Sono infermiera dal 1984 e coordinatore della pediatria dal 2004 nell’Ospedale San Paolo di Savona. Nella mia lunga esperienza ospedaliera non avrei mai potuto immaginare quello che è accaduto con il coronavirus,

sia come estensione territoriale che come natura dell’emergenza. E’ tuttora una situazione assolutamente nuova.

La pediatria di Savona è stata sempre caratterizzata da un’attenzione particolare all’accoglienza dei bambini e dei loro genitori. Le pareti del reparto sono tinteggiate a colori vivaci, ci sono libri e giochi per ogni età offerti da tanti bambini che sono passati da noi e da molte persone ed enti che ci hanno nel loro cuore. Nel reparto si sono sempre rincorse voci e risate di bimbi e di genitori, accolti e aiutati da 60 volontari che si alternano in reparto anche per leggere le favole alla sera ai piccini che non possono essere assistiti dai loro genitori. Una attenta educatrice programmava e coordinava le attività ludiche in modo che tutti i piccolini potessero sentirsi accolti, accuditi e soprattutto distratti dalla loro malattia.

Una iniziativa che doveva essere realizzata nel mese di marzo con il contributo della banca sarebbe stata l’ospedale dipinto, ovvero le pareti e il soffitto della sala di attesa e dell’angolo giochi dipinti come se si fosse immersi in un grande acquario e i bimbi, talvolta impauriti, in attesa di una visita o di un esame, giocare con il polpo o con la cernia o con i delfini e così poter scacciare via i timori dell’attesa.

Improvvisamente, con la pandemia, tutta l’attività ludica e di accoglienza è stata cancellata da un giorno all’altro. Abbiamo dovuto togliere i libri, i giochi e la possibilità, ai bimbi ricoverati, di condividere la sala giochi e di trascorrere insieme le ore del ricovero. Non è facile raccontare come in corsia si riesca a ridere e a far sorridere oggi. Infatti, non è facile trasmettere con le parole il potere di un sorriso, di una pacca sulla spalla, di uno sguardo compiaciuto, di un abbraccio. Oggi con la mascherina, la visiera, il camice e i guanti, è assai difficile se non impossibile dimostrare l’empatia ai piccoli pazienti che prima del corona virus si poteva semplicemente esprimere e donare con un sorriso.

L’equipe pediatrica ha avuto l’idea, con la fantasia e la collaborazione di tanti volontari, di trasformare questo impedimento in un nuovo modo di fare accoglienza. Sono state cucite mascherine e cuffiette coloratissime con disegni di pupazzi e animali: il tutto per cercare di apparire agli occhi dei piccoli pazienti in modo accattivante e potersi avvicinare senza incutere timore.

L’ospedalizzazione può essere vissuta come un evento traumatico: per questo l’impegno quotidiano nei confronti dei bimbi e dei loro genitori di tutto il personale del reparto è stato quello di adoperarsi in mille modi per far vivere la degenza il più serenamente possibile anche in questo periodo caratterizzato da stravolgimenti continui ed impensabili.

Le mamme – obbligate a stare sole con i loro piccoli, senza il supporto dei papà e dei nonni che amorevolmente si prestano a mille piccoli semplici gesti di affetto e attenzione come portare un caffè caldo con un pezzetto di focaccia – avrebbero avuto maggior bisogno dei nostri volontari, ma anche a loro è stato interdetto l’ingresso, e la focaccia ancora calda, solitamente offerta dai panettieri savonesi, non poteva più giungere in reparto.

Nel periodo pasquale è stata una gara ad offrire uova e colombe alla struttura andando un poco a lenire la tensione di quei momenti: è stato bello vedere i bambini intenti nel rompere questi oggetti ovoidali coloratissimi e con enormi fiocchi per giungere prima alla sorpresa e poi ai pezzetti di cioccolata. Un rito che precedentemente avveniva nella sala giochi con tanti bimbi, ora era limitato alla propria mamma nel chiuso della cameretta.

Nella struttura complessa di pediatria e neonatologia diretta dal dottor Alberto Gaiero e da me coordinata, il sentimento più comune è stato un senso di responsabilità e di preoccupazione, non tanto per sé stessi ma per i propri famigliari e per i bambini da assistere e il loro genitore. Il personale infermieristico all’inizio del periodo covid si è dedicato con attenzione e dedizione a ripetere tante volte alcune procedure orientate alla sicurezza propria e degli assistiti, come ad esempio indossare il camice, la mascherina, i calzari, i guanti e la visiera in opportune sequenze in modo tale da non entrare in contato col temuto virus. Questa manualità, tipica dei reparti per le malattie infettive, è stata una esperienza nuova per la pediatria: i consigli i suggerimenti e gli aiuti reciproci hanno ulteriormente coeso il personale del reparto.

Fortunatamente in ambito pediatrico ci sono stati alcuni casi sospetti e pochi accertati, nulla a confronto invece di quanto successo nei reparti di assistenza dell’adulto in quanto colà pochi erano i sospetti e moltissimi gli accertati. Nel periodo iniziale il personale era sotto tensione per la paura di contrarre il virus e poi trasferirlo ai propri famigliari, ma nessun collega si è mai tirato indietro e hanno dimostrato tutti un elevato senso del dovere e una forte professionalità. Un aneddoto che posso citare è che il personale infermieristico da me coordinato non solo era sempre disponibile per fermarsi oltre l’orario per garantire sicurezza e assistenza ai bambini ricoverati ma anche, benché tutti avessero ben pochi periodi di riposo, sollecitavano per rientrare anticipatamente e dare una mano alle colleghe in reparto.

Maggiore incertezza e senso di precarietà era data dal fatto che le indicazioni da rispettare cambiavano continuamente. Il poter lavorare spalla a spalla lunghe ore con il direttore della struttura e con il personale medico ha consentito di implementare sempre quanto ci veniva richiesto quotidianamente, assumendo tutti una prospettiva positiva e comprendendo che questo veniva fatto nell’interesse nostro e dei bambini.

Un altro fattore positivo è che nel reparto abbiamo sempre avuto i dispositivi di protezione individuale in numero adeguato. A livello personale la situazione che mi ha pesato maggiormente è stata quando, all’inizio, dopo esser entrata per la prima volta in contatto con un sospetto covid, tornando a casa presi la decisione di non fermarmi con mio marito ma di isolarmi in un appartamento prestatomi da una amica e passare là 20 giorni in isolamento. Questo ha comportato il vedere mio marito solo alla sera: ero in una camera in cui soltanto io potevo entrare dal giardino e parlavo con mio marito attraverso lo spiraglio di una porta socchiusa. E, come per tanti altri colleghi, non potei incontrare i miei genitori anziani per lunghe settimane.

Adesso stiamo tornando alla normalità e cerchiamo di sorridere, ma non è come prima, tutto è differente dall’avvento della pandemia e non è facile spiegare che cosa si nasconde dietro la parola corona virus o covid-19. Il virus si è mostrato fin da subito audace e ineluttabile, suscita paura: a me fa paura, a noi fa paura. Indossare ogni giorno un camice con il titolo di infermiere medico od operatore socio-sanitario non ci rende esenti dal provare paura. Per il ruolo che rivestiamo siamo solo più abili a gestirla: a volte la soffochiamo nel silenzio oppure troviamo sicurezza nel condividerla con gli altri colleghi con sincerità.

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