Non sono un esperto di comunicazione, né tantomeno di psicologia. Sono medico da 32 anni, con la precisa ed immediata scelta della chirurgia, e dell’università. Ma nella mia esperienza ci sono anche circa 13 anni di medicina di base e 10 anni di guardia medica; quelli risalenti agli inizi della mia professione, quando era necessario mantenersi in qualche modo: allora gli specializzandi non erano retribuiti in alcun modo, anzi…l’ambiente universitario era prodigo di promesse e prospettive, ma estremamente avaro in realizzazioni e risorse economiche.
E così ho conosciuto e praticato anche le forme più dirette di rapporto medico, la medicina di base e la guardia medica; e non mi dispiace, perché ho imparato tante cose, come dirò poi.
Ho voluto fare questa premessa, per accreditarmi con voi: qualcuno può aver pensato: ma che ci fa un chirurgo in un convegno dove si parla di strumenti di comunicazione e di rapporto medico-paziente come aiuto alla cura e alla guarigione? I risultati di un intervento chirurgico mica possono essere migliorati da una perfetta motivazione o da un convinto consenso. Chiaramente, prevale la tecnica e la capacità. Ma non chiudiamo la porta e la comprensione ad altre possibilità e componenti, nel variegato, complesso e multiforme campo della personalità umana, particolarmente quando affronta la malattia.
E allora, oggi, come chirurgo, come medico, mi sento di poter dare una piccola esperienza nei termini che illustrerò; intendo dare dei punti di riflessione e delle provocazioni che mi sono sorte nel corso dello svolgimento della mia professione, e non intendo dare delle risposte. Quelle possono nascere dal confronto e dalla condivisione, come so siete abituati a fare in questo corso. Ci aiuteranno anche i veri esperti in comunicazione e psicologia, e la loro presenza e professionalità mi conforta, in quanto imparerò anch’io .
Vorrei partire da un presupposto, che penso abbiate già trattato, ma è bene avere un punto di partenza comune. Che cosa significa, per noi medici, curare?
[Permettetemi di presentarvi una presentazione power point di una bella canzone, “la cura” di Franco Battiato. È’ una canzone che si riferisce soprattutto al rapporto di coppia, ma voglio trarne uno spunto per partire insieme. Spero che non ci sia chi storce il naso: “ma come, non bastava il chirurgo; ora anche le canzonette ad un convegno scientifico?” Fatto è che ho scoperto quanto sia piacevole leggere alcune canzoni, evidenziando il testo, accompagnato da immagini evocate proprio dall’ascolto; vorrei condividere con voi questo piacere, mostrando il frutto di questa lettura, e magari qualcuno ci proverà e vedrà quanto dicono, con la musica e le parole, alcune canzoni. (presentazione power point)
Ecco, traggo una frase che ci può far partire: “e guarirai da tutte le tue malattie ed io avrò cura di te” Io avrò cura di te]
Quanto dell’intenzione e dell’azione di noi medici è teso alla cura degli ammalati? Tutta la nostra professione, rispondiamo. Ma quanti di noi sono capaci di dire, invece di “Io ti curo”, “Io mi curo di te”? La sottile ed abissale differenza tra il “I cure” e il “I care”, cioè mi interesso di te, mi stai a cuore? Quanti si prefiggono di aver cura del malato, e non garantirgli solamente una mera prestazione, anche la migliore possibile, la più tecnicamente evoluta e sperimentata?
Questo il punto di partenza, che volevo mettere come presupposto al nostro confronto: proponiamoci di aver cura delle persone. Un atteggiamento del genere ci apre; ne consegue anche chiaramente la ricerca per la migliore diagnosi e terapia, cioè , se ho cura di te, ti curo anche. E’ come un biglietto da visita, qualcosa che viene comunicato meglio e prima delle parole; viene percepito dal malato (lasciate che non usi il termine “utente”, che sembra mutuato dai comuni strumenti di servizio), e ne deriva il punto di partenza fondamentale: la fiducia. Questo il pilastro per costruire il rapporto medico-paziente, e badate non è a senso unico.
Si stabilisce così quell’empatia preziosa in ogni rapporto autentico, ma direi indispensabile tra medico e paziente. Qualcuno potrebbe obiettare sui pericoli di transfert o di burn out, cioè dell’attaccarsi troppo, anche emotivamente, ai malati, tanto che i fallimenti delle terapie ci risultano inaccettabili e ci procurano malattia. Se abbiamo chiaro l’aver cura delle persone e lo scegliamo come stile della nostra professione, saremo contenti di aver fatto tutto il possibile per comprendere, ricercare, curare, accompagnare, e accetteremo anche il nostro limite, il che è un esercizio salutare (nel senso che dà salute).
Quant’è bella l’espressione “medico di fiducia”, che se vogliamo era alla base del Sistema sanitario, ma poi è divenuta un po’ desueta, in quanto involgarita dalle pratiche burocratiche amministrative che ci indicano il “medico scelto”, il “medico di base”.
Invece, fiducia è un termine e una prassi da riconquistare, se vogliamo fare bene il nostro mestiere. E se vogliamo essere credibili e creduti, cioè se desideriamo veramente che il paziente ci segua nelle nostre prescrizioni e indicazioni.
Veniamo al secondo punto che vorrei porre all’attenzione di noi tutti: l’adesione del paziente alla terapia, quello che viene sinteticamente indicato con termine inglese, COMPLIANCE[1], ma potremmo bene dire osservanza.
Serie ricerche indicano che 1/3 dei malati non si attiene alle indicazioni terapeutiche; le motivazioni sono varie, dipendono da molti fattori; innanzitutto si deve riconoscere in un atteggiamento inosservante una carenza di fiducia, e qui torniamo al punto di partenza: poca fiducia nella medicina, nel medico, nei farmaci; ovviamente incide notevolmente personalità del malato: gli ammalati psichiatrici sono più spesso inosservanti, ma anche alcune tipologie caratteriali influiscono negativamente. Sono definite personalità maladattative, e possiamo citare gli ossessivi-compulsivi, estremamente metodici e ligi al dovere: riescono a collaborare solo se il piano terapeutico non suscita dubbi ed è perfettamente organizzato; i paranoici sono sospettosi, litigiosi, per loro la malattia è una minaccia per cui tendono a negarla, ed ogni piano terapeutico diventa difficile per la loro sospettosità; i pazienti con personalità passiva-aggressiva sotto una falsa apparenza di collaborazione celano ostinazione ed ostilità, per cui solo apparentemente accettano le prescrizioni, ma in realtà praticano un subdolo ostruzionismo. Anche le opinioni personali del paziente sulla natura e l’evoluzione della malattia e sui farmaci adottati influiscono notevolmente sull’osservanza . Infine, influisce ovviamente sull’osservanza la chiarezza e la completezza delle istruzioni e delle indicazioni. Un discorso a parte meriterebbe il rifiuto volontario della terapia anche in ambiti dove la somministrazione può essere più sicura, vuoi per convinzioni religiose, vuoi per espressa volontà dichiarata anche precedentemente, e qui ci addentreremmo nel campo difficile dell’obiezione, dell’accanimento terapeutico e del testamento biologico, che merita senz’altro considerazione e riflessione, ma soprattutto chiarezza dal punto di vista normativo.
Non essendo questo il tema specifico della nostra considerazione, torniamo alla casistica più diffusa, quella del comune paziente che non fa quello che gli si prescrive. Se vogliamo aver cura del nostro paziente, non possiamo non preoccuparci che esegua la terapia, perché siamo convinti che è per il suo bene. Come migliorare l’osservanza? Ebbene, si è appurato che non servono tanto le campagne di sensibilizzazione e di educazione (vedete un po’ il successo delle scritte funeree sui pacchetti di sigarette: nemmeno in un ambito tendenzialmente scaramantico e con grande attenzione agli iellatori , quale il nostro, riescono ad avere successo…); invece si è dimostrato che l’osservanza migliora se la cura è continuativa da parte dello stesso medico, il quale deve manifestare ed infondere fiducia nella terapia somministrata, che deve essere semplice, chiara, schematica; occorre prevenire i dubbi dati per es. dalla lettura dei foglietti illustrativi. La pluriprescrizione è un rischio enorme, se non accompagnata e sussidiata per esempio da tabelle orarie che abbiano dei precisi riferimenti (prima e dopo i pasti, ad es.).
Ma la cosa che ci interessa di più, qui, è questa: si è appurato che la capacità e la volontà del malato di seguire le prescrizioni dipendono notevolmente, se non esclusivamente, dal tipo di rapporto umano che si è istituito col medico, cioè da quell’empatia di cui si diceva . La trasformazione del tradizionale rapporto fiduciario medico-malato in rapporto contrattuale ( in cui il malato è un utente ed il medico un prestatore d’opera) ha influenzato negativamente la collaborazione del malato ed ha aumentato la prevalenza della inosservanza . Occorre ritornare ai modelli di fiducia reciproca, si diceva, e allora noi medici se vogliamo aver cura dei nostri pazienti, ci dobbiamo prefiggere soprattutto una valida comunicazione, che parte soprattutto dall’ascolto, anche guidato, cioè fatto di domande pertinenti; prosegue con la spiegazione, l’informazione, la persuasione. Si apre un dialogo, indispensabile. [power point: “Parla con me”] Si stabilisce un’alleanza salutare, che dà salute.
Ma qui veniamo alle dolenti note: abbiamo il tempo, l’organizzazione, la disponibilità, per dare ad ogni nostro paziente quanto gli è dovuto? Il tempo: ogni minuto che dedichiamo ad una persona è un minuto che sottraiamo ad un’altra; e sappiamo bene quanto sull’inosservanza o sul non rivolgersi ai medici influiscano le lunghe attese; inoltre, dobbiamo riconoscere i nostri limiti: quanto riusciamo ad essere lucidi e attenti dopo una sola ora? Io credo che il limite massimo di attenzione non superi i 10 minuti, e per questo credo di stare abusando di voi. Per questi motivi è indispensabile l’organizzazione. La nostra cura per l’altro non può prescindere dal tentare di trovare i modi per diminuire i disagi delle attese e per dare la giusta sensazione di accoglienza a tutti; mi spiego con degli esempi: l’avvento del computer certo ci aiuta in questo, fornendoci la possibilità di memoria praticamente infinita, il che ci fa guadagnare notevolmente tempo e spazio per un colloquio successivo; il ricevere per appuntamento, cercando ovviamente di rispettarlo, aiuta notevolmente la qualità del nostro lavoro; nonché utilizzare al meglio la collaborazione dei tirocinanti: per sei mesi all’anno i medici di base che vogliono possono avere la presenza di un collega che deve espletare tirocinio obbligatorio per l’esame di stato: a loro si può demandare una parte del lavoro più routinario, come la prosecuzione di prescrizioni, le richieste, le impegnative. Sono solo degli esempi per dimostrare quanto ognuno di noi ha a disposizione, e magari scambiando le idee e le proposte con i colleghi, si scoprono sempre più possibilità; è questa è un’altra risorsa: la condivisione con gli altri colleghi, un altro passo in quell’alleanza salutare di cui si diceva.
Ma il vero problema è la disponibilità, la nostra disposizione verso gli altri. Diciamo la verità: tutti noi siamo partiti con tanto entusiasmo, con tanta voglia di far bene e far del bene al prossimo. Poi abbiamo cozzato contro le difficoltà, le delusioni, le incomprensioni. Continuamente cozziamo contro il negativo quotidiano; e questo demolisce anche una forte determinazione. Chi può darci la forza per andare avanti, per ricominciare sempre? Dobbiamo, secondo me, riscoprire lo spirito che ci anima; come un ritornare alle origini, quando abbiamo scelto il nostro futuro, quando ci appassionavamo agli studi, quando eravamo stupiti e contenti dei primi approcci con i pazienti. Dobbiamo essere animati da uno spirito e dobbiamo rivitalizzarlo. Anche il frequentare altri che come noi fanno una scelta del genere può aiutarci; anche il ricercare e trovare uomini di buona volontà ci sostiene. Creare cioè condivisione, comunione, come una rete: permettetemi di riferirmi e citare l’associazione che propone questi incontri: Medicina: dialogo comunione. Ricordo gli inizi della mia frequentazione nei reparti, ancora studente; ero turbato dalla poca professionalità che riscontravo in molti del personale sia medico che infermieristico; tuttavia, trovavo sempre qualcuno che faceva il proprio lavoro con disponibilità, con attenzione e “gioia”; a quello mi riferivo, cercando di prendere come un modello e confortandomi e confermandomi nelle mie scelte. Che poi sono quelle che abbiamo riconosciuto all’inizio: l’aver cura delle persone, l’immedesimarsi. Per molto tempo ho desiderato far visionare un film ai miei studenti e ai miei interni:”Un medico un uomo”: parla di un illustre clinico universitario americano che dopo aver provato l’esperienza della malattia, di stare dall’altra parte, tornato all’insegnamento richiede a tutti i suoi studenti che passino un periodo in ospedale, ma da ricoverati. Ora ho saputo da ma figlia che al II anno di Medicina nel corso di Psicologia clinica (che forse è l’unico ad occuparsi delle cose di cui stiamo parlando) è stato proposto proprio questo film; peccato che dopo non c’è stato approfondimento.
Quanto detto, mi rendo conto, può avere valenza soprattutto per i medici che possono avere un rapporto continuo con i pazienti, per i medici di base, per esempio. Il discorso si complica, se ce n’era bisogno, quando si parla di specialisti, cioè di un rapporto più sporadico. Ma ciò non toglie che ci si possa esimere da quel necessario rapporto, che è fatto di ascolto, spiegazione, informazione, persuasione. Si forma un’alleanza preziosa col paziente, che diventa consenziente, partecipe. Ma per i contatti successivi, per i controlli, per la vicinanza? Qui diventa anche importante il rapporto col medico curante, la sua preziosa mediazione, il collaborare al bene della persona; in breve anche qui riscoprire quell’”insieme” che fa fare meglio le cose. Essere tutti coinvolti in quell’alleanza tesa al bene.
Parlando di specialistica, ormai tipica della Medicina moderna, posso anche dire qualcosa di specifico sul mio campo di lavoro, la Chirurgia. Come si pone il chirurgo nei confronti di chi deve subire un intervento? Anche qui, se si vuole il bene della persona , non si può fare a meno di accogliere, spiegare, accompagnare. Cioè innanzitutto investire del tempo, non “perdere”. Anche qui occorre, e ancora di più, spiegare, illustrare, Questo rasserenerà il paziente, ma può metterlo anche di fronte a verità spiacevoli o spaventose. Qui toccherà fare un’azione di rassicurazione, e anche di vicinanza; in breve, il Chirurgo non può limitarsi all’atto operatorio come un meccanico o un artigiano, ma deve preparare, seguire la sua opera e rendersi presente . Ricordo che una paziente ampiamente avvertita dei rischi della tiroidectomia, quasi mi accusava di portar male quando dopo l’intervento si verificò l’afonia temuta. Tuttavia, col passare dei giorni, col ritorno della voce, è come se mi guardasse con maggiore compartecipazione e “simpatia”, contenta di ricordare di essere stata avvertita che tale evenienza poteva essere transitoria, e anche perché nei momenti difficili non si era sentita abbandonata . Anche in questo campo, la collaborazione con altri specialisti, ad esempio gli psicologi, può favorire il rapporto medico-paziente, ma purchè si rimanga insieme, purchè si collabori, purchè non si deleghi ad altri, rilanciando la palla. La collaborazione tra specialisti: un ulteriore passo dell’alleanza per la salute. Nei reparti organizzati le equipes di specialisti si riuniscono con regolarità per studiare insieme i casi e le migliori strategie.
Si parlava di alleanza, di consenso. Nella pratica quotidiana non si può far a meno, anche per le conseguenze medico-legali, di richiedere al paziente il consenso informato , cioè mettere per iscritto le modalità dell’intervento, le complicanze previste, i rischi preventivati, in modo che il paziente possa acquisire informazioni complete ed esprima liberamente l’assenso. Ma anche qui non dovrebbe essere un atto dovuto, un mero atto amministrativo, ma l’occasione per approfondire il rapporto, e allora non ci si potrà esimere dallo spiegare, dall’illustrare, nella chiarezza e nella verità.
In sintesi, occorre partire da un discorso di fiducia, come si diceva, e questa fiducia deve essere consolidata appunto dalla chiarezza nella verità, in modo che chi deve subire un intervento possa, grazie alla fiducia, affidarsi, e affermare “Mi devo operare”, dove il verbo ha come un significato riflessivo.
Ma c’è il contraltare, il negativo, come in tutte le cose umane. Si chiama conflittualità, sospetto, il voler riscontrare dappertutto malasanità. E’ qualcosa che potremmo definire come l’antitesi di un sano rapporto medico-paziente, un “non rapporto”. Anche a questo è dovuto l’allarmante calo della scelta della specializzazione in Chirurgia; da dati commissionati dalla SIC[2] risulta che nell'arco di 10 anni, dal 1995 al 2005, il numero dei sinistri denunciati alle imprese di assicurazione in Italia, nel campo della responsabilità civile nel settore sanitario, sia passato dal poco più di 17 mila a circa 28.500, facendo registrare un incremento del 65%; sapete poi che le polizze d’assicurazione più alte riguardano proprio i chirurghi. All’istaurarsi di questo “non rapporto” è dovuto il nascere della cosiddetta “medicina difensiva”[3], cioè un atteggiamento difensivo nei riguardi di un possibile contenzioso; questo si ripercuote su tutto l’andamento diagnostico e terapeutico: dal richiedere esami e ricoveri inutili, il che in ogni caso è un danno per il paziente e per la società, fino a rinunciare preventivamente alla cura del paziente, per i possibili pericoli, ma non per il paziente stesso, quanto per se stessi. E’ la negazione della scelta del “curare”. Un rapporto basato sulla fiducia e sulla stima e una scelta di attenzione contrasta questa tendenza .
Per questo, in conclusione, mi sembra di dover ancora ribadire, insieme, la scelta di curare le persone, cioè di aver cura di esse. Questa è una scelta comune a tanti, anche nel silenzio. Sapere ciò ci consola e ci conforta, poiché sappiamo che c’è un’altra umanità [ power point un’altra umanità]
Fulvio Freda
Chirurgia Geriatrica,Policlinico II Università Napoli
Corso “Relazionarsi per curare” - Terza lezione
Caserta, 19 dicembre 2009