Devo innanzitutto premettere che, sin dalla mia prima decisione di affrontare la carriera medica, decisione sofferta perché inscritta in una tradizionale familiare alla quale volevo con determinazione sottrarmi, ho considerato la mia attività, professionale prima e dopo scientifica, funzionale a un percorso di servizio alla società, alla comunità dei lavoratori e al cittadino. Dunque ho sempre evitato il riferimento a considerazioni che ritengo viete e scontate come quelle della “missione” e dell’abnegazione al malato.La cura del malato, secondo la mia concezione che è anche sociologico-politica, è la cura di una parte della società che soffre della malattia del singolo, in termini sociali ed economici. Dunque il rapporto con il paziente è anche rapporto con la società in cui il paziente vive e lavora. In primis la famiglia che deve essere portata all’attenzione del medico come nucleo essenziale della comunicazione clinica. È nell’ambito familiare che il paziente sopporta le sue sofferenze che inevitabilmente di estrinsecano e si riverberano sulla comunità di primaria vicinanza. Se poi si tratta di una patologia trasmissibile o infettiva, tale cura comunicativa assurge a rilievo di primaria importanza. La seconda area di impatto del paziente è con la comunità di lavoro, il collettivo lavorativo, in cui si riversa l’assenza della capacità lavorativa interrotta dalla fase di malattia. A tale comunità si deve anche rivolgere il curante nello sforzo di anticipare termini prognostici e riabilitativi, atti a configurare una nuova programmazione nell’ambito dell’ambiente di lavoro.
Posti questi cardini essenziali del rapporto tra curante, paziente e chi ne ha cura, deriva per corollario una più ampia area gestionale di rapporti con cui il curante si confronta. E, naturalmente, se egli tiene presente la dinamica di questi rapporti, ne deriva una maggiore difficoltà di comunicazione che può subire interruzioni o mancare del tutto, in assenza dei giusti supporti o delle giuste conoscenze.
In effetti non è dato sapere in quale area disciplinare si inscriva un processo di insegnamento di quanto vado descrivendo. Non mi risulta che la metodologia medica, la semeiotica o la stessa psicologia si facciano carico di tale tipologia didattica.
Uno nessuno e centomila sono gli episodi che una più o meno lunga carriera clinica fa venire alla memoria. Di certo non è dimenticabile “la prima volta” che nella fattispecie è la sofferta decisione clinica che si prende da soli, in assenza di supporti, del Maestro o di chi possa dare una mano. La prima grande decisione autonoma. E la ricordo perfettamente inscritta in un paziente con grave insufficienza respiratoria, al quale andava somministrato un farmaco ma era indicato anche l’antitetico: analettico o morfina, trattandosi di incipiente edema polmonare? Non sbagliai, il paziente non può confermarlo perché deceduto per il semplice fatto che sono passati molti, troppi anni. Ma le notti passate a fare il bilancio terapeutico di alcuni malati? Le notti in terapia semintensiva che improvvisamente volli istituire nel mio reparto facendo turni di 24 ore? Le notti con risveglio improvviso e vestizione notturna per andare a verificare che il malato stesse male o bene? Queste appartengono solo alla nostra sfera intima che taluno definisce coscienza, so solo che comunque il malato è “sacro”, per se stesso e per la società nella quale vive.
La realtà multidisciplinare è auspicabile, nessuno potrà mai affermare il contrario. Il fatto è che però essa è di difficile realizzazione e infatti le motivazioni alla risposta positiva indicano per sé le difficoltà in cui ci troviamo. Il concetto di multidisciplinarietà e della sua necessità trova proprio riscontro nella strategia economica, di macro e microeconomia, in cui la multidisciplinarietà è fonte di risparmio e di ottimizzazione delle risorse. In tempi in cui queste mancano per necessità primarie, il ricorso all’ottimizzazione appare d’obbligo. Tuttavia essa comporta alcuni sacrifici in termini di prerogative e di disponibilità, ciò che in Italia significa taglio delle proprie prerogative, ossia diminutio delle capacità contrattuali, ossia ancora perdita di potere.
La fase dipartimentale alla quale l’Università italiana è andata incontro, che deriva dall’esperienza anglosassone, sta ad indicare come i conflitti di potere abbiano fortemente inciso sul suo sviluppo e sulla sua attuazione, che appunto è rimasta monca. Università e potere, mafia e cattedre, sono concetti ai quali dobbiamo fare per forza riferimento nella spiegazione dell’infelice risultato della ricerca italiana. Oggi nessuno potrebbe fare a meno della multidisciplinarietà, tutti la invocano, nessuno si dimostra volenteroso a praticarla. Vi è anche una seconda motivazione, oltre alla perdita di prerogativa, vi è anche quella della sottrazione al confronto tra pari, che pari finiscono per non essere quando qualcuno ha maggiore cultura. E il confronto, che in gergo ministeriale si chiama anche valutazione, significa dover fare i conti con impreparazione, approssimazione e insufficienza culturale.
Nell’epoca in cui l’economia delle risorse appare globalizzata e senza frontiere, il mondo accademico italiano mostra tutte le sue carenze, creando un circuito vizioso per cui più è carente e più teme la multidisciplinarietà. Così la multidisciplinarietà appare impraticabile non solo in senso verticale nell’ambito della medesima disciplina, ma soprattutto in senso longitudinale tra Discipline affini o complementari. Ci vorrà un lungo periodo prima che il processo di apprendimento multifattoriale possa svilupparsi. Ed è anche possibile che questo non avvenga finché esisteranno isole di padronato e potentato universitario che sono veri e propri macigni d’ostacolo.
di Aldo Ferrara