Riportiamo l'esperienza vissuta da Federica, un’infermiera di un ospedale di Varese che preferisce restare anonima. Assiste una paziente in fin di vita. Solo alla fine scopre chi sia lo sposo segreto.

 

E poi arrivi tu. Sdraiata su quella barella, sballottata da un altro reparto al nostro. Gli ambulanzieri ti accompagnano in camera, ti spostiamo sul letto e restiamo io e te, sole in questa stanza. Sei sveglia, non riesci a parlare, indossi la tua mascherina, l’ossigeno esce impetuoso ma non è sufficiente per aiutarti a respirare. Tu mi guardi, io ti guardo attraverso la mia visiera, sei spaventata, sei sola, stai soffrendo e io mi sento davvero impotente.

In me però nasce l’urgenza di coprire quel tuo corpo indifeso, indossi un lenzuolo bianco, sporco di sangue, si esatto indossi il lenzuolo perché da qualche giorno non ci sono più camici in ospedale, due buchi nel lenzuolo, dentro i buchi le tue braccia stanche, fuori dal lenzuolo le tue gambe immobili.

Ho l’urgenza di spogliarti per coprirti il più possibile con qualcosa di pulito, qualcosa che ti faccia sentire meglio per quanto sia possibile, ho l’urgenza di pulire la tua bocca sporca di sangue e di sostituire quella maschera che ti ha lesionato le orecchie. Prendo un camice azzurro, uno di quelli che indossiamo noi, taglio le maniche troppo strette e te lo faccio indossare, ti guardo e penso che l’azzurro stia bene con la tua carnagione candida.

Ho l’urgenza di farti bella come se dovessi incontrare il tuo sposo. Ti lavo la bocca, ti medico le orecchie con delle garze, ti copro bene le gambe con il lenzuolo pulito, ti pettino i capelli con le mie dita. Cerco sulle tue mani gonfie la fede, devo togliertela subito, mi è già capitato di non riuscire a sfilarla a chi qui non ce l’ha fatta. Penso afflitta che qui nessuno ce l’ha fatta da quando abbiamo aperto il reparto. Tornando alla tua fede, sulla mano sinistra non c’è, sulla destra nemmeno, forse è stata messa nel sacchetto dei tuoi oggetti di valore. La cerco, ma ci sono solo le ciabatte, uno scialle e una vestaglia sporca di sangue, nient’altro.

Ti provo la temperatura, non riesco a rilevarla, provo a toccarti la fronte, ma la mia mano indossa tre paia di guanti e non riesce a percepire se il tuo corpo è freddo o è caldo. Vorrei poter togliermi la mascherina, la visiera, la cuffia, la tuta, i guanti, i calzari, il sudore, la stanchezza, lo sconforto e restare solo con la mia divisa da infermiera, appoggiare le labbra sulla tua fronte e sentire se scotti.

Mi guardi insistentemente, ti chiamo per nome e ti dico che farò il possibile per farti stare meglio, ti dico che andrà bene e che non devi aver paura, ti accarezzo e tu mi stringi forte la mano. Ti somministro la morfina, finalmente ti addormenti, il tuo corpo contratto si rilassa.

Penso a quanto tu sia sola e in fin di vita, penso a quanto questo virus ci stia condannando alla solitudine, a quanto sia sbagliato morire senza nessuno che ti stringa, penso a quanto sia atroce e disumano per chi è rimasto a casa non dire addio a chi ama. E penso che siete tutti il papà, la mamma, la sorella, il fratello di qualcuno e che quel qualcuno vi ha accompagnati di corsa in pronto soccorso quando ancora eravate svegli e lucidi, ma che ora non riesce a comprendere come sia possibile che proprio tu stia morendo qui.

Più mi fermo a pensare, più sale la rabbia.

Decido di uscire, mi dirigo verso la zona pulita, mi svesto, raggiungo la mia collega, mi dice che hai 92 anni e che sei una suora. Ora mi è tutto chiaro, il tuo sguardo, la fede mancante, l’urgenza di coprire il tuo corpo indifeso e l’estremo desiderio di farti bella prima dell’incontro eterno, quello stesso giorno, con il tuo Sposo.

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