Stiamo affrontando il primo tentativo di convivenza con il coronavirus, ma sarebbe pericoloso pensare che vada subito tutto bene.
Potrà essere necessario fare degli aggiustamenti, a seconda dell'andamento dei contagi, smettendo di pensare che si possano applicare ovunque le stesse regole, senza tener conto dell’epidemiologia locale.
in uno dei suoi libri più affascianti Giorgio Cosmacini, grande storico e medico italiano, descrive la medicina come “l’arte lunga”. Due termini che ne definiscono aspetti fondamentali: da un lato il suo essere prima di tutto arte, ossia disciplina intrisa di pratica, esperienza, umanità e relazione. Dall’altro la sua storia, che è lunga quanto quella del genere umano: come e forse più di ogni altro elemento della nostra cultura, anche la medicina si evolve con i cambiamenti della nostra sensibilità e si adatta alle culture dei popoli che la praticano.
Da sapienza a tecnica, da interpretazione a sperimentazione, da similitudine della realtà e modello predittivo, il suo metodo ha sempre lo stesso fine: preservare o recuperare la salute dell’uomo.
Anche la definizione di salute segue le modifiche della nostra sensibilità e attraversa molti stadi: nell’antichità e per buona parte dell’età moderna si tende ad indentificare questo obiettivo ultimo dell’arte medica con l’assenza di malattia e sofferenza. Solo nella seconda metà del XX secolo si sviluppa, nel contesto di una sempre più ampia visione della persona nella sua interezza, la definizione oggi corrente: un completo stato di benessere fisico e psicologico, accompagnato da un soddisfacente equilibrio e funzionamento sociale.
Questa espressione, alla quale da più parti si contesta la mancanza di un rifermento esplicito ad una dimensione spirituale, è comunque ricchissima di significato e di conseguenze. Per dirne una, assai pertinente in questi lunghi giorni di emergenza coronavirus, assicurare la salute così intesa significa anche poter lavorare con profitto economico e gratificazione personale, ma senza che le esigenze lavorative mettano in discussione il diritto alla sicurezza, alla salute fisica, al riposo, a coltivare affetti e interessi esterni al lavoro.
La salute, dunque, è un difficile equilibrio di diritti, a volte drammaticamente in contrasto fra di loro: basta pensare allo stallo dell’ex-Ilva, che ben esemplifica il conflitto fra il diritto al lavoro e diritto alla salute. E in tempo di Covid-19, ciascuno percepisce facilmente la lacerazione a cui ci sottopone questo contrasto: è giusto riaprire per non far morire le imprese, o restare a casa per non ammalarsi?
Per sfiorare un tema di cui nessuno sembra aver voglia di interessarsi seriamente, è giusto ripartire con la scuola, consentendo ai nostri bambini di mitigare in parte le enormi conseguenze di questo sconvolgimento delle loro vite, o davvero l’unico modo per prevenire la circolazione virale è condannare una generazione a relazioni virtuali, a tempo indeterminato, senza altre prospettive se non l’andamento dell’R0?
Come molti, penso che questa situazione comporterà un cambiamento epocale del nostro modo di percepire e organizzare la società; negli anni a venire è probabile che sarà facile sostenere come lo sconvolgimento “fosse nell’aria” e che la pandemia sia la circostanza che ci ha spinto lungo una nuova direzione.
Può darsi, ma noi ora ci siamo in mezzo e dobbiamo fare i conti senza il senno di poi: per ora stiamo accelerando verso un cambiamento di cui non possiamo intuire direzione e portata. Ma alcun cose le possiamo vedere con chiarezza anche adesso.
Il Covid-19 non se ne è andato: si tratta di una malattia nuova che ha buone probabilità di diventare endemica. Non sappiamo se l’immunità di gregge o il vaccino avranno effetti mitiganti, risolutivi o (speriamo di no) insignificanti; le conseguenze di questa patologia si faranno sentire a lungo, forse per sempre, sull’organizzazione delle nostre comunità e sul nostro modo di intendere i diritti, compreso quello alla libertà e all’iniziativa personale.
In queste settimane stiamo affrontando il primo tentativo di convivenza con il virus: è un primo passo, che abbiamo chiamato “fase 2”, ma sarebbe presuntuoso e pericoloso pensare che vada subito tutto bene, che si sia capito già come organizzarci al meglio, che non ci sia da aggiustare il tiro.
E basta guardare l’andamento dei casi nei primi giorni dopo il 4 maggio per capire che di aggiustamenti da fare ce ne potrebbero essere eccome: il primo è smettere di pensare che si possano applicare ovunque le stesse regole, senza tener conto dell’epidemiologia locale.
Nell’ultima settimana, per tre giorni di seguito, in Lombardia il numero di casi attualmente positivi è stato in crescita e solo ieri è tornato a scendere; la curva descrive un andamento preoccupante a dente di sega, mentre praticamente tutte le altre regioni, meno interessate dal fenomeno, stanno mostrando una costante discesa.
Il che è perfettamente spiegabile con l’altra evidenza che balza all’occhio guardando il grafico: la Lombardia ha un numero di malati di 200 volte superiore a quello dell’Umbria. Rapportandosi al numero di malati su popolazione, al momento in cui siamo ripartiti nella regione più colpita c’erano 370 positivi ogni 100.000 abitanti, mentre la Toscana ne aveva 140 e l’Umbria 22.
Un fenomeno da monitorare con attenzione e trasparenza: se c’è una cosa preziosa che possiamo imparare meditando sulla definizione di salute, è la necessità che in ogni contesto siano individuati i determinanti da potenziare e i rischi da allontanare. La “cura” sarà necessariamente personalizzata, adatta al momento e al luogo, avendo come obiettivo il bene comune e la tutela del singolo.
Può essere doloroso pensare che ci siano realtà più fortunate e altre meno, che in alcune zone del Paese forse sia prematuro compiere altri passi in avanti, anche se tutti lo desideriamo: ma chiudere gli occhi ora dinanzi ai segnali d’allarme non può che condurci ad altre sofferenze.
Stavolta abbiamo la possibilità evitarlo.