umanità e malattiaLe competenze comunicativo-relazionali del medico e, più in generale, dell’operatore sanitario, stanno assumendo oggi giorno un’importanza rilevante tanto per ascoltare l’altro (persona malata o familiare), comprendendone esigenze e paure, quanto per imparare ad ascoltare se stessi e le proprie emozioni.Le sole conoscenze tecnico-scientifiche, infatti, non sono più sufficienti da sole ad attuare programmi di promozione della salute pubblica né a definire le basi della professionalità medica.

Sempre più che in passato, i pazienti sono esigenti, vogliono capire e partecipare alle scelte sulla propria salute, entrare nei problemi senza trascurare nulla. A tal proposito, credo che l’indispensabile punto di partenza per instaurare al meglio l’interrelazione medico-paziente a cui fa riferimento Chiara Lubich, sia proprio la storia della malattia, una storia più o meno particolareggiata, raccolta dalla viva voce del malato o della famiglia, una storia che occorre non solo attentamente ascoltare, ma anche saper intendere, vagliare, liberandola da informazioni false, esagerate, disordinate o a volte immaginarie. Un buon allergologo è in grado di chiarire, in tempi brevi, se i disturbi di un paziente sono realmente correlabili ad una specifica allergia oppure no, ma questa operazione richiede allo stesso tempo pazienza, tempo, studio e soprattutto considerazione della componente psicologica del malato.

Se provo a ricordare, dal periodo iniziale della mia attività professionale fino ad oggi, i diversi momenti della mia carriera, mi rendo conto quanto l’intuito psicologico e l’anamnesi, momento di massima intimità con il malato, siano necessari per capire gli intimi rapporti fra corpo e spirito: in ogni male fisico o funzionale vi sono (specie nella mia disciplina) ripercussioni psichiche, spesso causa determinante o aggravante di alterazioni fisiologiche del malato. Ho incontrato diverse categorie di pazienti: i frettolosi e gli ansiosi, che vogliono diagnosi e prognosi della malattia prima ancora che questa si manifesti palesemente; i pazienti tranquilli, che non desiderano sapere molte cose, ma solo quelle principali; quelli che accusano timidamente e a più riprese i loro malanni e che andrebbero rassicurati con strategie diverse, prima fra tutte l’accoglienza; ci sono alcuni, invece, che riferiscono la loro storia in modo confusionario, speranzosi che il medico possa fornire loro una pronta e adeguata risposta. Sono, questi, esempi di chi cerca nel medico, allo stesso tempo, una mente illuminata dalla tecnica e dalla scienza e una mente guidata dal cuore che sappia ascoltarli, capire i loro pensieri e le loro debolezze. Peraltro, l’amore profondo per la professione e la responsabilità del dovere costituiscono gli elementi che mi danno la forza di superare le fatiche del lavoro quotidiano fatto con coscienza, nonché dell’insegnamento universitario o dell’infinito studio per le pubblicazioni scientifiche.

Tuttavia l’arte della comunicazione e lo scambio di esperienze incentrato sul rispetto della persona deve realizzarsi anche nell’équipe medica operativa, mettendo a disposizione degli allievi (studenti, specializzandi, giovani assistenti) la propria competenza tecnica e il proprio senso etico. Ogni giorno lavorativo nel nostro gruppo inizia con un incontro collegiale tra me e i miei giovani (sono ormai più di 15!) per scambiarci pareri e informazioni sui pazienti che visiteremo in quel giorno. È un’occasione per fornire loro non solo notizie tecniche che alla loro giovane età possono mancare, ma soprattutto l’esempio sul campo di un equilibrato (lo spero!) confronto tra scienza e accoglienza, professionalità medica e dialogo con il malato.

Per realizzare tutto questo è però necessario darsi dei riferimenti non equivoci e validi per tutti, ad esempio: concordare l’uso della medesimo linguaggio tecnico; instaurare una cordiale collaborazione a profitto del malato; evitare crudi giudizi contro i propri colleghi; coniugare la rigorosa metodologia clinica e scientifica con l’uomo malato sempre diverso da un altro uomo che pure presenti la stessa malattia; tenere sempre a mente che è nostro preciso compito aiutare il paziente funzionale: anche se non presenta una malattia organica, è un individuo che soffre.

Sembrano discorsi retorici o norme deontologiche da buon samaritano e forse lo sono realmente, ma sono anche il presupposto essenziale per intendere la professione medica un vero e proprio servizio, per essere professionisti e non “mestieranti”.

Alla luce di quanto detto finora non mi sentirei un buon medico né tanto meno un buon componente di un’équipe se non mi sforzassi di fondere la competenza con la comprensione e il rispetto della sofferenza dell’ammalato; la sua anima non si misura e non si può saggiare con i test di laboratorio, ma si può tentare di abbracciarla con intelligente umiltà.

di DOMENICO SCHIAVINO

La relazione: l'essenza dell'arte medica

I medici si raccontano

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