Intervista a Bernard Keutgens, Dal 2018 si trova ad Aleppo, in Siria, dove svolge l’attività di terapeuta familiare, occupandosi anche di formazione, progetti per i giovani, interventi psicosociali.

Bernard Keutgens è belga e membro dei Focolari. Dopo anni di impegno con le comunità del Belgio, nel 2015 si è trasferito in Giordania e nel 2018 ad Aleppo, in Siria, dove svolge l’attività di terapeuta familiare, occupandosi anche di formazione, progetti per i giovani, interventi psicosociali. Ha raccontato la sua esperienza dei 3 anni trascorsi in Siria in trasmissioni radiofoniche e su alcuni siti internazionali

Cosa pensi dell’attuale situazione in Siria?
Tutto è iniziato con una rivolta. All’inizio si scontravano solo diverse fazioni e gruppi, ma ben presto cinque grandi potenze militari hanno cominciato ad interferire spingendo verso un’implacabile guerra. Ecco perché reagisco male quando leggo che questa è una guerra civile. Si tratta davvero di una devastazione per mano di cittadini litigiosi? Anch’io, naturalmente, vedo la violenza, la criminalità e la corruzione che non mancano qui come altrove nel mondo. Ma, secondo me, non voler vedere le connessioni geopolitiche è ingiustificabile.

La situazione oggi, a dieci anni dall’inizio del conflitto, è per la popolazione civile, così come per me, sempre più confusa e dura: manca quasi del tutto il gasolio per il riscaldamento durante i mesi invernali (non ho mai avuto così freddo in vita mia), code alle stazioni di servizio, centinaia di persone in fila ai punti di distribuzione del pane (il pane è sovvenzionato dal governo ed è razionato, così come il gas e la benzina); da mesi abbiamo solo 3 ore di elettricità al giorno, difficile l’accesso a internet… Tutto questo in un paese in cui le riserve di petrolio sarebbero sufficienti per l’intera popolazione. Ma i giacimenti si trovano nel Nordest del Paese, e non sono accessibili. Anche gli enormi campi di grano che un tempo si trovavano al confine con l’Iraq sono stati deliberatamente incendiati da anni. Le attività economiche sono state paralizzate dalla guerra, e la povertà ha ormai colpito l’intera popolazione.

Come ti sei inserito nella comunità di Aleppo?
Da molti anni faccio parte del Movimento dei Focolari, che lavora per l’unità, il dialogo e la convivenza pacifica. La comunità dei Focolari è presente in Siria da 50 anni. In tutto il Paese ci sono circa 700 persone che condividono questi valori e questo stile di vita. Io svolgo l’attività di terapeuta familiare principalmente nei quartieri cristiani nel centro di Aleppo: accompagnamento delle famiglie, formazioni di vario tipo, progetti per i giovani, interventi psicosociali, sostegno ad altri operatori umanitari.

Sono anche responsabile del sostegno ai genitori in una scuola di 100 bambini con problemi di udito, di cui circa il 90% di famiglie musulmane. Dopo tre anni, ora sono costantemente fermato da persone che chiedono aiuto. Per tanti io sono “lo straniero con la borsa gialla”. Sanno molto di me, forse tutto. Sono uno dei pochissimi stranieri che hanno deciso di vivere qui per aiutare la gente. Anche con il mio arabo approssimativo e con il linguaggio dei segni riesco a comunicare. Grazie alle organizzazioni ecclesiali ho ottenuto un permesso di soggiorno valido per 3 anni.

Che possibilità vedi per uscire da questo conflitto terribile?
Vivendo qui, la situazione appare molto più complessa rispetto a come viene rappresentata all’estero. Le notizie sono spesso strumentalizzate in funzione di diversi interessi.

Tutti qui si sono resi conto da tempo che questo conflitto non riguarda i valori democratici, come viene spesso dipinto dalla stampa occidentale, ma i grandi interessi geopolitici e le risorse naturali. Il problema non tocca solo i diritti umani ma anche, e soprattutto, i trattati internazionali che non vengono rispettati. E ognuno accusa l’altro di essere il colpevole.

Quando cammino per strada, mi chiedo spesso quale sia la responsabilità dei Paesi occidentali, compresi gli alleati del mio paese (il Belgio), in questo conflitto. Alla Siria sono state imposte sanzioni tra le più dure e severe mai imposte ad un Paese nella storia. È impossibile commerciare con la Siria, e il Paese non ha alcuna possibilità di ricostruirsi.

Com’è il tuo rapporto con la gente?
La gente mi parla continuamente di eventi drammatici. Recentemente non è raro sentir parlare di suicidio, cosa che in questa cultura era inaudita. I giovani accusano i loro genitori di non aver corso il rischio della fuga all’estero. Incontro non di rado persone per strada che parlano da sole o gridano confuse frasi come: “Come faccio a mangiare? Cosa devo fare?”

Mi torna alla memoria, in modo quasi ossessivo, la figura di un uomo steso sul marciapiede, incontrato mentre andavo in ufficio qualche tempo fa. Era stato picchiato e derubato di tutto, e addirittura calpestato. Chi lo aveva ridotto in quelle condizioni? Era steso a terra, eppure sembrava che nessuno volesse occuparsi di lui. E lui sembrava non avere neppure la forza di piangere e gridare. Metaforicamente, anche per questo Paese mi pare che tutti guardino altrove.

A prima vista, ciò che colpisce è certamente l’enorme distruzione degli edifici, l’assistenza sanitaria inadeguata e un’amministrazione obsoleta che non riesce a far fronte ai problemi, ma dopo tutto la guerra non è finita, ci siamo dentro. Ma i danni più gravi sono soprattutto quelli arrecati dalle ferite interiori, quelle che lasciano conseguenze e cicatrici molto gravi che pesano sull’equilibrio psicologico: traumi, perdite, stress, depressione, suicidi… E ci sono i bambini e i ragazzi che non hanno conosciuto altro che la guerra, i conflitti, l’oppressione (di tutti i tipi) e la violenza; ragazze giovanissime che hanno sopportato matrimoni forzati e gravidanze precoci. Che fare di fronte all’aggressività repressa di queste persone?

 E la pandemia? Com’è la situazione adesso?
Come in tutto il mondo, la Siria non è stata risparmiata dal virus. Tutti qui sanno che le cifre ufficiali sull’incidenza del contagio e sul numero di morti non corrispondono alla realtà. Mancano i medici e il personale necessario per affrontare questo tsunami. Manca anche la possibilità di effettuare tamponi. Secondo me, quasi tutta la popolazione (me compreso) è stata infettata dal Covid, senza la possibilità di saperlo. Molte persone, specialmente i malati cronici (di diabete o patologie cardiovascolari), sono morte a causa del contagio. Paradossalmente, però, qui il Covid-19 sembra solo un problema secondario, poiché la povertà e le difficili condizioni di vita pesano molto di più.

Cosa manca per sperare in un futuro migliore?
Al momento non c’è una prospettiva di futuro. Mancano i servizi primari: ospedali, scuole, luoghi di formazione. I lavoratori qualificati sono stati i primi a lasciare il Paese, e non ci sono certo turisti, anche se le ricchezze archeologiche e naturali sono straordinarie. Mancano soprattutto investitori che credono nel futuro, che per adesso non si vede. Soprattutto, mancano segni concreti di mutamento che motivino i giovani e li convincano a non lasciare il paese alla prima occasione, investendo qui il loro talento.

Un futuro è possibile solo se si conclude un giusto accordo di pace e si annullano le sanzioni. E questo è solo il primo passo. Anche i Paesi europei dovrebbero capirlo. Occorre abbandonare un certo modo di separare buoni e cattivi, perché la realtà non può essere spaccata in due. La popolazione è stanca di violenza. Dovrebbe essere data loro la possibilità concreta di lavorare per la riconciliazione e per il bene comune, di lottare per costruire una coesistenza sostenuta dalla giustizia e dal rispetto della legge, non da armi e potere.

FONTE: CITTÀ NUOVA

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