Abbiamo ascoltato dagli interventi precedenti come la fraternità abbia una plausibilità scientifica, oltre che avere origini profondamente radicate nella storia e, soprattutto, nelle religioni ebraica, cristiana, islamica. L’associazione Medicina Dialogo Comunione (MDC) intende offrire il proprio contributo per una medicina fondata sul rispetto dell'uomo nel suo insieme (corporeità, spirito, cultura), con l’obiettivo di sostenere una antropologia medica basata sulla centralità della persona.
MDC è un laboratorio di esperienze che, nel suo piccolo, ha già posto in essere progetti e microprogetti, a livello locale e internazionale, coinvolgenti istituzioni di vario grado; promuove o aderisce a progetti di cooperazione sanitaria, in particolare nei paesi in via di sviluppo. Ma vorrebbe soprattutto cercare il contributo di tanti per sviluppare quella nuova cultura, quella nuova antropologia medica che è la cultura della fraternità, come abbiamo sentito da Chiara Lubich[1]. Non è solo un concetto cristiano o meramente religioso: basti pensare alla rivoluzione francese che promuoveva i principi di libertà, uguaglianza, fraternità. Se per i primi due c’è stata tanta attenzione in questi due secoli, il terzo è stato sicuramente disatteso[2]. Eppure, chi crede nei principi della aMDC è convinto che la fraternità è possibile, si può fare.
Nel febbraio 2007, MDC ha promosso il Congresso “Comunicazione e relazionalità in medicina. Nuove prospettive per l’agire medico”, svoltosi al Policlinico Gemelli, Roma. Fotografie. In quell’occasione, professionisti sanitari di diversi Paesi e dalle molteplici competenze si sono confrontati sul valore che le dimensioni della relazionalità e della reciprocità possono avere nell’agire medico moderno.
Gli interventi e la condivisione delle esperienze hanno evidenziato l’importanza della comunicazione come costitutiva della professionalità sanitaria. Il saper comunicare non è solo un “di più” del professionista, una semplice dote umana aggiuntiva, ma un presupposto di efficacia e appropriatezza dell’agire medico (inserisci nota corretta). Ciò conduce a pensare il rapporto medico-paziente, operatore sanitario-paziente, non come una richiesta e fornitura di prestazioni ma come un servizio ad un essere umano di fronte a noi, con i suoi valori, le sue idee, il proprio vissuto, le sue difficoltà di salute o personali, e che in quanto tale, cioè in quanto persona, è da capire e valorizzare.
La relazionalità diviene anche un elemento importante nel contesto di una medicina sempre più settorializzata, che fatica a raggiungere una efficace collaborazione fra professionisti di diversi settori. L’interprofessionalità è indispensabile per rispondere ai bisogni di salute del nostro tempo (inserisci nota corretta).
La riflessione si allarga poi alla reciprocità, vista come una dimensione ulteriore della relazione interpersonale, un vero e proprio “valore aggiunto”, che non implica solo l’ascolto ma la profonda comprensione dell’altro, il fare propri pensieri, sensibilità e vissuti fino a suscitare nell’altro una risposta analoga che conduce ad un reciproco arricchimento, rafforzando, allo stesso tempo, l’identità dei ruoli (inserisci nota corretta). Reciprocità è, quindi, guardare alla persona in tutte le sue componenti accogliendo le sue esigenze cliniche come quelle del suo contesto sociale, gli aspetti etico-antropologici così come quelli morali e spirituali, giungendo a “prendere in cura” l’essere umano intero[3].
La comunicazione, la relazionalità e la reciprocità diventano, quindi, un metodo operativo: la fraternità in medicina.
Viviamo attualmente in un contesto socio-culturale in cui spesso, per dirla con Guillebaud, “il 'quanto' passa davanti al 'come', ciò che si conta diventa più importante di ciò che conta, l’urgenza (presunta) ha la precedenza sull’essenziale”[4]. Ma c’è chi non ci sta. Basti pensare alla nuova politica sanitaria che il Presidente degli Stati Uniti vorrebbe equa e solidale, per garantire a tutti le cure primarie poiché non è concepibile che oggi circa 46 milioni di statunitensi sono esclusi da qualsiasi forma di assistenza.
In questo contesto, la aMDC sperimenta in ambito sanitario gli effetti del metodo della fraternità, un vero e proprio “modello culturale basato sulla reciprocità interpersonale, nella quale ogni persona orienta pienamente la sua attenzione ai bisogni e alle preoccupazioni degli altri, riconoscendo la dignità di ogni uomo, donna o bambino e, in modo speciale, di chi è nella sofferenza”(Chiara Lubich, inserisci nota corretta).
Questo metodo è stato sperimentato in innumerevoli esperienze di tanti operatori, anche presenti qui in sala oggi; spesso rimangono nascoste, invisibili ai più, lontano dai clamori della stampa, ma sono espressione di un lavoro quotidiano, costante, dietro le quinte, che varrebbe la pena ricordare. Ne citiamo, per brevità, solo alcune.
La Clinica Sorriso, in Brasile. E’ un ambulatorio, costruito nel 1993 nel comune di Igarassu grazie ad un’azione di solidarietà promossa dalla Dott.ssa Veneruso dell’Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze. E’ nata per far fronte alle esigenze sanitarie dei bambini che frequentavano la scuola locale. Le famiglie erano poverissime, vi era una forte denutrizione e i bambini accusavano disturbi del linguaggio e ritardo nell’apprendimento. Nei 16 anni di attività, si è ottenuto non solo un miglioramento dello stato nutrizionale dei bambini ma anche dello stato di salute generale della popolazione. L’esperienza di chi opera alla Clinica Sorriso è quella di un agire medico che non si limita alla cura della malattia ma, attento al contesto familiare e sociale, coinvolge tutte le parti in causa a mettere in atto strategie per una efficace prevenzione e promozione della salute in senso globale.
Salus – Pisa. Alla base anche dell’attività svolta dall’Associazione Salus, che porta avanti progetti di sostegno ai malati di HIV/AIDS, curando sia l’assistenza ospedaliera e domiciliare che il loro reinserimento sociale, vi è lo stesso modello incentrato sulla relazionalità e sulla presa in carico globale del paziente, spesso ancor oggi a disagio o emarginato per la malattia. L’associazione si occupa anche di progetti di “peer education” – educazione tra pari -: malati di HIV/AIDS diventano educatori di altri malati.
Fontem. Fontem è un villaggio nel cuore della foresta equatoriale, in Camerun. Oggi ospita un efficiente ospedale di elevata qualità per gli standard locali. Sono sorti numerosi progetti di cooperazione cui MDC ha collaborato in partnership con vari enti ed istituzioni toscane, nazionali ed internazionali. Il metodo adottato per lo svolgimento di questa collaborazione è quello del servizio, del mettersi a disposizione, facendo attenzione a non prevaricare sulla cultura locale. I primi medici, già 40 anni fa, hanno abitato in capanne di fango, hanno mangiato il cibo locale, hanno curato e guarito, hanno coinvolto persone del villaggio per aiutarli a costruire l’ospedale, le hanno formate e tante di loro lavorano ancora lì. Nell’ospedale di Fontem, inoltre, abbiamo potuto costatarlo di persona nel recente viaggio intrapreso con un gruppo di colleghi presenti qui in sala, abbiamo osservato alcune peculiarità: l’accoglienza verso tutti, senza discriminazione di ceto, provenienza e disponibilità economiche: se una persona non ha possibilità di pagare non viene mandata via, come è possibile accada in altre strutture sanitarie[5], ma viene comunque accolta e curata, e darà, essa stessa o i suoi familiari, sempre presenti per l’assistenza, il proprio contributo in vario modo, ad esempio aiutando nei servizi, nella manutenzione, nella preparazione dei pasti, e così via.
Anche la preparazione di questo convegno è stata un’esperienza di fraternità poiché frutto di un lavoro comune, di ricerca condivisa. Ognuno, infatti, ha sottoposto agli altri le proprie intuizioni e riflessioni in un confronto continuo che valorizzava l’esperienza dell’altro. E ha fatto tesoro delle osservazioni, accogliendole, ridiscutendole, pronti anche a rivedere il proprio contributo per rispondere meglio ai criteri che ci eravamo proposti. Un percorso non certo privo di difficoltà, un percorso impegnativo, faticoso, perché ha richiesto e richiede l’attenzione all’altro, l’accoglienza dell’altro, con le sue idee e il suo bagaglio culturale. Ma nessuno di noi si è ritenuto impoverito se ha fatto un taglio, una modifica, una precisazione. Anzi, tutti possiamo dirci arricchiti e riconoscenti reciprocamente per le integrazioni e le osservazioni vicendevoli. E questo agire dice che vogliamo esprimere una dimensione non individuale, bensì “a corpo”. E se osserviamo che ciò è avvenuto tra persone di esperienza e formazione la più varia e soprattutto di religioni diverse, allora possiamo ben affermare che la fraternità in medicina non è un’utopia.
Da questo modo di operare scaturiscono alcune osservazioni:
· il prendersi cura è rivolto alla persona nel suo insieme, nei suoi bisogni, e non soltanto, quindi, alla risoluzione di uno stato di malattia;
· pazienti e familiari diventano protagonisti e si ritengono soddisfatti, accolti, valorizzati;
· migliora spesso il risultato terapeutico;
· l’équipe si fa coesa, unita, migliorano le relazioni tra colleghi, tra le diverse figure professionali, tra operatori e pazienti, e questo spirito di unità potenzia il grado di soddisfazione e di gratificazione personale e orienta verso la realizzazione professionale;
· l’agire medico diventa reciprocità e relazione.
La cooperazione, l’attenzione al più debole, lo stare dalla parte dell’uomo, il sostenere la fraternità, sono piccole gocce che però delineano uno stile di vita e iniziano a fare cultura. L’esigenza di ribaltare la logica del nostro operare e di esprimere, condividere e far circolare le proprie esperienze che abbiano la fraternità come nucleo del proprio agire in campo sanitario e la convinzione di possedere un patrimonio di vita professionale molto spesso ignorato o non adeguatamente valorizzato, è presupposto per individuare alcuni possibili percorsi futuri.
1. coinvolgere un maggior numero di operatori in questa riflessione e confronto, perché la testimonianza delle esperienze personali possa costituire un bagaglio culturale sempre più ampio;
2. è ipotizzabile aggiungere ai classici fattori determinanti lo stato di salute - fattori biologici, comportamentali, ambientali ed organizzativi, cioè legati al servizio sanitario – la categoria della fraternità, basata su reciprocità e relazionalità;
3. elaborare progetti di ricerca che ne studino il ruolo rispetto ai risultati terapeutici, alla soddisfazione del paziente, all’efficienza dei servizi a livello economico, organizzativo e gestionale ed, eventualmente, dimostrarne il valore aggiunto.
Ciò a cui assistiamo è un segno dei tempi. Già la possibilità di poter parlare qui, fra operatori della sanità e di altri settori, fra persone di diversa estrazione culturale, fra religioni diverse, dimostra che la via intrapresa è un sentiero ormai tracciato, è un metodo possibile. Siamo consapevoli di essere solo all’inizio di questo cammino nel quale ciascuno può e deve sentirsi interpellato. Nel frattempo, la sfida è quella di provare a sostanziare di reciprocità e fraternità il nostro agire sanitario, mettendole a fondamento di ogni relazione.
Vorrei citare a questo punto Piero Pasolini. Fisico, ricercatore nel gruppo storico di Enrico Fermi, evidenziava nei suoi scritti un concetto già noto ai fisici, la sintropia[6]. Essa è un’energia positiva, un fenomeno di aggregazione positiva, all’interno di un sistema che tende all’entropia, cioè alla dispersione di energia, alla disorganizzazione. Potremmo, pertanto, affermare che la fraternità vissuta nelle relazioni umane - ed in particolare nell’agire sanitario - è quell’aggregazione positiva all’interno di un sistema che tende alla dispersione di energia, che ci fa ben sperare di rimettere l’uomo, la persona, al centro.
[1] Mettere testo di Chiara a Firenze. “Il profondo bisogno di pace che l'umanità oggi esprime, dice che la fraternità non è solo un valore, non è solo un metodo, ma un paradigma globale di sviluppo politico. Ecco perchè un mondo sempre più interdipendente ha bisogno di politici, di imprenditori, di intellettuali e di artisti che pongano la fraternità - strumento di unità - al centro del loro agire e pensare” (Chiara Lubich, messaggio per la giornata dell'Interdipendenza, Filadelfia, 2003)
[2] “Il filosofo Gabriel Marcel sottolineava che il principio di uguaglianza e di libertà é un principio fondato sulla ragione, e corrisponde ad un atteggiamento rivendicativo dell’ “io”, che giustamente afferma: “Io non valgo meno di te, non ho meno diritti di te”. La fraternità, invece, è l’atteggiamento dell’ “io” che si decentra nel “tu”, dicendogli: “Tu vali molto, tu sei importante per me, e io so che non posso essere felice se anche tu non lo sei, perché tu sei mio fratello”. È evidente che questo atteggiamento non si spiega in termini razionali: la fraternità fra gli uomini e fra i popoli è una categoria e un atteggiamento di fede. In nome della libertà si può rubare, torturare, massacrare, etc. È evidente, dunque, che la libertà – separata dalla fraternità – può degenerare in capriccio, in libertà della giungla, dove vige la legge del più forte e del più rapace”. Da Fr. A. Degan in http://www.giovaniemissione.it/spiritualita/teomisdegan.htm.
[3] Byron Good, professore di Antropologia Medica e Direttore del Dipartmento di Medicina Sociale ad Harvard, sostiene: "Cure and Care”, cioè “cura e prenditi cura”.
[4] “Il 'quanto' passa avanti al 'come'. Ciò che si conta diventa più importante di 'ciò che conta'. L’urgenza (presunta) ha sempre la precedenza sull’essenziale. I fondamenti elementari di una società umana non possono essere ridotti al quantificabile e al misurabile. Una scuola, una maternità, un ospedale non sono fatti per essere redditizi. Si può arrivare a dire che, se finisse per prevalere la logica brutale della redditività, si innescherebbe la distruzione del legame sociale”. Jean-Claude Guillebaud – LA VIE, novembre 2008