Seminario di StudioIl rapporto medico-paziente è il fondamento dell’agire medico
anche nelle cure di fine vita, come è stato ampiamente analizzato. Man mano che la malattia si aggrava, al medico è richiesto di discutere e condividere decisioni difficili (terapie palliative, terapie sperimentali, scelte riguardo al lavoro, pratiche di invalidità o di tutela legale, ricoverarsi in una struttura o restare a casa, necessità di supporti vitali…), cercando sempre il più possibile la volontà del malato.

Nelle fasi terminali, le risposte ad eventuali dubbi etici difficilmente possono essere preordinate e regolamentate, ma possono sicuramente maturare in ogni singola situazione, in una relazione terapeutica autentica: quella  che presume da parte del medico capacità professionali e rispetto per la persona del paziente e da parte del paziente fiducia nella competenza del medico.

In molti casi, però, il rapporto medico-paziente è modificato dal fatto che il paziente non è in grado di prendere decisioni per se stesso. Queste situazioni sono diventate oggi sempre più frequenti sia per lo sviluppo della tecnologia, che può permettere di prolungare la vita anche quando coscienza e/o comunicazione sono compromesse, sia per l’invecchiamento della popolazione e la conseguente aumentata prevalenza di malattie che causano deterioramento cognitivo (es. malattia di Alzheimer). E’ stato calcolato che più del 40% dei pazienti ospedalizzati si trova in una condizione di grave compromissione delle funzioni mentali  e la percentuale sale se si includono gli altri deficit di comunicazione[1]. Le decisioni cliniche in questi casi (nutrizione artificiale, interventi chirurgici, intubazione…) sono fonte di sofferenza psicologica per i familiari soprattutto[2], ma anche per i medici[3]. Un rischio allora per i medici è quello di adottare un approccio distaccato e di delega totale ai familiari, oppure di orientarsi automaticamente per l’opzione più tutelante dal punto di vista legale, anche a costo di un approccio chiaramente sproporzionato e fonte di sofferenze aggiuntive per il paziente. Ma le persone con grave disabilità cronica rischiano pure più facilmente l’abbandono terapeutico, anche per impreparazione degli operatori sanitari a comunicare adeguatamente con loro.

A chi è demandato formalmente di "parlare per il paziente incapace” e operare in sua vece eventuali scelte personali o dare il consenso ad accertamenti o trattamenti sanitari? In Italia, una persona maggiorenne, ma incapace di intendere e di volere può avere un rappresentante legale che ne tuteli gli interessi, in forza di un provvedimento del giudice: un tutore, in caso di incapacità totale, congenita o acquisita (si parla di soggetto interdetto, in condizioni di “abituale infermità di mente”); un curatore, se si tratta di incapacità parziale (soggetto inabilitato), o – di istituzione relativamente recente - un amministratore di sostegno, che può essere designato anche dallo stesso interessato, in previsione della propria eventuale futura incapacità. Mentre la figura del tutore assume sostanzialmente i compiti che ha un genitore nei confronti di un figlio minorenne, la nuova figura dell’amministratore di sostegno è stata introdotta nel nostro ordinamento (LG n. del 9 gennaio 2004) con la finalità di limitare il meno possibile la capacità di agire della persona priva in tutto o in parte di autonomia,  assicurandogli però il sostegno temporaneo o permanente di cui necessita.


Nel titolo di questo intervento il termine “tutore” si riferisce genericamente a chi è formalmente demandato a “parlare per il paziente”.  Spesso si tratta di un parente stretto, più raramente invece di una persona non legata al paziente da vicinanza affettiva e in questi casi generalmente il giudice tutelare nomina un professionista idoneo o una figura istituzionale (avvocato, assistente sociale,  sindaco, legale rappresentante di un’associazione o fondazione…). Chi rappresenta il paziente è chiamato a dare un giudizio sostitutivo che tenga conto della volontà del paziente stesso (principio di autonomia) e, quando non la conosce, del suo miglior interesse (principio di beneficienza)[4].

Il processo decisionale clinico quando avviene attraverso un tutore non è affatto sovrapponibile a quello che matura nel dialogo con il paziente. Il rapporto a tre che si instaura,  medico-paziente-tutore, è molto diverso e più complesso del normale rapporto medico-paziente[5].

In primo luogo, anche quando giuridicamente il suo consenso agli atti medici è necessario e sufficiente, è utopistico pensare che in questa interrelazione il tutore possa essere solo un portavoce passivo del paziente, è comunque un soggetto attivo, con una sua personalità, sue emozioni e suoi propri obiettivi e valori.

E’ noto infatti che il parere dei proxy, di chi cioè conosce bene la persona, non coincide sempre con quello dell’interessato e che almeno una parte dei caregiver sovrastimi i deficit del paziente[6]. Le reazioni emotive possono influenzare il processo decisionale, in particolare per quanto riguarda le cure di fine vita.  E’ stato messo in evidenza che i giudizi del paziente e di un parente stretto riguardo ai trattamenti in scenari ipotetici di fine vita non concordano in un terzo dei casi e l’accuratezza predittiva non cambia se il decisore sostitutivo è designato dal paziente o ha potuto discutere preventivamente con lui le sue preferenze[7]. Gli errori di predizione rappresentano spesso i desideri del familiare per il proprio caro[8]. Nelle situazioni di incapacità acuta, il timore di dover prendersi cura di un familiare gravemente disabile o viceversa l’incapacità di rinunciare a una persona amata possono incidere inevitabilmente nella scelta di terapie di sostegno vitale. Nelle situazioni di  grave disabilità congenita o malattie degenerative progressive, il tutore si trova invece a prendere decisioni in un contesto di abitudine e scarso coinvolgimento emotivo, ma anche di dolore, perdite e dinamiche familiari di lunga data. Tale differente partecipazione emotiva, così come i valori e le esigenze della famiglia vanno tenute in conto dall’equipe di cura (inclusi anche assistenti sociali, cappellani, volontari, che possono fornire un sostegno) e prese in carico nella relazione terapeutica.

Inoltre, se la maggioranza dei pazienti vuol essere pienamente informata dal medico sulla diagnosi e sulle cure, ma varia notevolmente l’autorità decisionale che vuole esercitare nel processo clinico[9], quando l’alleanza terapeutica è mediata da un tutore, negoziare i ruoli decisionali è ancora più complesso[10]. Il medico, oltre a considerare se una scelta è coerente con i desideri e l’interesse del paziente, deve considerare il ruolo decisionale preferito dal tutore, ma anche i suoi legami affettivi ed emotivi con il paziente, la conoscenza della sua vita, la forza del rapporto giuridico (tutore o amministratore di sostegno). D’altro canto, è eticamente opportuno che il medico assuma un ruolo decisionale più attivo quando ha avuto modo di conoscere bene il paziente.

Ancora, se molti aspetti dell’attuale assistenza sanitaria sembrano oggi minare il  rapporto medico-paziente, per esigenze di  tempo, mancanza di continuità, focus sulla tecnologia piuttosto che sulle relazioni personali,  ancor più il rapporto medico-tutore deve affrontare sfide particolari. In molti casi, in ospedale, il medico può non aver mai incontrato il paziente né tanto meno il suo decisore sostituto prima che il paziente perdesse la capacità decisionale. La costruzione di un rapporto con un “tutore” richiede comunque tempo, che spesso manca nei reparti ospedalieri e nelle terapie intensive. I conflitti nascono soprattutto, infatti, quando il medico e il tutore non hanno avuto opportunità di comunicare tra loro in maniera efficace e costruire un rapporto di fiducia reciproca, prima di decisioni critiche riguardo a cure palliative, hospice, terapie di sostegno vitale[11]. Spesso poi, anche quando vi è un rappresentante legalmente designato, nella pratica i medici si trovano a comunicare e relazionarsi con più familiari per ogni paziente e, a volte, la grave malattia di un parente può accrescere conflitti intrafamiliari preesistenti, rendendo più arduo il consenso intorno a decisioni difficili[12].


In conclusione, per garantire anche al paziente “incapace” qualità di cure e dignità di vita fino alla fine si debbono, innanzitutto, fare tutti gli sforzi per creare condizioni in cui si possa manifestare al massimo la sua autonomia, per rischiare il meno possibile di esporlo alla proiezione dei desideri e dei valori propri del medico e del tutore. Ciascuno  ha  diritto di essere riconosciuto come persona, di essere compreso e trattato cioè nella sua individualità e dev’essere in qualche modo protagonista nel processo terapeutico.

Cosa si può fare?

In primo luogo, anche se incapace di comprendere i contenuti di un modulo di consenso informato, la persona con limitate capacità cognitive, può comunque a volte essere in grado di esprimere delle scelte e delle preferenze coerenti con i suoi valori di riferimento[13]. Per comprenderne i bisogni terapeutici e relazionali (espressi anche attraverso gesti, postura, mimica, volume e tono della voce, disturbi del comportamento…), però, si richiede la capacità di adeguare la comunicazione al suo livello funzionale. E per questo serve una formazione specifica degli operatori sanitari e di chi esercita professioni di aiuto, ma anche dei “tutori”.

Inoltre, nelle malattie croniche o degenerative che comportano progressiva perdita di capacità decisionali il medico deve saper aiutare con prudenza il paziente a prepararsi al futuro, pur senza perdere le speranze e discutere con lui le preferenze sugli obiettivi di cura, prognosi, opzioni di trattamento, valutando anche la necessità di amministrazione di sostegno.

Il rapporto medico-paziente-tutore, poi, è sempre una sfida anche di umanità e di qualità di ascolto reciproco. Serve una comunicazione aperta, fiduciosa e continuativa, in cui medico e “tutore” possano reciprocamente esprimere e condividere conoscenze e incertezze, desideri e timori, per evitare eccessi di trattamento e abbandono diagnostico o terapeutico, ma anche false convinzioni  o equivoci sugli scopi del trattamento o non trattamento…  

E’ importante condividere in equipe i punti salienti dei processi decisionali più delicati e coinvolgere il più possibile anche gli altri familiari e persone vicine al paziente.  La condivisione e la collaborazione di tutti i soggetti coinvolti sono necessarie per cercare il bene dell’”incapace” e prevenire sensi di colpa, incomprensioni e conflitti che possono coinvolgere sia i familiari che i membri dell’equipe assistenziale.

Nell’attuale organizzazione sanitaria complessa, non sono sufficienti, però, qualità umane, motivazione e un’adeguata formazione (scientifica, tecnica, ed etica) a livello dei singoli operatori sanitari, servono anche azioni organizzative e sostegni formativi a livello di struttura e rivolte anche alle persone che si occupano di tutele, curatela e amministrazione di sostegno.


 

 

 

 

 

 



 Mariagrazia  Arneodo* Opera Don Guanella, Roma

[1] Raymond V, Bingley W, Buchanan A, David AS, Hayward P, Wessely S et al. Prevalence of mental incapacity in medical inpatients and associated risk factors: cross-sectional study. Lancet. 2004; 274:1591-1598

[2] Azoulay E, Pochard F, Kentish-Barnes N, Chevret S, Aboab J, Adrie C et al. Risk of post-traumatic stress syntoms in family members of intensive care unit patients. Am J Respir Crit Care Med. 2005; 171:987-994

[3] Torke AM, Siegler M., Abalos A., Moloney RM, Alexander GC. Physicians’Experience with Surrogate Decision Making for Hospitalized Adults. Gen Intern Med. 2009; 24(9):1023-1028.

[4] Emanuel EJ, Emanuel LL. Proxy decision making for incompetent patients: an ethical and empirical analysis. JAMA. 1992; 267:2067-2071

[5] Torke AM, Alexander GC, Lantos J, Siegler M. The physician-Surrogate Relationship. Arch Intern Med. 2007; 167 (11):1117-1121

 

[6] Gifford JM, Husain N., Dinglas VD, Colantuoni E, Needham DM. Baseline quality of life before intensive care: a comparison of patient versus proxy responses. Crit Care Med. 2010; Mar 38(3):855-860

[7] Shalowitz DI, Garrett-Mayer E, Wendler D. The Accuracy of Surrogate Decision Makers. A Systematic Review. Arch Intern Med. 2006;166:493-497

[8] Marks MA, Arkes HR. Patient and surrogate disagreement in end-of-life decisions: can surrogates accurately predict patients’ preferences? Med Decis Making 2008; 28 (4):524-531

[9] Levinson W, Kao A, Kuby A, Thisted RA. Not all patients want to participate in decision making: a national study of public preferences. J Gen Intern Med. 2005;20:531-535

[10] White DB, Malvar G, Karr J, Lo B, Curti JR. Expanding the paradigm of the physician’s role in surrogate decision-making: an empirically derived framework.Crit Care Med. 2010; 38 (3): 743-750

[11] Hasan Shanawani, Wenrich MD, Tonell MR, Curtis JR. Meeting Physicians’ Responsibilities inProviding End-of-Life Car. Chest. 2008 Mar;133(3):775-86. Review.

[12] Torke AM, Alexander GC, Lantos J, Siegler M. The physician-Surrogate Relationship. Arch Intern Med. 2007; 167 (11):1117-1121

[13] Defanti CA, Tiezzi, Gasparini M et al. Ethical questions in the treatment of subjects with dementia. Part I. Respecting autonomy: awareness, competence and behavioural disorders. Neurol Sci 2007; 28:216–231

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