Il rapporto medico-studenti...nella pratica clinica quotidiananella pratica clinica quotidiana. Le relazioni tra medico e paziente sono complesse e dipendono, tra l’altro, dalla personalità sia del medico che del paziente. Nel privato dello studio del medico di famiglia,

una visita medica si incentra su un paziente che il medico conosce bene da tempo,per cui non occorrono lunghe interviste ogni volta,e la visita può svolgersi in un clima che permette di individuare velocemente il problema del paziente.

Il medico di famiglia, in quanto responsabile di definire le procedure diagnostiche e terapeutiche, dovrebbe essere consapevole innanzitutto delle varie modalità con cui può avvenire il rapporto con il paziente.

Un primo modello di rapporto medico-paziente è quello della partecipazione reciproca, in cui attività e responsabilità sono distribuite tra i due partner interagenti. Questo tipo di rapporto è consigliato nel trattamento delle malattie croniche o nella diagnostica e terapia iniziale di pazienti diffidenti, o, ancora, quando è necessario prendere decisioni su determinati problemi del paziente.

Un altro tipo è il rapporto di guida-collaborazione, in cui il medico assume il ruolo di curare e gestire il paziente e il paziente accetta di dipendere dal medico, obbedendo alle sue raccomandazioni. Questo è il modello migliore per le malattie di breve durata o le fasi acute di malattie croniche.

Un terzo modello è quello di attività-passività, nel quale il medico assume piena responsabilità del processo di cura. È il caso, ad esempio, delle situazioni in cui è a rischio la vita del paziente, o il paziente è incapace di comunicare con il medico.

La scelta di una strategia interpersonale adeguata e delle modalità ottimali di relazionarsi, dipende dall’atteggiamento e dal giudizio del medico nei confronti del paziente. Caratterizzano un approccio incentrato sul paziente i seguenti comportamenti del medico: trattare il paziente con cortesia e attenzione; rispettare la sua dignità e la sua privacy; accogliere il suo punto di vista; comunicare in maniera comprensibile; considerarne esigenze, credenze e bagaglio culturale nella scelta delle diverse opzioni diagnostiche e terapeutiche; evitare di abusare della posizione di medico; ridurre gli effetti che possono avere le proprie convinzioni personali e i propri atteggiamenti verso il paziente; rispettare i diritti del paziente ed evitare di sminuirne bisogni, problemi o sentimenti; considerare la prospettiva del paziente (o la sua realtà) nel seguire le prescrizioni diagnostiche e terapeutiche, soprattutto nella fase di motivare il paziente a seguire le raccomandazioni mediche. In questo modo il paziente prende le sue decisioni sicuro che il medico si immedesima nel suo ruolo di persona malata con tutta la sensibilità che ne consegue.

È importante, poi, che il medico di famiglia sia a conoscenza dell’atteggiamento del paziente nei confronti della propria salute, per esempio di come reagirebbe di fronte a dei sintomi iniziali o al peggioramento della sua malattia, prima di andare dal medico.

L’atteggiamento pro-salute è l’approccio di un paziente per il quale la salute ha un valore positivo e la malattia, viceversa, un valore negativo. Di conseguenza, il paziente cerca di mantenersi in buona salute o in uno stato di benessere (in base alla propria idea e comprensione della situazione). Le reazioni allora possono essere: non soltanto andare dal medico, ma anche ricorrere alla medicina alternativa o curarsi da solo.

L’atteggiamento anti-salute è l’atteggiamento del paziente per il quale la salute ha un valore negativo. Di conseguenza, quando i benefici secondari di una malattia superano il prezzo dell’essere malato, il paziente inconsciamente prolunga i sintomi esistenti o ne genera di nuovi.

L’atteggiamento di non-salute è caratteristico di persone per le quali salute e malattia non hanno alcun valore, ovvero il paziente è indifferente verso entrambe e non se ne interessa. Questi pazienti non prestano attenzione al loro stato di salute.

Il medico può essere aiutato a capire il paziente se è consapevole che la natura e i tipi degli atteggiamenti suddetti dipendono, tra l’altro, dal concetto che il paziente ha della propria malattia e dalle relative emozioni. Il nostro concetto di malattia si basa sui seguenti fattori: l’informazione tramandataci al riguardo dai nostri genitori, amici, o medici; i trattamenti ricevuti o il sistema di cura, e l’osservazione di come funziona il nostro corpo. Dalla raccolta e interpretazione di tutte queste informazioni, scaturisce il nostro considerarci malati o sani. Perciò il nostro concetto di malattia è un risultato della percezione soggettiva e frammentaria della realtà e delle mutevoli emozioni che proviamo. Le emozioni, intrinsecamente connesse alla malattia, esercitano un’influenza sul rapporto soggetto-ambiente, oltre che sui processi cognitivi. Esse possono motivare un paziente ad intraprendere attività pro-salute, ma anche, viceversa, ad assumere un comportamento di difesa, che gli fa controllare le emozioni, ridurre l’ansia e migliorare il senso di benessere, anche se questo potrebbe fargli posticipare l’appuntamento con il medico. Quando il comportamento di difesa diventa abituale, infatti, si sviluppa un atteggiamento che sminuisce lo stato di malattia e porta a posporre la cura. La decisione del paziente di consultare il medico avviene a seguito di una sua analisi di guadagni/perdite. Così, a volte, può accadere che la percezione di malattia e le relative emozioni impediscano al paziente di prendere per tempo la decisione migliore. Il comportamento del medico, anche inconscio, può influire sul corso della visita. Un atteggiamento negativo del medico (conseguenza, magari, di svariate esperienze personali), che si associ ad antipatia del medico o timore del paziente, può essere soppresso o rifiutato, cosicché il comportamento del medico allontana gli appuntamenti del paziente o causa una sensazione di dissonanza cognitiva. La dissonanza cognitiva emerge quando la comunicazione è contraddittoria in se stessa, per esempio quando il medico guarda l’orologio e si muove verso il bordo della sedia, mentre incoraggia allo stesso momento il paziente ad aprirsi. Sottolineo che questi tentativi di classificare i comportamenti dei medici hanno unicamente lo scopo di ordinare la realtà, senza implicare che esistano dei modelli positivi o negativi in assoluto, dal momento che le classificazioni non definiscono un comportamento come appropriato o meno.

Qualche volta il rapporto medico-paziente subisce l’interferenza di una terza persona (lo studente tirocinante, i genitori dei bambini, il caregiver). Un incontro di questo tipo è una situazione artificiale, in particolare quando avviene tra paziente, studente e medico di famiglia, per motivi di tirocinio. L’obbiettivo di questo incontro a tre è introdurre lo studente ai rapporti medico-paziente, allo scopo di potenziare le sue conoscenze e abilità. Questa nuova situazione introduce una serie di rapporti incrociati: medico-paziente, medico-studente, studente-paziente, che possono portare a varie situazioni che il medico, nel suo ruolo di formatore, dovrebbe capire e tenere sotto controllo per raggiungere gli scopi prefissati. Il medico formatore, innanzitutto, deve tenere a mente che la salute del paziente è sempre prioritaria, mentre gli obiettivi educativi devono rimanere secondari. Per questo motivo, il tirocinio di studenti in seno al triangolo studente-medico-paziente, deve essere sottoposto a regole molto strette. D’altra parte, queste stesse regole devono avere però quella flessibilità necessaria ad adattarsi alla personalità dello studente, perché questi possa acquisire nuovo sapere e abilità comunicative attraverso il contatto col paziente.

Il tirocinio nella pratica del medico di famiglia implica rapporti tra tre persone: il medico di famiglia, lo studente e il paziente. In teoria, una triade (rapporto tra tre persone) è considerata un’unità emozionale stabile, al contrario di una diade (rapporto tra due persone). In genere, un rapporto triadico fornisce, infatti, la possibilità di gestire emozioni imbarazzanti in situazioni di tensione o conflitto.

I triangoli emotivi perdurano attraverso cicli ripetuti di interazioni tra tre persone. Essi sono necessari anche quando due persone non sono capaci di parlare di un problema. C’è bisogno che distolgano lo sguardo da se stesse e lo concentrino su una terza persona, al di fuori dello spazio minaccioso di rapporto teso, presente tra di loro. L’ingresso di un terzo per formare un rapporto triangolare offre l’opportunità di evitare il problema o di girargli attorno o quantomeno di ridurre l’intensità del conflitto. E si possono così tenere sotto controllo l’incertezza e l’ansia per un po’ di tempo.

Quando sorgono difficoltà in un rapporto tra due persone, le loro possibilità di azione sono limitate. O risolvono le difficoltà, confrontandosi tra di loro o tentando di affrontare i problemi; o altrimenti devono interrompere la relazione. L’introduzione di una terza persona nel rapporto offre una gamma di nuove soluzioni. Un gruppo di tre persone permette, infatti, lo sviluppo di diversi sistemi di coalizione. Due di loro possono unirsi, apertamente o segretamente, contro il terzo. È importante sottolineare che tali reazioni comunque possono essere completamente subconsce.

Si possono evitare modalità non-costruttive nella gestione delle situazioni di conflitto, se si privilegia sempre una comunicazione chiara e aperta e si accetta il fatto che ci possano essere situazioni nel processo di tirocinio che tendono a ripetersi. È anche necessario che il medico e i suoi studenti conoscano i metodi di risoluzione dei conflitti e di gestione dello stress. Entrambe le parti, cioè, devono apprendere le abilità di negoziazione e discussione, e migliorare regolarmente le tecniche di osservazione. E devono imparare ad esprimere se stesse pienamente nei contatti con le altre persone (comportamento assertivo). Tali capacità si possono migliorare attraverso la partecipazione ad incontri di gruppo con i colleghi, con discussioni di casi clinici e role-playing.

Commento dei moderatori

Nei nostri sistemi di formazione medica, la parte teorica viene spesso separata dalla pratica: l’insegnante si limita a comunicare il suo sapere e lascia allo studente la responsabilità di acquisirlo. Sovente, è solo alla fine degli studi che lo studente svolge il suo tirocinio presso dei malati. Ne consegue che, molto spesso, il suo atteggiamento di medico nei confronti del malato, ricopia quello assunto dall’insegnante verso l’allievo o del superiore verso il subalterno.

È evidente che una tale relazione non tiene conto della dignità del paziente, anzi è contraria alla missione del medico, anche se permette la guarigione di un problema fisico o psichico. Sappiamo ormai che nei casi di relazione “da uguale a uguale”, allorché il paziente è “un altro me”, la guarigione avviene più rapidamente e più frequentemente.

Certo è che le cose cominciano a cambiare. Ormai numerose università prevedono per i medici dei veri corsi di formazione alla comunicazione con il paziente.

Vediamo che la comunicazione migliora, se non in tutti i campi, certamente tra i medici di famiglia, ma resta ancora molto cammino da fare.

La formazione è essenziale e porterà frutti duraturi a condizione che ogni medico applichi su se stesso un serio lavoro psicologico e di continua messa in questione.

Conclusione della tavola rotonda

Ringraziamo vivamente ciascun relatore della tavola rotonda per la competenza e l’umanità con cui ci ha comunicato la propria esperienza. E ringraziamo l’uditorio, di cui si è avvertita la partecipazione attiva.

Ci porteremo dentro un’attenzione nuova: non tanto a “cercare di dire la verità”, ma a “essere veri”; e una linea di comportamento: «Fa’ agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te».

di WITOLD LUKAS, A.OLEKSIAK, E.TESLAR, B. FRANEK e J. BRAMI

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