Ho ricevuto questo invito a scrivere un breve elaborato per gli atti del congresso “Comunicazione e relazionalità in medicina: nuove prospettive per l’agire medico”.Devo riconoscere che la richiesta mi ha lasciato alquanto perplesso.In genere, sono solito badare più alle cose pratiche e pragmatiche, almeno nell’ambito dell’oncologia, che alle disquisizioni teoriche. Ho messo il tutto nel cassetto. Però un piccolo tarlo continuava ad agire, soprattutto per l’amichevole rapporto con la collega che mi aveva invitato.Così ho deciso di mettermi davanti al foglio bianco e vedere cosa succedeva. Ho scoperto che mi è molto più facile scrivere un lavoro scientifico o una relazione clinica.
Per facilitarmi il lavoro mi sono state poste due domande, una riguarda la descrizione di qualche episodio di interrelazione con il paziente che è stato determinante per la mia formazione professionale.
La risposta è semplice: tutti, e soprattutto è una cosa in divenire. Ogni contatto con il paziente tutt’oggi modifica e indirizza la mia formazione, non solo professionale ma anche personale. Vorrei spiegare meglio con un esempio. Sono felice padre di due meravigliosi gemelli. Quando sette anni fa li abbiamo portati a casa per la prima volta dopo la nascita in ospedale, mia moglie e io ci siamo guardati negli occhi chiedendoci: «e ora?». Con in braccio questi due bellissimi esserini di tre chili ciascuno che urlavano come ossessi c’era da rimboccarsi le maniche e capire cosa fare. Il primo pensiero è stato: “il libretto delle istruzioni dov’è?”. Purtroppo mi sono reso conto che non vi era alcun libretto delle istruzioni. Che fare? È stato necessario imparare a fare il genitore imparando giorno per giorno anche e molto sulla base di quello che loro ti richiedevano e ti spiegavano. La famosa interrelazione. All’inizio è stato più difficile, erano i primi passi per me e per loro, oggi che hanno sette anni è più facile.
Credo che nella mia professione sia avvenuta la stessa cosa. Non avevo libretto delle istruzioni (nulla ti insegna l’università per il tuo rapporto con il paziente e con la malattia), ma solo una grande voglia e necessità di imparare. Molto, nella difficoltà costante della relazione medico-persona (che pure è aspetto cardine della mia professione, in particolare in un ambito così fortemente emozionale come è quello dell’oncologia), mi hanno insegnato e stanno continuando ad insegnarmi le persone che interrelazionano con me, impropriamente chiamati pazienti. Mai parola mi fu più antipatica, ma è questa oggi quella che definisce le persone malate, che “pazienti” non sono e hanno tutto il diritto di non esserlo. Non ho quindi aneddoti o episodi da narrare. Per questo bisognerebbe chiedere all’amico Enrico, che oltre a essere ottimo medico è anche ottimo scrittore. Lui sì che saprebbe tirar fuori dalle parole i sentimenti e le sensazioni che nascono e muoiono durante l’incontro con le persone che di noi in quel momento hanno bisogno. Io non ne sono capace. Vorrei però descrivere un aspetto della mia interrelazione con i pazienti che mi ha sempre colpito, e di cui non ho mai parlato con gli altri medici. Chissà se capita anche a loro...
Vi è una costante quasi inevitabile, per me, durante il primo colloquio con una persona ammalata di tumore: presto o tardi nell’ambito del colloquio, tutte le persone, giovani o anziani, donne o uomini, si mettono a piangere. È sempre stato per me un cruccio e un’annosa domanda: «Sono io e il mio modo che li fa piangere? o è inevitabile, visto il pathos alla base di un colloquio nel quale viene comunicata la temuta diagnosi di tumore?». Il concetto che ho di me stesso come comunicatore di diagnosi e prognosi mi ha sempre indotto a pensare che ai pazienti basti vedere la mia faccia e sentire le prime venti parole per mettersi a piangere. Probabilmente alcuni concorderanno con questo. Per me comunque rimane un problema irrisolto e non credo che ne verrò a capo.
È proprio vero: «più che mai il medico ha bisogno di imparare l’arte del relazionarsi». Nessuno ci ha mai insegnato qualcosa a questo proposito. Ho partecipato a corsi sull’arte del comunicare a congressi, o sulla gestione multidisciplinare del personale, ma nessuno mi ha mai spiegato come relazionarmi con le persone, siano esse malate o sane. Si dà per scontato che io sappia affrontare i pazienti, i loro problemi, congiungerli o meglio disgiungerli dai miei, e quindi dare risposte adatte alle loro necessità. Niente di più falso e di più difficile da realizzare. Come trasmettere a loro la mia solidarietà, ammesso che esista? Come far loro capire che questo tunnel che è la malattia e che spesso sembra, o è, un tunnel di cui non si scorge via d’uscita, può a volte avere uno sbocco alla luce del giorno? Come entrare in fraternità con loro? Ho solo domande e non risposte. Credo che indipendentemente dai miei sforzi molto giochi la formazione di un rapporto empatico con la persona che si ha davanti. Questo dipende dalla mia disponibilità, che non è quotidianamente la stessa, sono un uomo e non una macchina, e dalle affinità che si possono creare tra due persone, pur anche in un rapporto non paritario (sic!) come quello del medico con il malato.