per l’impegno, la disponibilità, il modo in cui è stato vicino alla famiglia non lo dimenticherò mai. Ringrazio tutto il personale medico paramedico e generico per la serietà professionale dimostrata, per il senso cristiano e il rapporto di amicizia instaurato con mio padre, per l’assistenza continua anche fuori sevizio (dicembre 1992).
Altre testimonianze dell’“efficacia” sono state inviate dai pazienti direttamente al Ministero della Sanità e poi mi sono state trasmesse, per conoscenza, dal Direttore Generale dell’Azienda del mio ospedale:
La nostra gratitudine al personale medico e paramedico della XIII Divisione (…) sicuramente nessuno ci restituirà la persona che abbiamo perduto, ma in un momento come questo dove si sente solo parlare di malasanità la XIII Divisione è stata per noi un’oasi di serenità, grazie resterete sempre nei nostri cuori (luglio 1995).
...La propria moglie veniva dimessa perfettamente guarita e certamente entrambi “entusiasti” di tutto il corpo medico, infermieristico, ausiliare della XIII Divisione sempre disponibile, cortese, umano, altamente professionale. Come cittadino sarei lieto, Sig. Ministro, sapere un suo autorevole riconoscimento a TUTTO il Personale della XIII Divisione. A loro tutti un nostro sentito grazie per la speranza dataci che in questa Italia non tutto è perduto (novembre 1995).
Il riconoscimento di strutture rese efficienti si diffonde tacitamente e resta di stimolo e testimonianza di buona sanità.
di FRANCESCO GIORDANO
La relazione: l'essenza dell'arte medica
i medici si raccontano