Aver affrontato questa situazione di limite ci renderà davvero migliori? Libertà e responsabilità nella risposta alla pandemia. In questa situazione, per certi versi surreale, un dato che ci accomuna tutti,
almeno per ciò che concerne il contesto italiano è che nessuno di noi ha mai affrontato qualcosa di simile, qualcosa che possa essere assimilato a ciò che ci sta richiedendo il fronteggiamento della pandemia da CoViD-19 e delle sue conseguenze.
Personalmente, da napoletano, ho vissuto esperienze quali l’epidemia di colera del 1973 o il terremoto del 1980, situazioni che d’altra parte non sono assolutamente paragonabili a ciò che comporta la situazione attuale. Mi trovo a parlare con anziani che hanno vissuto il tempo della guerra e anche loro evidenziano come si trattava di qualcosa di completamente diverso: tra un allarme per pericolo bombardamenti e un altro, c’era la possibilità di uscire, incontrarsi, socializzare.
Ebbene, tale situazione innovativa genera una serie di risposte assolutamente soggettive da individuo a individuo. Condotte spesso imprevedibili, capaci di generare tensioni all’interno dello stesso tessuto sociale, spesso all’interno degli stessi nuclei familiari. In questo breve scritto, voglio semplicemente esprimere alcuni spunti di riflessione, focalizzando soprattutto attorno a due “speranze” che hanno avuto grande diffusione, anche mediatica, in questo tempo.
- Andrà tutto bene. Al principio, anch’io ero entrato in questa forma di quasi autoesaltazione collettiva orientata a una rassicurazione generale, sebbene non mi sia mai ritrovato a cantare sul balcone di casa. In ogni caso, quasi immediatamente, ho modificato questa percezione e, soprattutto a partire dalle immagini delle bare condotte fuori Bergamo dai convogli militari, ho realizzato che, alla fine, comunque, per molti non sarebbe andato per niente tutto bene. Ciò ha fatto nascere in me l’esigenza, il pudore quasi, di costringermi a far convivere la speranza, circa il bene mio e dei miei cari, con la solidarietà e la partecipazione al dolore di chi questa stessa speranza era stato costretto abbastanza in fretta a tramutarla in altro, dopo aver faticosamente elaborato il dolore del lutto e, non di rado, di lutti molteplici.
- Questa situazione ci renderà migliori. A questa affermazione, così come la prima servitaci ripetutamente dai media come un mantra e in tutte le salse, invece, non ho mai creduto, almeno non senza tutta una serie di distinguo. Viktor Frankl (1905-1997), uno tra i più significativi riferimenti della mia vita professionale e non solo, direbbe che ritenere che un evento in sé possa determinare un cambiamento, sia esso positivo che negativo, nelle persone significherebbe cadere in un riduzionismo antropologico e in particolare nello psicologismo o nel sociologismo. In realtà, l’uomo è sempre attore e protagonista, almeno potenzialmente dell’atteggiamento che assume dinanzi alle situazioni, anche le più drammatiche, stressanti e dolorose.
In tal senso, proprio riguardo quest’ultimo tema, possiamo invece dire che questa pandemia e le sue conseguenze, dirette e indirette, rappresentano per ciascuno di noi semplicemente un’opportunità, che ciascuno di noi coglierà o meno, anche in base a quello che è stato tutto il suo percorso di vita, non tanto nel senso degli eventi che ha vissuto, quanto piuttosto per come si è “allenato” a viverli, sviluppando o meno quelle risorse che la psicologia contemporanea definisce di resilienza o di crescita post-traumatica.
Pertanto, l’uomo, ogni uomo ha sì la capacità di “resistere” e addirittura di crescere attraversando situazioni terribili, come quella che stiamo vivendo, ma ciò non sarà mai un automatismo innato o de-responsabilizzante, piuttosto si tratterà di assumere, liberamente e responsabilmente, la decisione di non fuggire – e ci sono come vedremo varie forme di “fuga” – e di guardare in faccia la realtà, reggendone il peso.
Epitteto, un filosofo latino del I secolo d.C., già evidenziava come la nostra risposta non dipende dagli eventi in sé, bensì dall’interpretazione che assegniamo a tali eventi. Così ognuno di noi tende a interpretare tale situazione a seconda di come si è costruito negli anni, da come e a cosa si è “allenato”. Utilizzando una metafora, potremmo dire che un atleta che abbia sempre saltato asticelle poste a 1,50 cm di altezza, non diverrà improvvisamente capace di saltare 2 metri semplicemente perché si troverà dinanzi un’asticella posta a quel livello. Certo, se il suo allenamento avrà contemplato salti tra 1,95 e 1,98 può darsi che sia capace di fare un exploit e stabilire il suo record personale.
In tal senso, secondo il mio punto di vista, questa pandemia rappresenterà allora qualcosa di neutrale che, pur nella sua drammaticità, non produrrà necessariamente persone migliori: da questa esperienza alcuni usciranno cresciuti e migliorati, resi più solidali e sensibili rispetto a quelli che avranno scoperto o ri-scoperto come i significati più autentici e fondanti dell’esistenza e della convivenza in un “villaggio globale”; altri, come già si sta evidenziando del resto, si ritroveranno via via più egoisti, centrati sui interessi, quasi incattiviti, percependosi in credito con il destino e col mondo e, pertanto, avvertendo il diritto di prendersi ciò che è stato loro ingiustamente tolto e applicando ancor più ferocemente il criterio del “morte tua, vita mia”, esito d’altra parte espressione di un’imperante cultura occidentale, fondamentalmente individualistica e orientata al successo personale.
Ancora una volta, dunque, non saranno gli eventi ma le persone a decidere chi vorranno essere. Così come lo stesso Frankl aveva vissuto, da protagonista e da osservatore, durante l’esperienza di detenzione nel lager nazisti, che avevano rappresentato per alcune umanità un crogiuolo purificatore e per altre l’occasione, da un punto di vista morale, per toccare il fondo fino a un senso di disumanizzazione e perdita di ogni significato.